The Experiment, l' esperimento carcerario di Stanford

"The Experiment" di Oliver Hirschbiegel è un film su uno degli esperimenti psicologici più controversi della storia, il celebre "Esperimento carcerario di Stanford" condotto dal Professor Philip Zimbardo nel 1971.

In breve, 24 studenti universitari, definiti mentalmente sani, furono selezionati e assegnati casualmente ai ruoli di "guardie" o "prigionieri" in un carcere simulato allestito nel seminterrato del dipartimento di psicologia di Stanford. Ciò che doveva essere uno studio di due settimane venne interrotto drasticamente dopo soli sei giorni. Le "guardie" iniziarono rapidamente ad abusare del loro potere, imponendo regole umilianti e utilizzando punizioni psicologiche severe. I "prigionieri", dal canto loro, manifestarono segni di forte stress, depressione e sottomissione.

"The Experiment" portò sullo schermo proprio questa drammatica trasformazione psicologica, evidenziando la potenza dei contesti sociali nel plasmare l'identità e le azioni individuali. La regia di Hirschbiegel è caratterizzata da inquadrature claustrofobiche e una fotografia che diventa progressivamente più cupa, riflettendo il deterioramento psicologico dei personaggi.

Esistono altri film sul medesimo esperimento, ma questo del 2001 ci sembra il più riuscito in quanto capace di creare un'atmosfera di crescente tensione grazie anche ad alcune interpretazioni intense, in particolare dello spietato Berus (Justus von Dohnányi) nel ruolo di una guardia carceraria.

Un ritratto inquietante di come l'autorità possa corrompere la psiche umana.


Sublimazione libidica

È evidente che il digitale, in particolare le piattaforme social, ricettacolo di narcisi frustrati che inconsapevolmente partecipano al feticismo delle merci, rappresenti una forma di appagamento del desiderio libidico.
I corpi diventano veri e propri oggetti di culto, cui è assegnato un valore di scambio stabilito dal tritacarne algoritmico. I rapporti sociali di conseguenza si trasformano in transazioni, il cui ‘prezzo’ è determinato dall’abbondanza o dalla scarsità dell’apprezzamento del profilo-utente. Questo spiega anche il proliferare di app di incontri che illudono di poter rispondere alla domanda di conforto, amore e senso di appartenenza sociale che appaiono ormai lontane vestigia di un passato in cui si pagava in lire e si ascoltava la musica col walkman. Alcuni bisogni umani non sono cambiati però, benché qualcuno spinga verso il transumanesimo in cui sembra diventare ineluttabile l’interazione uomo-macchina.
Tuttavia le emozioni, i sentimenti ed i bisogni psicologici si sono fatti merce di scambio nel mondo governato dagli algoritmi che, capaci di auto-apprendimento, si sono perfettamente adattati per rispondere alla domanda, rispecchiando così la reificazione del mondo che contraddistingue il sistema capitalistico. Gli algoritmi digitali si alimentano di interazioni umane, del desiderio di accettazione sociale, del bisogno di amore e di rassicurazione, della ricerca del sacro e del trascendente.
Gli algoritmi offrono soluzioni al disagio psicologico che grava su quest’epoca, illudono di poter diventare milionari lavorando da casa e se non ci si riesce, si può sempre comprare da milionari grazie a Temu. Questi insiemi di istruzioni che lavorano in un mondo sotterraneo, invisibile e impalpabile ma che ha effetti profondamente condizionanti sul singolo e sulla società, soddisfano le pulsioni libidiche, ormai sublimate in un caleidoscopio di novità digitali che intrattengono, distraggono e spolpano la mente. Il potere del digitale sta nella capacità di colonizzare la psiche avvolgendola in una piacevole nebbia anestetica perché capace di rispondere a qualunque bisogno psicologico. Il digitale agisce da antidolorifico, narcotizza e insieme rasserena, distogliendo dalle preoccupazioni, dalle domande scomode, dalla dolorosa ricerca di senso e al contempo infonde piacere, presentandosi come facile soluzione alla nausea esistenziale. 

                                                     AM


Il calcio come metafora della vita

Camus diceva che un campo di calcio è un microcosmo della vita stessa: imprevedibile, collettivo, a volte crudele, a volte sublime, ma sempre, sempre degno di essere vissuto fino all'ultimo istante.

Per Pasolini il calcio era una rappresentazione sacra, lo vedeva come un linguaggio poetico, come un “sistema di segni”.

Effettivamente il calcio può essere visto come una grande metafora. Pensiamoci.

La partita inizia con un fischio. Proprio come la nostra esistenza, che comincia improvvisamente. Ci troviamo sul campo, già in gioco. Il pallone rotola ed è come la fortuna nella vita, che segue traiettorie che possiamo cercare di calcolare ma mai controllare completamente.

Il portiere è il custode delle nostre paure e speranze. Sempre pronto a parare l'imprevisto, rappresenta la nostra capacità di affrontare le difficoltà con determinazione e lucidità.

I difensori sono i nostri principi e valori. Proteggono ciò che è importante, affrontano le sfide con coraggio e spesso sono invisibili, ma essenziali per mantenere l'equilibrio.

I centrocampisti incarnano la nostra capacità di adattamento e comunicazione. Connessi con tutti, orchestrano le azioni, bilanciando attacco e difesa, proprio come noi bilanciamo emozioni, pensieri e relazioni.

Gli attaccanti sono i nostri sogni e ambizioni. Spingono sempre in avanti, cercando di realizzare ciò che desideriamo, ma senza il supporto degli altri ruoli, il loro slancio rimarrebbe vano.

L'allenatore è la nostra weltanschauung. Guida la squadra, prende decisioni strategiche e sa quando è il momento di cambiare direzione, proprio come noi nella nostra vita.

L'arbitro rappresenta il destino o le regole della società, a volte sembra giusto, altre volte ingiusto. Possiamo protestare, ma alla fine è lui che decide, e dobbiamo accettarlo.

I tifosi sono i testimoni della nostra vita, coloro che ci osservano, ci giudicano, ci sostengono o ci criticano. A volte la loro presenza ci dà forza, altre volte ci mette pressione.

Il tempo scorre inesorabile, scandito da un orologio che non possiamo fermare. I novanta minuti della nostra esistenza, che a volte sembrano eterni e altre volte troppo brevi.

Gli avversari non sono per forza nemici, ma ostacoli necessari che ci spingono a migliorare, a trovare nuove strategie, a reinventarci continuamente. Senza di loro, non ci sarebbe partita, non ci sarebbe crescita. A volte si segna, e la gioia è incontenibile. Altre volte si subisce un gol e si prova dolore. Ma la partita continua, implacabile, e bisogna rialzarsi, ritrovare la posizione, ricominciare a correre.

E alla fine, quando arriva il triplice fischio, ciò che conta non è solo il risultato sul tabellone, ma l’averci provato, l’aver giocato.

Nel calcio, come nella vita, ogni ruolo è interconnesso.

Il calcio ci insegna che, per navigare nella vita, per raggiungere degli obiettivi dobbiamo trovare le migliori strategie, gli equilibri e la giusta alchimia all'interno di noi.



McLuhan, estensioni ed amputazioni

Marshall McLuhan nel suo celebre testo "Gli strumenti del comunicare" sosteneva che ogni tecnologia rappresenta essenzialmente un prolungamento delle facoltà umane, fisiche o psichiche.

Secondo McLuhan, ogni mezzo tecnologico amplifica una particolare capacità umana: la ruota è un'estensione del piede, il telefono è un'estensione dell'orecchio, la televisione è un'estensione dell'occhio, i vestiti sono un'estensione della pelle, i computer sono un'estensione del sistema nervoso centrale ecc.

La sua visione considerava la tecnologia non come qualcosa di esterno a noi, ma come parte integrante della nostra evoluzione biologica e culturale. I mezzi tecnologici visti dunque non come semplici strumenti che utilizziamo, ma vere e proprie protesi che modificano il nostro modo di percepire e relazionarci con il mondo.

Vi è, secondo il sociologo canadese, però anche un fenomeno complementare, ovvero ogni estensione comporta un' "amputazione". Quando adottiamo una nuova tecnologia, deleghiamo ad essa alcune nostre funzioni, rischiando di atrofizzarle, gli esempi che potremmo fare in tal senso sono molteplici.

Queste intuizioni di McLuhan oggi risuonano ancora più potenti, gli smartphone sono diventati estensioni della nostra memoria. La realtà virtuale estende le nostre percezioni sensoriali. L'intelligenza artificiale estende e amputa allo stesso tempo le nostre capacità cognitive.

Se McLuhan avesse potuto osservare il modo in cui oggi si vive costantemente connessi ai dispositivi, probabilmente avrebbe visto la conferma delle sue teorie. La sensazione di disagio quando si è senza smartphone (la cosiddetta “nomofobia”) può essere interpretata come la reazione a una temporanea "amputazione" di una parte ormai integrata di noi.

La visione di McLuhan ci offre una prospettiva profonda per comprendere il rapporto simbiotico che abbiamo sviluppato con la tecnologia. Non si tratta più di strumenti esterni che utilizziamo, ma di vere e proprie estensioni del nostro essere, che modificano il nostro modo di percepire e interagire con il mondo. Come suggeriva McLuhan, "prima plasmiamo i nostri strumenti, poi sono questi che ci plasmano".

Oggi che la distinzione tra umano e tecnologico diventa sempre più sfumata, il pensiero di McLuhan offre strumenti preziosi per cavalcare questa trasformazione con consapevolezza e intenzionalità.


Dimensione "senza corrispondenza"

Ogni autentico percorso filosofico nasce da qualcosa che precede il pensiero razionale strutturato. Prima che la mente possa articolare concetti e costruire sistemi, esiste già in noi una forma di conoscenza primordiale e immediata dell'essere, una Weltanschauung.

Quando ci si avvicina alla filosofia, si porta con sé un'intuizione fondamentale che non è frutto di ragionamento ma di esperienza diretta. È una comprensione che precede il linguaggio e che resta, per sua natura, ineffabile. 

Questa conoscenza non si può descrivere completamente attraverso proposizioni logiche, poiché è la condizione stessa che rende possibile ogni tentativo di articolazione concettuale.

Come osservava Dostoevskij, si conosce questa dimensione "senza corrispondenza" – cioè senza la mediazione di simboli o rappresentazioni. È una conoscenza diretta, immediata, che sfugge alla cattura del linguaggio pur essendo innegabilmente presente.

La dialettica, con il suo movimento di tesi, antitesi e sintesi, non è che un tentativo di dare struttura razionale a qualcosa che, in origine, si manifesta come intuizione unitaria.

Quando il filosofo sviluppa il suo sistema, sta essenzialmente cercando di tradurre in concetti un'esperienza che precede i concetti stessi. È come se la filosofia fosse il tentativo di cartografare un territorio che già conosciamo intimamente, ma che non possiamo descrivere direttamente.

L'intuizione fornisce la materia prima, l'esperienza fondamentale dell'essere, il pensiero razionale tenta di organizzare questa esperienza in strutture comprensibili e comunicabili.




Algomondo

Hanno convinto le persone che non possono fare a meno di consumare. Così sì consumano alimenti industriali modificati artificialmente per essere resi più appetibili grazie ad esaltatori di sapidità, coloranti e addensanti. Si usano farmaci di cui non si ha bisogno ed ogni mese sul mercato ne sono lanciati di nuovi: ormai esiste un antidolorifico specifico per ogni parte del corpo. Si guardano film, serie tv e programmi standardizzati; si vestono abiti pensati per l’individuo qualunque, cuciti nelle stesse fabbriche nelle periferie del mondo; si ascolta musica prodotta da replicanti e si guidano macchine che spiano tragitti, frenate e parcheggi. Si acquista roba di plastica online e ci si indebita per altra roba di plastica, magari da iniettare sottopelle per sembrare più giovani.
Ci si informa attraverso media che veicolano contenuti preconfezionati; si lavora anche quando si è a casa, per rispondere al bombardamento di mail che costringono ad essere segretari di se stessi. Si producono contenuti sui social, non-luoghi di falsa socialità funzionale alla logica del profitto.
Hanno convinto le masse che non possono fare a meno di vivere in questa nuova società organizzata scientificamente, come in una moderna fabbrica toyotista. Ammassati come merce a basso costo su uno scaffale, oscillanti tra le onde di una bulimica economia di mercato, ci si sente cosmopoliti seduti a bordo di un volo Ryanair con le ginocchia alla bocca.
Tutti efficienti per l’algomondo, il mondo governato dagli algoritmi di intelligenza artificiale. In realtà si lavora per loro, per incrementarne la potenza, la capacità di calcolo e quella previsionale. Si produce e si consumano al contempo dati digitali in quella
 che il sociologo Lelio Demichelis ha recentemente definito la moderna società-fabbrica. 



                                                    AM

Corsi di "Risveglio"

 “Sto facendo un corso di risveglio!”.

Nel 2025 ancora circolano “corsi di risveglio”, gli stessi che vengono propinati da una ventina anni, trovando sempre nuove leve.

"Vibrazioni energetiche", "Coscienza superiore", "Matrix sociale", "Risveglio dal sonno collettivo", sono solo alcuni tra i termini evocativi utilizzati per creare quella sensazione di esclusività che tanto piace all'ego del "ricercatore spirituale".

Abbiamo già trattato questo argomento per quello che è ma purtroppo finchè la gente non ci sbatte il muso non riesce a comprendere. Trattasi di un modello di “business” alternativo, semplice ma efficace, fondato su due punti:

  •         tu sei "addormentato" in un mondo di "dormienti"
  •         il corsista, anche lui era un addormentato eh, un giorno si è svegliato e ora vuole svegliare gli altri con un percorso verso il "risveglio" a pagamento. Un filantropo.

È lo stesso meccanismo della pubblicità più banale, solo che invece di vendere una crema antirughe, vendono una promessa di una trasformazione esistenziale.

La strategia di vendita si basa solitamente su alcuni elementi:

- Il momento storico: "Il mondo sta cambiando, le vibrazioni si stanno alzando, non rimanere indietro!".

- L’esclusività: "Non tutti sono pronti per questo messaggio, tu se sei qui è perché sei una sorta di eletto, su quelli come noi dipenderà il futuro" (l’ego del “ricercatore spirituale” si gonfia ancora).

- La “scienza”: vengono proposti riferimenti a casaccio alla fisica quantistica o alle neuroscienze per dare un tono di scientificità, per non sembrare dei cialtroni insomma.

Il fenomeno è insidioso perchè sfrutta bisogni umani quali il desiderio di appartenenza, la ricerca di significato e la voglia di trascendere le difficoltà quotidiane. Funziona particolarmente bene, specialmente in momenti di vulnerabilità personale.

Il "risvegliato" viene progressivamente isolato dal suo ambiente sociale originario ("loro non capiscono", "sono ancora addormentati") e inserito in una nuova comunità di persone “sveglie”. Ogni dubbio viene reinterpretato come "resistenza dell'ego" o prova che "non sei ancora pronto". Un meccanismo di controllo mentale perfetto: impermeabile alla critica esterna e capace di trasformare il fallimento in conferma della propria validità.

Ovviamente c’è il discorso economico, perché chiaramente c’è tutta una metodologia di marketing (“ultimi posti disponibili”, “prima lezione gratuita” ecc) ma il danno più grave è psicologico. Questi percorsi incoraggiano una visione semplicistica della realtà, dove problemi complessi hanno soluzioni facili. Promuovono un narcisismo spirituale che porta a guardare dall'alto in basso chi "non capisce", e creano dipendenza da esperienze emotive piuttosto che favorire una reale crescita interiore.

Se i partecipanti non ottengono i risultati promessi, la responsabilità ricade ovviamente su di loro: "stai resistendo al cambiamento", "devi lasciar andare le tue limitazioni". Mai, in nessun caso, si contempla la possibilità che l'intero sistema sia fondato su presupposti fallaci.

Cari amici che cadete in buonafede in questi deleteri buchi di nulla (ci sarebbero da fare tanti nomi di geni che propinano tale spazzatura), a causa di una società materialista che non offre sbocchi verso la trascendenza, ricordate che la vera ricerca spirituale richiede silenzio, studio, apertura al pensiero critico, non dogmi presentati come verità assolute. Necessita di integrazione con la vita quotidiana, non fuga dalla realtà. Studia tradizioni filosofiche e spirituali seriamente, non si appropria superficialmente di concetti estrapolati dal contesto mescolandoli con becere tecniche di marketing.

Fate attenzione perché, per esperienza vi diciamo che alcune persone alla lunga hanno subito conseguenze da questi “percorsi”, purtroppo a volte anche tragici.



Misantropia?

Le persone profonde e riflessive tendono, con il passare degli anni, a trascorrere tanto tempo in solitudine e c'è sempre qualcuno pronto a farle sentire in errore. Ma non si tratta di misantropia o di depressione, è un fattore naturale. Chi è molto introspettivo, nell'arco della vita si trova a confrontarsi con una realtà complessa e mentre esplora le profondità del pensiero, riscontra difficoltà nel trovare interlocutori che condividano lo stesso livello di riflessione o gli stessi interessi. Questo conduce ad un certo isolamento, non per misantropia appunto, ma per la difficoltà di stabilire legami autentici e soddisfacenti. Al contrario, chi ha un approccio più leggero alla vita ha più facilità nel costruire una rete sociale ampia. La sua capacità di mantenere conversazioni leggere, di adattarsi rapidamente ai contesti sociali e di non necessitare di scambi particolarmente profondi, gli permette di creare e mantenere numerosi contatti, seppur più superficiali. È naturale anche questo. Semplicemente due modi diversi di essere. Non c'è giusto o sbagliato. Chi vive più in profondità non deve mai adattarsi agli altri per essere accettato, può essere animicamente deleterio vivere solamente di interazioni basate su argomenti percepiti come futili o superficiali. Se si necessita di lunghi periodi di solitudine per elaborare riflessioni, riducendo inevitabilmente il tempo dedicato alla socializzazione, ciò è normalissimo. Come sempre, bisogna solo trovare un equilibrio, coltivare le proprie inclinazioni senza rinunciare completamente alla dimensione sociale. Ma mai cambiare la propria natura per timore di essere considerati "strani". 



Sincretismi

L’illuminismo, nel suo tentativo di liberare l'umanità dalle "catene" del pensiero religioso, ha sottovalutato un aspetto fondamentale della natura umana: il bisogno irriducibile di dare un significato trascendente all'esistenza.

I filosofi razionalisti, convinti che la ragione potesse sostituire completamente la religione, non hanno compreso che stavano opponendosi non a semplici costruzioni sociali eliminabili, ma a un'esigenza radicata nel profondo dell'essere umano. L'impulso a cercare un significato ultimo, che trascenda l'immediato e il materiale, non è un'abitudine culturale da superare, ma una dimensione costitutiva dell'umano.

Il risultato di questo fraintendimento è stato paradossale. Anziché creare una società "libera dalla religione", il razionalismo ha involontariamente generato un proliferare di surrogati spirituali, di ideologie totalizzanti, di culti della personalità e di sistemi di pensiero che, pur rifiutando l'etichetta di "religione", ne hanno assunto le funzioni essenziali: offrire risposte ultime, creare comunità di fedeli, stabilire rituali, definire valori assoluti.

La modernità ha visto nascere una serie di "religioni senza Dio": dal culto della Ragione durante la Rivoluzione Francese alle grandi ideologie politiche del Novecento, dal consumismo come pratica rituale fino alle attuali forme di spiritualità sincretiche e individualizzate. Ciascuna di queste manifestazioni rivela, nella sua stessa esistenza, il fallimento del progetto di un'umanità puramente secolare.

Particolarmente significativo è l'eclettismo spirituale contemporaneo, dove ciascuno compone il proprio personale mosaico di credenze attingendo liberamente da tradizioni diverse, spesso incompatibili tra loro. Questo approccio, apparentemente libero e creativo, nasconde un pericolo profondo: la superficialità di una ricerca che, nella sua incapacità di radicarsi, finisce per replicare la stessa frammentazione che intendeva superare.

Fracta Veritas - Weltanschauung Italia

E' disponibile il nostro nuovo libro “Fracta Veritas”.

Fracta Veritas è un testo che nasce dalla consapevolezza che in questa epoca le Verità che possiamo cogliere appaiono inevitabilmente frammentarie e parziali. La complessità attuale non si presta più a grandi narrazioni unitarie o a sistemi filosofici onnicomprensivi. La realtà che viviamo quotidianamente si manifesta attraverso schegge di significato, lampi di comprensione, intuizioni fugaci che illuminano brevemente il caos per poi lasciare spazio ad altre prospettive, altrettanto valide ma necessariamente incomplete. È proprio questa consapevolezza che guida la struttura del presente testo il quale si può aprire casualmente poiché ogni frammento è un tentativo di catturare un aspetto della nostra condizione, di cogliere una sfaccettatura della realtà.

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"Femminicidi"

Ogni volta che una donna viene uccisa da un uomo, la cronaca si trasforma in rito. Non si racconta un fatto, ma si celebra un archetipo: la donna vittima per il solo fatto di essere donna, l’uomo carnefice per il solo fatto di essere uomo. Si parla di “femminicidio” non come categoria descrittiva, ma come verdetto culturale. Non importa il contesto, la storia personale, le motivazioni individuali. Importa il simbolo. Importa rafforzare una narrazione: quella della mascolinità tossica, dell’uomo intrinsecamente pericoloso, e di una società ancora patriarcale da decostruire. In questo schema, chi non si cosparge il capo di cenere viene subito etichettato. Il dubbio, la domanda, l’analisi razionale sono vietate. È sufficiente dire: “forse non tutti i casi sono uguali”, “forse le dinamiche relazionali sono più complesse”, “forse il concetto stesso di femminicidio andrebbe ridiscusso” — e si è subito messi da parte. Colpevoli di lesa ideologia. Ma la realtà è più ostinata delle narrazioni. I dati, ad esempio, mostrano che i cosiddetti “femminicidi” sono più frequenti nei paesi ritenuti culturalmente avanzati. Francia, Germania, paesi nordici — luoghi di emancipazione, benessere, e ampia libertà sessuale. Questo non dimostra nulla in modo assoluto, ma pone una domanda scomoda: e se le relazioni contemporanee, segnate dalla rapidità, dalla fragilità, dalla mercificazione affettiva, stessero generando nuove insicurezze e nuove forme di squilibrio emotivo? È vietato anche solo chiederselo? Quando una psicologa afferma che “un rifiuto oggi è inconcepibile, in un mondo dove si vuole tutto con un click”, viene presa sul serio solo se il discorso rientra nel frame accusatorio contro l’uomo. Ma il cuore della sua riflessione è un altro: viviamo in un’epoca in cui la struttura psichica dell’individuo è più fragile, e i legami sono più instabili. L’uomo che uccide non è sempre il patriarca dominante. Spesso è un relitto umano, solo, disperato, infantilizzato, emotivamente disarmato. Questo non giustifica nulla. Ma spiega. E spiegare non è difendere, è tentare di capire. Ma sembra che oggi capire sia diventato il vero reato. Nel frattempo, milioni di uomini e donne vivono relazioni serene, paritarie, profonde. Ma nessuno li ascolta. Non fanno notizia. Non sono utili alla battaglia. Non rientrano nel modello. Ecco allora l'effetto più pericoloso: la narrazione perenne del conflitto tra i sessi finisce per logorare anche ciò che funziona. Distrugge la fiducia, semina sospetto, isola gli individui. In nome di una giustizia ideologica, rischiamo di perdere il terreno comune su cui costruire qualsiasi affetto umano. E questo non è progresso. È solitudine mascherata da lotta.


                                                         AP


Autorità educative

Ai tempi delle scuole superiori ricordiamo un insegnante che cercava di placare una classe caotica alzando la voce, distribuendo note e voti negativi. Risultato? Ulteriore caos e zero rispetto da parte degli studenti. Costui cercava metodi "esterni" per ottenere un minimo di attenzione ed ordine, ma gli studenti ne percepivano la debolezza di fondo. Si creava così un circolo vizioso di ribellione e punizioni sempre più severe. Un altro insegnante invece, non alzava mai la voce, aveva anche scarsa empatia con gli studenti e non aveva neppure un aspetto che potesse incutere timore. Eppure, nessuno fiatava, le lezioni si svolgevano in silenzio e tranquillità. Come si spiega? Costui era una "presenza silenziosa". Non aveva bisogno di strumenti coercitivi perché emanava naturalmente un'aura di rispetto. Questa qualità si manifesta attraverso vari elementi sottili tra cui la sicurezza del proprio ruolo, la coerenza tra parole e azioni, la capacità di mantenere la calma anche in situazioni di tensione e di stabilire confini chiari senza dover ricorrere a minacce. È interessante notare come gli studenti, specialmente in età adolescenziale, siano particolarmente sensibili a questi segnali non verbali. Possono percepire immediatamente la differenza tra un'autorità autentica e un tentativo di imposizione dall'alto, reagendo di conseguenza. Questa "essenza non verbale" ha radici profonde, è simile al carisma che alcune persone possiedono naturalmente. Gli studenti rispettano questi insegnanti non perché temono le conseguenze, ma perché percepiscono una figura integra. L' autorità in ambito educativo non è qualcosa che si può imporre attraverso la coercizione, trovando metodi psicologici sempre più efficaci di controllo, ma una figura in grado di sviluppare quella presenza interiore che emana naturalmente rispetto e attenzione. È quella che potremmo chiamare "autorità naturale", una qualità che va oltre le parole.

E se non ci fosse rete?

Tanti adolescenti non solo non sanno più cosa sia un diario di scuola, perché il registro elettronico, sistema capillare di biopotere, tiene traccia di tutto, ma nemmeno hanno più il portafoglio. Documenti, patente, agenda e denaro sono digitalizzati sul telefonino.  

Si esce con il telefonino, e tanto basta. Sarebbe troppo porsi alcune domande come:  e se non ci fosse rete? E se si scaricasse la batteria?

Internet-dipendenti. Non immaginano un mondo senza rete. Eppure un mondo disconnessi esiste e deve continuare ad essere tenuto vivo: invece di pensare a vivere ‘’on-life’’, tanti dovrebbero imparare a vivere. Non si può negare che Internet rappresenti una comodità, ma quando questa si trasforma in qualcosa di imprescindibile che avviluppa la psiche, si perde la libertà. E infatti la libertà ha sempre interessato i pochi. Non poter immaginare un’alternativa, significa precludersi una possibilità di esistenza. Non riuscire a pensare ad altro modo di vivere rende omologati e prevedibili. Oggi è tutto un risuonare di slogan: “Dove vuoi e quando vuoi!”. Certo, tutto a portata di mano, tutto subito, tutto ovunque, tutto sempre. Anche tu. Anche tu devi essere sempre raggiungibile, sempre localizzabile, sempre spremibile, sempre contabilizzabile. Un piccolo puntino che si muove insieme a tanti altri puntini, come i pixel su uno schermo. La sincronia deve essere perfetta. Il pixel fuori posto va corretto. O eliminato. Tanti piccoli puntini pronti ad occupare posti prefissati nella rete neurale digitale. Funzionali al sistema, questo è importante. Utili per la spremitura.

In alcuni paesini tedeschi in cui le attività commerciali hanno chiuso, stanno aprendo supermercati completamente automatizzati, gestiti dall’intelligenza artificiale e aperti 24 ore su 24, 7 giorni su 7: basta prendere i prodotti dagli scaffali e metterli nel sacchetto, le videocamere registrano i movimenti del cliente e il conto è scalato direttamente dall’app del telefonino.

Coloro che utilizzano il telefonino per qualunque cosa, persino per pagare il caffè al bar, saranno i primi a esultare quando si diffonderanno i negozi senza personale. I poveri lobotomizzati, operai senza paga della moderna fabbrica del digitale, privi di qualunque capacità previsionale, non si renderanno nemmeno conto di essere condannati alla disoccupazione.

A fronte di una massa di individui che dice frasi come: “Lo smartphone è la mia vita”, diventa ancor più importante tenere vivo un mondo senza internet. L’alternativa alla rete è un’esistenza piena e ricca, fatta di riflessione, introspezione e godimento del bello. Ormai si tratta di una esistenza di élite, riservata ai pochi che ancora riescono a esistere nel mondo vero.

                                                                                    AM

Stati d'infanzia

C'è un momento nella vita in cui il mondo appare senza divisioni, senza etichette, senza le categorizzazioni che più tardi impariamo a considerare inevitabili. È nell'infanzia che sperimentiamo questa visione pura, questa percezione immediata che trascende ogni dualismo. 

Dove si possono ritrovare questi stati di grazia, questi istinti primordiali, questa meraviglia perduta? Forse nei sentieri meno battuti della filosofia, quella che non si perde in argomentazioni ma ci riporta all'esperienza diretta. Nella contemplazione che le tradizioni spirituali hanno trasmesso. Nell'approccio di Goethe alla natura - non un oggetto da analizzare ma un organismo vivente da comprendere attraverso l'empatia. La ritroviamo nell'esperienza di salire una montagna, quando il respiro si fa corto e la mente si svuota, lasciando spazio solo all'immediato. E la ritroviamo nel peregrinare, nell'accettare di essere eternamente in viaggio, mai fermi in un'unica posizione intellettuale o fisica, sempre aperti all'ignoto che ci attende oltre l'orizzonte. È in questo movimento costante che ci avviciniamo, non al centro, ma alle periferie della verità - dove i confini sono sfumati e l'incanto dell'infanzia può nuovamente manifestarsi. 



Trincee

Ci si sveglia al suono di una notifica. Il mondo digitale non attende, non rispetta i tempi umani. Si è già in ritardo prima ancora di aprire gli occhi. Si esce di casa armati di smartphone, agende digitali e tazze di caffè per affrontare la giornata. La competizione è l'aria che si respira. A scuola, all'università, nei colloqui di lavoro, nelle riunioni. Si è costantemente valutati attraverso "feedback" e "performance review". Numeri che determinano il valore di mercato, la rilevanza sociale. Non basta lavorare bene, bisogna "sapersi vendere". Non basta essere se stessi. E tutto questo ha un prezzo. Mutui trentennali, prestiti per la "formazione", leasing, rate e carte di credito. Debiti perenni per esistere, per partecipare a questo grande gioco. Le trincee della modernità sono invisibili ma non meno reali. Si combattono battaglie silenziose contro l'ansia, l'insonnia, la sensazione costante di inadeguatezza. Alcuni restano feriti, altri disertano, molti continuano a marciare perché non conoscono alternative. Si parla di guerre e riarmo, ma la vita moderna è già una trincea, bisogna solo prendere consapevolezza e decidere per quali battaglie vale la pena combattere.




"Requiem for a Dream" di Darren Aronofsky

"Requiem for a Dream" di Darren Aronofsky è un monito universale sulle dipendenze che vanno molto oltre la tossicodipendenza tradizionale. In un'era di dipendenze digitali, ossessioni da social media, consumismo compulsivo e perdita di connessione umana, l’opera di Aronofsky del 2000 è attualissima.

Il film demolisce l'illusione che le dipendenze siano solo legate alle sostanze stupefacenti. Mostra con spietata chiarezza come l'ossessione possa assumere forme diverse: la dipendenza da droghe dei giovani protagonisti, l'ossessione televisiva e dal sogno del successo della madre, la ricerca compulsiva di validazione sociale, il bisogno alienante di soddisfare desideri imposti dall'esterno

"Requiem for a Dream" rivela come i sogni possano trasformarsi in incubi quando diventano ossessioni. Storie incrociate in cui tutti cercano una via di fuga dalla propria mediocrità, ma i loro sogni si rivelano trappole mortali, specchi infranti di un'esistenza svuotata di significato

Questo non è un film che si guarda, ma un'esperienza che si attraversa. Un lungo respiro in cui appaiono la mercificazione dei desideri, l'illusione del successo facile, la solitudine nelle grandi metropoli e la frammentazione delle relazioni umane. Una frammentazione che Aronofsky costruisce con una narrazione visiva composta da tagli rapidi, prospettive distorte, sequenze ipnotiche ed una colonna sonora martellante (Clint Mansell).

Un viaggio nel buio più profondo dell'animo umano: dietro ogni dipendenza c'è sempre un sogno infranto, una speranza tradita, un'umanità che cerca disperatamente di fuggire da se stessa.  Un'opera che continua a urlare la sua verità, ancora oggi più che mai.



Paesaggi interiori

La vera comprensione non è un atto intellettuale, ma un atto di ospitalità. Accogliere un pensiero significa permettergli di abitare i nostri spazi più profondi, di dialogare con le nostre ferite, le nostre speranze, i nostri silenzi. Significa convertire la conoscenza da esperienza esteriore a paesaggio interiore.

Chi conosce in questo modo non accumula nozioni, ma genera vita. Non cataloga, ma germoglia. Non separa, ma connette. Ogni idea diventa un ponte tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare.

Esistono due modi di incontrare la verità: come un ospite fuggevole che si affaccia alla finestra della mente, o come un compagno di viaggio che si insedia nel territorio più intimo del nostro essere.

L'intelligenza può rivelarsi uno spazio neutro, asettico, dove le idee scivolano come ombre momentanee e inconsistenti. Qui, il pensiero diventa un teatro di immagini transitori, dove i concetti si susseguono senza mai radicarsi, senza mai trasformarsi in linfa vitale. Le intuizioni passano, sfiorano la superficie della coscienza, e poi svaniscono, lasciando dietro di sé solo il vuoto di un'esperienza incompiuta.

Ma esiste un altro modo di abitare il pensiero. Un modo in cui le idee non sono più oggetti esterni, ma semi che germogliano nella profondità dell'anima. Qui, conoscere significa trasformare, incorporare, metabolizzare. Un concetto diventa allora simile al pane: nutrimento che non solo sfama, ma ricostruisce, cellula dopo cellula, l'architettura interiore di chi lo accoglie.

In questa geografia interiore, una singola idea può accompagnarci per l'intera esistenza. Non come un ricordo statico, ma come un compagno dinamico che cresce con noi, che si trasforma mentre noi ci trasformiamo, che ci abita mentre noi lo abitiamo.




Euro digitale

L’ Europa si prepara al varo dell’euro digitale, altro sistema di controllo sociale che permetterà di esercitare una sorveglianza capillare sul movimento dei pagamenti.
Sul sito della Banca d’Italia si legge che una moneta, per essere programmabile, deve essere digitale, ma che l’euro digitale, certamente non sarà programmabile. ‘Programmabile’ significa poter prefissare il tempo, il luogo ed il destinatario del pagamento. Considerata l’abitudine del potere alla menzogna, all’inganno e alla circuizione, e vista la diffusione di discorsi antitetici che vengono accolti dalla massa con sempre minore capacità di coglierne l’illogicità, è evidente che, se si legge che l’euro digitale non sarà programmabile, di fatto, lo sarà.
Stiamo assistendo ad un cambiamento ontologico della struttura del potere, che si sta facendo più sotterraneo e subdolo, un biopotere che prima riduce l’individuo a mero elemento da controllare, assoggettandone i vari aspetti della vita, poi se ne serve per i propri scopi: lo educa e lo plasma perché si faccia portavoce di una propaganda che, seppur esiziale per la propria integrità, non lo dissuade dal difendere i dettami del potere. In cambio dell’obbedienza, si ricevono premi. Basti pensare al green pass, coccardina da appuntare sul petto a dimostrazione del proprio senso civico. Certo, perché il potere insegna ad agire non solo nel rispetto della legge, bensì per contribuire al benessere della società intera. Gli obbedienti, così premiati, si sentono investiti di una vera missione e non si preoccupano che il potere decida della loro esistenza e, impregnati di superiorità morale, convinti di essere dalla parte del giusto e di dover insegnare al prossimo, si ergono sul piedistallo del pedagogo, lo schiavo che nell’antica Grecia guidava i fanciulli verso la conoscenza, insegnando loro un insieme di saperi approvato e imposto dall’alto, da una civiltà che piegava i prigionieri ai propri fini.
Il pedagogo di oggi diffonde una becera propaganda basata su fondamenta marcescenti e si comporta da lobotomizzato: a bordo della sua macchina elettrica, abituato a non fare a meno di Amazon, passa il tempo attaccato al telefonino sul quale ha trasfuso l’intera sua esistenza.
Non stupisce infatti vedere effettuare pagamenti anche di pochi centesimi, ad esempio dal panettiere o al bar, con il telefonino, vero e proprio raccoglitore di documenti, conti in banca, vita sociale, ricordi e account di ogni genere. Senza quel prolungamento di sé, si diventa prigionieri di se stessi e della propria poca lungimiranza. Il pedagogo accoglierà con sollievo il passaggio dall’uso del telefonino al microchip, quando quest’ultimo potrà essere impiantato in pochi minuti in un hub preposto, e sarà ben contento dell’introduzione del denaro digitale, in questo modo si estirperà finalmente l’evasione fiscale e tutti, ma proprio tutti, diventeranno onesti cittadini esattamente come lui.


                                                       AM

Reazioni collettive nell'epoca dei social

C'è stato un tempo in cui le decisioni sul riarmo e sulla guerra generavano immediate reazioni popolari: manifestazioni di piazza, mobilitazioni studentesche, scioperi e forme visibili di opposizione. Oggi, annunci simili vengono accolti con una sorprendente normalizzazione, quasi come fossero inevitabili. Questa metamorfosi della reazione sociale non è avvenuta per caso. Si è sviluppata parallelamente alla rivoluzione digitale e comunicativa che ha frammentato l'attenzione collettiva e individualizzato esperienze che un tempo erano condivise.

Il flusso ininterrotto di informazioni ha creato un paradosso: si è simultaneamente più informati, di un'informazione che non cessa mai, rimbalza tra piattaforme diverse, si presenta in formati sempre più brevi e stimolanti, progettati per catturare l'attenzione ma non favorisce la riflessione. L’esperienza quotidiana è diventata un mosaico di interruzioni continue: notifiche, aggiornamenti, contenuti personalizzati che seguono ovunque. Questo bombardamento sensoriale lascia poco spazio alla contemplazione necessaria per comprendere questioni complesse come la pace, la guerra e la sicurezza internazionale.

Per recuperare quel minimo di capacità di reazione collettiva di fronte a decisioni che riguardano il nostro futuro comune bisognerebbe intanto cominciare a coltivare spazi di disconnessione e riflessione profonda, liberi dall'urgenza della comunicazione continua. Dopodiché ricostruire comunità di discussione reali, dove il dialogo possa svilupparsi con tempi adeguati alla complessità dei temi esercitando un approccio critico verso le fonti di informazione, privilegiando l'approfondimento rispetto all'immediatezza.

La pace non è solo assenza di guerra, ma un processo attivo che richiede impegno civile e partecipazione. Siamo ancora in grado di recuperare una capacità minima di reazione collettiva che non sia pilotata dai soliti noti?

Ritrovare modalità di comunicazione e condivisione che favoriscano il pensiero critico e l'azione comune è fondamentale.



Risparmi

" UE, ECCO IL PIANO PER RISVEGLIARE I RISPARMI IN BANCA" 

Parlano di "soldi parcheggiati in banca", di "liquidità dormiente". Sono furbi, molto furbi, ma chiamiamo le cose con il loro vero nome: RISPARMI. Sacrifici. Sicurezza per il futuro. Quando un giornalista o un economista usa l'espressione "soldi parcheggiati", sta implicitamente suggerendo che quei fondi siano improduttivi, inerti, quasi colpevoli di non essere in movimento. È una retorica che denigra la prudenza e la previdenza di milioni di famiglie. 

I risparmi non sono un lusso. Non sono un capriccio. Sono la certezza di poter affrontare un'emergenza medica, l'opportunità di dare un futuro migliore ai propri figli, la tranquillità di poter riparare l'auto quando si rompe, la dignità di non dover chiedere aiuto in caso di imprevisti. 

Chi sono questi "esperti" per dirci come dovremmo gestire i frutti del nostro lavoro? Quanti hanno vissuto con l'ansia di arrivare a fine mese? La verità è che questa retorica serve solo a un sistema che vuole i nostri soldi in circolazione per alimentare investimenti che non sono nel nostro interesse. Vogliono far sentire in colpa le persone per essere prudenti, per proteggere se stessi e le proprie famiglie. 

Non si cada in questa trappola. I risparmi non sono mai "parcheggiati". Sono esattamente dove devono essere, pronti a sostenere quando se ne ha bisogno. È un diritto, conquistato con fatica e sacrifici. Quando si legge di "soldi parcheggiati", ricordiamoci che stanno parlando della nostra sicurezza, del nostro futuro, della nostra dignità. E nessuno ha il diritto di far sentire in colpa per questo. Il risparmio è un valore, non un errore. 

Finestroni di Overton avanzano.




Specchi e "casi umani"

"Eh io trovo sempre e solo casi umani!" - altra tipica frase molto in voga negli ultimi tempi, specialmente tra le donne. È diventata quasi un mantra, una spiegazione universale per le delusioni sentimentali. Quando si definiscono i propri ex come "casi umani", ci si pone automaticamente nella posizione di chi non ha responsabilità. Si è vittime innocenti del destino crudele che fa incontrare solo persone problematiche. Tipico ragionamento comodo per non guardare mai dentro se stessi. Le relazioni sono dinamiche a due. Se c'è uno schema che si ripete nelle storie d'amore, forse ci si dovrebbe chiedere quale sia il proprio ruolo in questo ciclo. O no? C'è un motivo se si tende a essere attratte sempre dallo stesso tipo di persona. 

I modelli di attaccamento, formati nell'infanzia, influenzano profondamente le scelte sentimentali da adulti. Se si cresce in determinati ambienti, inconsciamente si finisce col cercare persone che replicano quelle dinamiche familiari. In realtà spesso si scelgono partner "complicati" perché, paradossalmente, sono più sicuri, perché con loro la relazione ha un limite incorporato. Mentre persone emotivamente stabili vengono allontanate in quanto "noiose". Ma cosa si cerca realmente in un partner? 

C'è un aspetto particolarmente insidioso su cui soffermarsi: la dinamica della "crocerossina". Molte donne (ma anche uomini) che si lamentano dei "casi umani" cercano proprio persone con evidenti fragilità o "limitazioni" emotive, psicologiche o comportamentali. Questa attrazione verso partner "da sistemare" è un controllo mascherato da altruismo. Prendersi cura di qualcuno con problemi evidenti dà un senso di controllo sulla relazione. Si diviene indispensabili, e questo è gratificante per chi teme l'abbandono. La dipendenza dell'altro diventa una sicurezza. Essere "quella che lo cambierà" o "l'unica che lo capisce davvero" offre un'identità potente e un senso di scopo. Concentrarsi sui problemi dell'altro è un modo efficace per evitare di affrontare le proprie insicurezze e fragilità. Una relazione tra pari, dove entrambi sono emotivamente stabili, richiede vulnerabilità autentica e reciprocità. Per alcuni, questo è molto più spaventoso che gestire un partner "limitato". La cosa più pericolosa è che questo meccanismo si autoalimenta. Quando inevitabilmente la "missione di salvataggio" fallisce, ecco che ci si lamenta del "caso umano" incontrato, senza mai riconoscere che lo si è scelto proprio per quelle caratteristiche criticate. Il paradosso è che poi ci si definisce "troppo buoni" o "disposti a dare troppo", quando in realtà si stanno cercando relazioni dove poter mantenere uno squilibrio di potere a proprio favore. 

Riconoscere questo schema richiede grande onestà con se stessi. Significa ammettere che forse non si è vittime passive di una cattiva sorte sentimentale, ma partecipanti attivi in dinamiche disfunzionali che, a un qualche livello, servono. 

Etichettare gli ex come "casi umani" è dunque scorretto, in primis verso se stessi. Bisogna guardarsi limpidamente allo specchio, se si ha un ruolo attivo nella scelta dei partner, allora automaticamente si ha anche il potere di fare scelte diverse e cambiare modelli relazionali.


 


Invalsi o profilazione di stato?

Da diversi anni gli studenti sono sottoposti, al secondo ed al quinto anno della scuola primaria, in terza media ed al secondo e quinto anno delle superiori, a sostenere le prove INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione). Questo ente, che dal 2016 fa parte del Sistema statistico nazionale, ha il compito di somministrare prove di Italiano, Matematica e Inglese volte a rilevare il livello degli apprendimenti degli studenti, per poi confrontarli su scala europea.
Il volto delle prove INVALSI è drasticamente mutato dal 2006, anno in cui furono somministrate per la prima volta: da strumento anonimo di valutazione delle scuole, a test psicometrico di profilazione degli studenti. Come spesso accade, le novità sono introdotte mettendone in luce i vantaggi, le comodità, i lodevoli scopi; poi, col tempo, emerge che esse nascondano altri obiettivi, secondi fini, ma intanto il loro utilizzo è entrato, come si sperava, a regime. E lo stesso è accaduto con le prove INVALSI, cavallo di Troia per estorcere, si capisce, dolcemente, le informazioni con la complicità di Dirigenti scolastici e docenti creduloni, a studenti ignari. Così le prove che erano –  ovviamente! – anonime (peccato che ad ogni studente sia associato un codice, pertanto basta risalire all’accoppiata per svelare l’identità dell’alunno), repentinamente diventano strumento di valutazione dell’alunno i cui risultati confluiranno sul portfolio personale della Piattaforma Unica. Quest’ultima, altra trovata del Ministero, raccoglie il ‘’percorso di crescita’’ degli alunni ‘’per aiutarli a fare scelte consapevoli e a coltivare e far emergere i loro talenti’’. Viene già da ridere leggendo le prime righe di presentazione sul sito. Quando si gioca sporco, si sa, col tempo si diventa più protervi. Ed ecco che all’interno delle prove INVALSI, oltre ai quesiti delle varie discipline, vengono inserite domande circa il numero approssimativo di libri presenti in casa; il numero di automobili della famiglia; il titolo di studio ed il tipo di impiego dei genitori. Ora, perché rinunciare ad una forma di arricchimento come quella rappresentata dalla vendita dei dati, dal momento che questi sono il ‘nuovo petrolio’? Facendo qualche ricerca, sembra impossibile risalire al trattamento dei dati personali. Si tratta di un sistema di scatole cinesi in cui ciascun ente rimanda al Regolamento europeo sulla privacy, da cui non si riesce a capire che fine fanno i dati raccolti. Riesce difficile immaginare che i dati servano solo a tracciare un quadro nazionale del livello di istruzione. Questi dati sono preziosissimi. Non solo perché rappresenteranno il percorso evolutivo dello studente (dalle scuole elementari fino all’università) che sarà consultabile dalle stesse università o da futuri datori di lavoro, ma perché si può desumere il quadro cognitivo del singolo studente. Le prove INVALSI sono strutturate come un test psicometrico per la misurazione del Q.I. perché i quesiti rispecchiano scale verbali e scale di performance. I risultati potrebbero essere utilizzati a scopo predittivo, quindi per supporre la collocazione sociale del soggetto, di fatto per stabilire le sue opportunità di vita.
I risultati degli INVALSI infine, sono inappellabili, perciò gli studenti non potranno né visionare gli errori fatti, né potranno ripetere le prove – della durata di sole 2 ore e corrette da un algoritmo –  se queste fossero andate male (non è detto infatti che durante la prova l’alunno sia in buono stato psico-fisico).
Lo scorso anno sono stati “coinvolti” 2,5 milioni di studenti, o bisognerebbe dire “ricattati”? Gli alunni delle classi quinte sono obbligati a fare gli INVALSI, pena la non ammissione all’Esame di Stato.
Stupisce che gli studenti accettino passivamente di svolgere queste prove, forse ne ignorano il vero fine, per ingenuità o indolenza non si pongono il dubbio, oppure dopo anni di scuola hanno interiorizzato il ruolo di sudditi. 

AM


"Virale" e "Iconico"

Basta, non se ne può più. Ogni giorno si leggono i termini "virale" e "iconico" associati a qualsiasi balletto o idiozia che salta fuori. Due termini che hanno subito una progressiva svalutazione semantica. Originariamente riservati a fenomeni di autentica risonanza culturale, oggi vengono applicati con disinvoltura a qualsiasi contenuto che ottenga una minima visibilità temporanea. Il termine "virale" nasceva come metafora per descrivere contenuti capaci di diffondersi autonomamente, quasi come un organismo biologico. Oggi basta che un video raggiunga qualche migliaio di visualizzazioni perché i media lo etichettino come "fenomeno virale", svuotando il termine del suo significato originario. Definire "virale" un contenuto mediocre serve a conferirgli un'importanza che intrinsecamente non possiede, creando artificialmente notiziabilità dove non c'è sostanza. Ancora peggio fanno con l'aggettivo "iconico". Storicamente riservato a opere, personaggi o momenti capaci di trascendere il loro tempo per diventare simboli culturali duraturi, oggi viene attribuito con leggerezza a qualsiasi fenomeno passeggero. Un grottesco vestito indossato da una celebrità, una battuta in un reality show, un balletto su TikTok: tutto diventa "iconico" nell'iperbole mediatica contemporanea. I media, nel loro disperato inseguimento di clic e visualizzazioni, esaltano acriticamente qualsiasi contenuto possa generare profitto immediato, a prescindere dal suo valore artistico o culturale. Questa inflazione terminologica non è solo una questione linguistica, ma riflette un più ampio impoverimento culturale. Quando tutto è "virale" e "iconico", nulla lo è veramente. Si perde la capacità di distinguere tra fenomeni significativi e semplici mode passeggere, tra cultura e intrattenimento di consumo. 



Scelte professionali

Sarebbe importante ogni tanto fermarsi a riflettere sul significato e l'impatto del nostro lavoro quotidiano. Le industrie ad alta tecnologia offrono posizioni prestigiose e ben remunerate, ma quali responsabilità comportano queste opportunità professionali?

Nel settore industriale avanzato, specialmente quello legato a tecnologie strategiche, si tende spesso a valutare un'azienda o un progetto esclusivamente in base alla sua capacità di creare occupazione. "Dà lavoro" diventa il mantra che giustifica qualsiasi attività, senza un'analisi più profonda sul valore e l'impatto di ciò che viene prodotto.

Questa visione riduttiva porta a una pericolosa disconnessione tra l'attività professionale e le sue conseguenze nel mondo reale.

Il potere oggi ci parla di necessaria riconversione industriale, in realtà servirebbe una riconversione di mentalità. Un professionista dovrebbe chiedersi: qual è l'impatto reale dei prodotti che contribuisco a creare? Le risorse impiegate potrebbero essere destinate a progetti più costruttivi per la società? Quale responsabilità ho nel contribuire a determinati settori industriali?

L'orgoglio per le proprie competenze tecniche e per l'appartenenza a settori all'avanguardia non può non includere anche la consapevolezza delle implicazioni etiche del proprio lavoro.

Le scelte professionali individuali contribuiscono a plasmare il futuro collettivo. Forse è tempo di ripensare cosa significhi realmente "dare lavoro" e iniziare a considerare non solo quanti posti di lavoro vengono creati, ma quale tipo di mondo stiamo costruendo attraverso il nostro impegno quotidiano.



Controinformazione

Una controinformazione autentica non aggiunge fantasie, ma rivela l'essenziale. Solo quando si abbandonano le interpretazioni soggettive per abbracciare una lettura lucida della realtà si acquisisce chiarezza.

Osservare senza distorsioni emotive o ideologiche, non è passività – è il prerequisito dell'azione consapevole.

Invece gran parte delle voci nella cosiddetta "controinformazione" offrono non fatti, ma narrazioni alternative contaminate dalle stesse tattiche manipolative che pretendono di combattere. Presentano ipotesi come certezze, collegano eventi casuali in trame fantastiche, sostituiscono l'analisi rigorosa con l'indignazione preconfezionata.

Il bello è che poi si accusano a vicenda di essere falsi controinformatori. Ad ogni intervento iniziano con "i falsi controinformatori vi dicono così, invece io..."

La vera resistenza all'informazione manipolata dei media è innanzitutto una disciplina mentale: osservare senza recitare un copione predeterminato, distinguere tra ciò che sappiamo e ciò che supponiamo, mantenere quella calma interiore che non è indifferenza, ma è il fondamento della lucidità. Solo allora si possono identificare degli spazi reali di intervento, senza sprecare energie in battaglie immaginarie o reazioni automatiche.

La vera controinformazione non suggerisce cosa pensare ed è libera dal bisogno di confermare le proprie convinzioni.




Il sacro

La percezione del sacro precede l’esistenza della società: è un’inclinazione dell’essere umano riuscire a riconoscere la trascendenza, una dimensione metafisica che va oltre l’immanenza. La dimensione del sacro si irradia dalla natura, fitto intreccio di equilibri sistemici di cui l’individuo non è che semplice ed effimera espressione. È sufficiente attraversare la natura per ‘sentire’ il respiro del cosmo, ambiente ordinato – non a caso il termine deriva dal greco kósmos, per l’appunto, ‘ordine’ – contrapposto al caos.
Lévy-Bruhl affermava che l’uomo primitivo avesse la capacità  di ‘sentire’ la trascendenza poiché i suoi processi psichici si basavano su un pensiero pre-logico, privo cioè di una struttura logica, lo strumento per pensare che Aristotele analizzò nell’Organon.
La psiche primitiva viveva un’unione mistica con la natura dove l’Io si fondeva con essa, senza opporre a sé un non-Io, un oggetto percepito; dunque il soggetto non si percepiva scisso rispetto alla realtà esterna, bensì partecipava contemporaneamente al naturale e al sovrannaturale. In assenza di una visione manichea della vita, il pensiero si sviluppava libero dalle regole della logica, libero dal principio di non-contraddizione, perciò era in grado di collocarsi in un contesto cosmico, in un punto fisso, il Centro del Mondo. In tale contesto tutto è e non-è simultaneamente; passato, presente e futuro coincidono. In questo stato mentale primitivo il sacro si rivela e turba l’animo umano, attraendolo e respingendolo, affascinandolo e spaventandolo.
Mircea Eliade scriveva che “il sacro è saturo d’essere”. Solo l’essere è sacro, è cifra dell’esistenza.
Il profano non può far parte dell’essere. L’essere è ciò a cui l’individuo tende, ciò di cui si va alla ricerca, per tutta la vita.
La rivelazione del sacro, per coloro che oggi ancora lo cercano, può dare la nausea. Quando si avverte ad un livello pre-razionale il non-senso dell’esistenza e si ha la certezza dell’ineffabilità del sacro, sovviene un senso di spaesamento nauseante. Si barcolla come dopo un pugno in faccia.
La maggioranza delle persone oggi fa a meno del sacro: si fugge dalla sensazione di nausea che sballotta la mente e ci si nasconde al centro commerciale, il nuovo ‘centro del mondo’, il tempio del consumo.

Tuttavia capita ancora di incontrare persone nei boschi che osservano le cime degli alberi, ne toccano i tronchi e godono del silenzio, dell’immensità e della sacralità della natura.


                                 AM