Sophia Perennis di Frithjof Schuon

L’opera di Schuon è molto ampia, in Italia le Edizioni Mediterranee hanno fatto un ottimo lavoro su questo studioso.

Il testo che andiamo a consigliare qui non è dei suoi più importanti, trattasi di una raccolta di aforismi estratti dalla sua opera, in gran parte inediti nel nostro Paese, che trattano del Principio Divino e della sua Manifestazione universale, dell’ Anima, del microcosmo, del macrocosmo e genericamente della vita spirituale dell’essere umano.

È un libro che non ha nulla di organico, ma crediamo che, specialmente di questi tempi, possa essere d’ aiuto approcciarsi al pensiero di grandi autori attraverso testi con tale struttura.

D’altronde come ci ricorda l’autore dell’introduzione: “La forma di questa raccolta corrisponde a una maniera assai particolare di presentazione dottrinale, dunque anche a un bisogno particolare d’assimilazione spirituale. In alcuni momenti ci si può sentire chiamati a penetrare il pensiero di un autore esaminando coscienziosamente un suo libro; in altri, o in circostanze diverse, si può preferire un approfondimento meno laborioso e quasi spensierato, paragonabile a una passeggiata meditativa in un giardino. Ciò può accadere quando si sceglie una lettura da viaggio che, senza essere troppo impegnativa, almeno non ci fa perdere tempo; una lettura magari non facile per i suoi soggetti però facilitata da una presentazione che spazia su vari argomenti.”

Chi non conosce Schuon può partire da questi delicati aforismi e lasciarsi cullare dalla profondità d’animo del filosofo svizzero per poi approdare con la giusta predisposizione alla sua opera.

 




Begotten: un viaggio sensoriale nero

 “Language bearers, photographers, diary makers, you with your memory are dead, frozen, lost in a present that never stops passing; here lives the incantation of matter: a language forever. Like a flame burning away the darkness, life is flesh on bone convulsing above the ground".

The Begotten, il malsano esordio del regista americano Elias Merighe, è una delle più alte espressioni del cinema Weird.

Trattasi di un dissestato e furente delirio misantropico, girato in 16mm su un negativo volutamente graffiato, utilizzando filtri di densità. La sua estetica espressionista si lega sin dai primi istanti con l'atmosfera funerea e decadente del film, che parte di getto senza presentarci i protagonisti. E così veniamo scaraventati immediatamente in un universo sporco e scolorito, i cui unici suoni sono raggelanti loops ambientali. Tutto appare immediatamente come un brutto sogno e lo sgranamento esasperato del bianco e nero dilata le immagini, che sfumano e si disperdono lasciando intravedere la reale consistenza delle sostanze presenti nell'ambiente circostante. Tutti i movimenti che osserviamo sullo schermo danno l'impressione d'essere il sunto della metamorfosi della composizione della materia, e ci sembra di assistere quasi alla sua continua fermentazione all'interno di una dimensione indefinita.

Un deciso movimento di macchina penetra in una baita isolata di campagna ove si trova un personaggio ambiguo, su una sedia, in procinto di suicidarsi, e nell'osservarlo si ha stranamente la netta impressione che il tempo desista. Le sue gesta paiono dissolversi spasmodicamente, quasi a livellarsi e divenire un tutt'uno con l'istantaneità. Costui, dopo essersi dato la morte, giace inevitabilmente esanime nella stanza ed a seguire si accodano altre immagini caotiche e convulse in cui accade un po' di tutto: giunge nella stanza una donna che partorisce un essere epilettico, assieme escono dalla baita e con l'essere rantolante tenuto a guinzaglio, si imbattono in uomini incappucciati che decapitano la donna sotterrandone i resti.

Dopo la morte, l'uomo si ritrova così solo a strisciare su una grande spiaggia deserta, ma prontamente gli incappucciati sopraggiungono per demolire anche lui. I resti dei due vengono seppelliti nello stesso punto, cosicché si fondono nuovamente, rigenerandosi sotto forma di piante e fiori.

Il film con il suo linguaggio onirico e allusivo, indecifrabile e bislacco, si pone al pubblico come fosse un quadro commemorativo i cui contenuti defluiscono direttamente dai sensi dello spettatore ai suoi istinti inconsci.

E' bene sottolineare che dai titoli di coda emergono le identità delle figure, dunque inevitabilmente sorge anche una chiave di lettura. Si svela che il personaggio che si suicida all'inizio è Dio, la donna è Madre Natura, il nascituro generato è il Figlio della terra, e gli uomini violenti rappresenterebbero semplicemente l’umanità. A fronte di ciò, chiaramente è possibile scovare simbologie e significati. La tematica centrale potrebbe esser collegata all'ermetismo, al rapporto tra l'uomo e Dio che sfugge all'intelletto umano. Difatti gli inconsueti simbolismi sembrano indicarci delle essenze sconosciute nell’essere umano capaci di penetrare in tutte le cose, in ogni corpo, dilatandosi all’infinito e contraendosi sino a livelli microscopici. Altre ipotesi potrebbero interessare l'alchimia, oppure semplicemente riferirsi ad una banale allegoria delle deturpazioni continue che da sempre l'uomo infligge alla natura.

Ma aldilà di tutte le possibili interpretazioni, si può affermare che nel complesso sono l'atmosfera ed i sensi dello spettatore i padroni assoluti della proiezione. Ed è solamente così che va goduto, impulsivamente, senza affaticarsi a trovarne una spiegazione o interpretazione coerente.  D'altronde sarebbe improduttivo cercare di tradurre razionalmente tutte le suggestioni visive che si susseguono sullo schermo. Trattasi di assidue situazioni incorporee, irreali , con atmosfere che inducono al turbamento.

Begotten, svincolandosi dal logico, gratifica lo spettatore con un ruolo meno modesto e passivo di quello concesso solitamente dal cinema, la cui priorità è fondamentalmente quella di raccontare storie, senza concedere autonomia all'immagine, qui invece vista come vettore intuitivo tendente all'incongruo.

Ogni situazione del film mira simbolicamente al mito della creazione, alla generazione di nuove forme di vita e ciò che viene rappresentato è buio e decomposto, colmo di un'estetica cimiteriale, maleodorante e deformata, da osservare quasi in uno stato di trance.

Una delle esperienze visive più atipiche ed ombrose che si possano intraprendere, un film assolutamente fuori da qualsiasi concezione e logica spazio-temporale. Alla fine della visione non rimane altro che aria stantia e deterioramento.

Un viaggio davvero inesplicabile.


Frammenti di "Propaganda" - E.L.Bernays

La manipolazione consapevole e intelligente, delle opinioni e delle abitudini delle masse svolge un ruolo importante in una società democratica, coloro i quali padroneggiano questo dispositivo sociale costituiscono un potere invisibile che dirige veramente il paese.

Noi siamo in gran parte governati da uomini di cui ignoriamo tutto, ma che sono in grado di plasmare la nostra mentalità, orientare i nostri gusti, suggerirci cosa pensare. Questa è la logica conseguenza di come è organizzata la nostra società democratica basata sulla cooperazione del maggior numero di persone, necessaria affinché possiamo convivere in un mondo il cui funzionamento è ben oliato.

Molto spesso i nostri capi invisibili non conoscono l’identità degli altri membri di quell’esecutivo ristretto di cui fanno parte. Ci governano in virtù della loro autorità naturale, della loro capacità di formulare le idee che ci servono e della posizione che occupano nella struttura sociale. Poco importa come reagiamo individualmente a questa situazione, poiché in tutti gli aspetti della vita quotidiana, dalla politica agli affari, dal nostro comportamento sociale o ai nostri valori morali, di fatto siamo dominati da un piccolo numero di persone capaci di comprendere i processi mentali e i modelli sociali delle masse.

Sono loro che tirano le fila, controllano l’opinione pubblica, sfruttano le vecchie forze sociali esistenti, inventano altri modi per organizzare il mondo e guidarlo.

In genere non comprendiamo fino a che punto questi capi invisibili siano indispensabili per il buon funzionamento della vita collettiva.

(…)

In teoria ciascuno ha le sue idee per quanto concerne la vita pubblica e quella privata, in pratica se tutti i cittadini dovesse- ro studiare per proprio conto tutto ciò che riguarda le informazioni astratte di ordine economico, politico e morale che entrano in gioco quando si affronta anche il minimo argomento, si renderebbero ben presto conto di non poter giungere a nessuna conclusione. Perciò abbiamo lasciato, volontariamente, a un governo invisibile il compito di passare al vaglio le informazioni per individuare il problema principale, e ricondurre la scelta a proporzioni realistiche. Accettiamo che i nostri dirigenti e gli organi di stampa da loro utilizzati, ci indichino le questioni considerate di interesse generale. Accettiamo che una guida morale, un pastore, uno studioso, o semplicemente un’opinione diffusa ci prescrivano un codice di comportamento sociale standardizzato al quale ci conformiamo per la maggior parte del tempo.

(…)

Le tecniche usate per inquadrare l’opinione pubblica sono state inventate e poi sviluppate via, via che la società diventava più complessa e l’esigenza di un governo invisibile si rivelava sempre più necessaria.

(…)

Oggi si profila una reazione, la minoranza ha scoperto di poter influenzare la maggioranza in funzione dei suoi interessi, ormai è possibile plasmare l’opinione delle masse per convincerle a orientare nella direzione voluta la forza che hanno da poco acquisito. Un processo inevitabile, data la struttura attuale della società.

La propaganda interviene necessariamente in tutti i suoi aspetti rilevanti, che si tratti di politica, di finanza, di industria o agricoltura, delle attività assistenziali o dell’educazione.

(…)

La propaganda è l’organo esecutivo del governo invisibile. L’istruzione generalizzata doveva permettere alla persona comune di padroneggiare l’ambiente in cui viveva. Se dobbiamo credere all’ideologia democratica, dopo aver imparato a leggere e scrivere, essa avrebbe avuto le capacità per governare, l’alfabetizzazione di massa invece le ha consegnato una serie di idee stereotipate, sorta di stampini con slogan pubblicitari, editoriali, informazioni più o meno scientifiche, futilità della stampa scandalistica e luoghi comuni attinti dalla storia.

(…)

Presente dovunque la propaganda modifica le nostre immagini mentali del mondo, anche se l’osservazione sembra troppo pessimista il che peraltro è da dimostrare le tendenze che l’opinione pubblica riflette sono indubbiamente vere. Sempre di più la propaganda viene utilizzata perché è stata riconosciuta la sua efficacia nell’ottenere l’adesione delle masse. Perciò quando qualcuno non importa chi ha una sufficiente influenza, può trascinare con sé una parte della popolazione, almeno per un certo tempo e verso un obiettivo preciso. Una volta coloro che governavano erano delle guide, dei capi, orientavano il corso della storia facendo ciò avevano progettato. Gli attuali successori di quei personaggi e che esercitano il potere in virtù della loro posizione e delle loro attitudini, non possono più fare ciò che vogliono senza il consenso delle masse e per ottenerlo hanno trovato uno strumento sempre più affidabile nella propaganda, che ha quindi un radioso futuro davanti a sé.

(…)

Lo studio sistematico della psicologia delle folle ha rivelato il potenziale che rappresenta per il governo invisibile della società la manipolazione delle motivazioni che guidano l’azione di un gruppo. Trotter e Le Bon inizialmente hanno affrontato l’argomento da un punto di vista scientifico, Graham Wallas, Walter Lippmann e altri che hanno proseguito le ricerche sulla mentalità collettiva, sono riusciti a dimostrare che il gruppo non aveva le stesse caratteristiche psichiche dell’individuo ed era motivato da impulsi ed emozioni che le conoscenze sulla psicologia individuale non riuscivano a spiegare.

(…)

Da ciò l’interrogativo: se si riesce a identificare i meccanismi e le molle della mentalità collettiva, non si potrebbero controllare le masse e mobilitarle a piacere senza che se ne rendano conto?

(…)

Le recenti azioni di propaganda hanno dimostrato che ciò era possibile, sia pure fino a un certo punto ed entro determinati limiti. La psicologia collettiva è ancora lungi dall’essere una scienza esatta e i misteri delle motivazioni umane sono ancora in parte sconosciuti.

In questo quadro l’alleanza tra teoria e pratica si rivela fruttuosa e consente di affermare che, in alcuni casi, l’attivazione di un certo meccanismo provoca effettivamente un mutamento dell’opinione pubblica molto vicino a quello previsto.

(…)

Benché la propaganda non sia una scienza sperimentale, essa tuttavia ha superato quella dimensione empirica che la caratterizzava prima degli studi sulla psicologia delle folle. È scientifica nel senso che cerca di basare le sue operazioni su conoscenze precise, tratte dall’osservazione diretta della mentalità collettiva e nel contempo su principi la cui coerenza e sufficiente regolarità sono state dimostrate. Così come fa lo scienziato nel suo laboratorio, anche il propagandista moderno studia sistematicamente il materiale su cui lavora.

(…)

Per quanto limitato possa essere il settore della psicologia collettiva su cui lavora, il propagandista deve sempre mettere nel conto un significativo margine d’errore. La propaganda non è una scienza esatta, così come non lo sono l’economia e la sociologia, perché tutte e tre hanno come oggetto di studio l’essere umano.

Quando si riesce a influenzare un leader, che ne sia consapevole o no, che accetti o no di cooperare, automaticamente si influenza anche il gruppo cui fa riferimento.

(…)

Una volta il propagandista lavorava in funzione della risposta psicologica “meccanica” allora in voga nelle nostre università che assimilava lo spirito umano a una macchina, un sistema di nervi e centri nervosi che reagiscono agli stimoli con una regolarità prevedibile, come un automa senza difesa, privo di volontà. Lo specialista si limitava a creare lo stimolo che avrebbe scatenato l’attesa risposta dell’acquirente individuale. Secondo una dottrina di questa scuola psicologica, uno stimolo ripetuto spesso finisce con l’indurre un’abitudine e un’idea ribadita con insistenza si traduce in una convinzione. Immaginiamo allora che il responsabile delle vendite di un grossista di carni sia stato incaricato di promuovere la vendita di bacon. Secondo la vecchia strategia avrebbe tambureggiato queste esortazioni con una pubblicità a tutta pagina: “Mangiate del bacon, mangiate del bacon: costa poco, fa bene alla salute, il bacon vi darà delle riserve di energia.” Oggi invece il responsabile delle vendite che ha capito la struttura della società e i principi della psicologia collettiva, si chiederà prima di tutto: “chi sono coloro che per la loro posizione influenzano le nostre abitudini alimentari?” La risposta è ovvia: “i medici”. Questa nuova figura di venditore suggerirà al corpo medico di pronunciarsi pubblicamente sugli effetti salutari prodotti dal consumo di bacon e sa, con certezza matematica, conoscendo la dipendenza psicologica dei pazienti nei confronti del loro medico, che la maggior parte delle persone ne seguirà il consiglio.

(…)

Il propagandista della vecchia scuola si serviva quasi esclusivamente del richiamo esercitato dal messaggio a stampa per cercare di convincere il lettore individuale ad acquistare subito un certo prodotto. Uno dei degli esempi più celebri, per molto tempo considerato come il tipo di messaggio ideale per la sua semplicità ed efficacia, recitava: “COMPRATE (con eventualmente l’indice puntato contro il lettore) i tacchi di caucciù O’Leary. SUBITO/”

Attraverso la ripetizione e l’appello individuale il pubblicitario cercava di vincere o piegare le resistenze dei compratori, l’appello lanciato a cinquanta milioni di persone mirava a ciascuna di loro in particolare.

(…)

I nuovi responsabili commerciali sanno che è possibile, rivolgendosi agli uomini che compongono le masse attraverso le loro formazioni collettive, suscitare correnti emotive e psicologiche che lavoreranno per loro. Invece di attaccare frontalmente le resistenze dei compratori, cercano di eliminarle e a tale scopo creano delle situazioni che, canalizzando le correnti emotive, produrranno la domanda.

Fonte: tratto da "Propaganda" di E. Bernays (Lupetti edizioni)



Psicanalisi: la caduta nel pantano – J.Josipovici

L’assurdità della pseudoscienza moderna si rivela nel fatto di non capire esattamente a che cosa si applica; mentre il suo modo di operare, senza la minima base culturale qualificata da un’antica tradizione, mette continuamente in moto elementi il cui carattere sottile le sfugge. Lo psicanalista - apprendista stregone del secolo XX - maneggia cosi in modo irresponsabile forze di cui ignora la precisa natura.

E’ sintomatico constatare che Freud studia il Super-io, mai il Supercosciente. Al contrario, dedica le sue cure più attente a ciò che stagna nei bassifondi dell’uomo, il Subconscio – serbatoio d’entità nocive. Ora il sondaggio retrogrado dei ricordi è un genere d’intervento particolarmente pericoloso, visto che porta a perforare una zona d’oblio mediante la punta affilata della rievocazione.

La propulsione verso il basso, che distrugge l’inerzia protettrice che copre il subconscio, provoca un fenomeno di contro-illuminazione.

Il paziente, a causa di quest’ apertura insidiosamente socchiusa e da quel momento mai richiusa, si trova alla mercé degli influssi malefici che l’invadono. 
La maggior parte dei casi di possessione  provengono dalla lenta ascesa di quest “acqua putrida”, fatta cli rifiuti che il filtro della coscienza aveva respinto per timore di contaminazione. La maggior parte dei malati affetti da psicosi sono in realtà degli aspiranti alla possessione, che la psicanalisi finisce di trasformare in posseduti veri e propri. 
In termini esoterici, voler far passare nella coscienza ciò che deve restare nel subconscio in virtù d’una difesa naturale dell’organismo, è non solo gettare “acqua sul fuoco”, ma rischiare di paralizzare il superiore riportando l’inferiore al suo livello; ossia “spegnere per sempre il fuoco”. Ma la pseudoscienza che preferisce l’oscurità dogmatica al riconoscimento dell’occulto, rifiuta d’abbandonare la sua dimensione rassicurante, artificialmente razionale, tradendo così il fine stesso della scienza autentica, per la quale nessun campo e proibito. Colui che decide di progredire sulla strada giusta deve adoperarsi coraggiosamente per sostituire alla ragione chiusa, quantitativa, una ragione aperta, qualitativa.

In merito alle falsificazioni che la terapia freudiana trae con sé, tre ultime osservazioni s’impongono:

1. Lo psicanalista, per definizione, rivolge le sue cure a un essere umano in stato di turbamento e di debolezza, preda tanto più docile di ogni sovversione dello psichismo inferiore: a differenza dello Yoga, la cui pratica è di pertinenza solo d’individui equilibrati, infiammati da un’alta esigenza, già impegnati sulla Via della spiritualità. A questo proposito, segnaliamo la funesta attività di quelle scuole di Yoga che fioriscono un po’ dovunque in Occidente per motivi di lucro, e che servono da rifugio soprattutto a esseri angosciati incapaci di adattamento, tormentati da nevrosi diverse.

2. Esaminare i sogni ordinari attraverso una vasta gamma d’interpretazioni non può portare che a un falso simbolismo privo di quei contenuti superumani che, soli, rendono autentici i simboli. In realtà, per  ignoranza o per incapacità di risalire alle fonti, le considerazioni psicanalitiche dei sogni portano alla ribalta solo l’infraumano nei suoi aspetti più degradanti.

3. Sottolineiamo infine un’esigenza significativa dell’incongruità antinomica del trattamento: l’obbligo per chi voglia diventare psicanalista d’essere egli stesso prima psicanalizzato. E riconoscere al candidato, per praticare, la necessità di una trasformazione contro natura. L’operazione che, come s’è visto, ha per risultato di scacciare lo spirituale a vantaggio dello psichismo inferiore, é un atto di magia nera - parodia della scienza vera -, realizzandosi la trasmissione iniziatica in maniera subalterna, senza il sostegno di alcuna conoscenza del divino. E l’aspirante analista, per avere ciecamente seguito questa via “a ritroso”, si ritrova dall’altro lata della vita, quello sbagliato.

Aggiungiamo che lo psicanalizzato - medico o paziente che sia - se riesce a sottrarsi a un certo punto della cura alle forze nefaste a cui e stato irresponsabilmente consegnato, ne porterà quanto meno, per il testo dei suoi giorni, il segno indelebile. E questo si manifesterà attraverso una mente dai contorni divenuti rigidi, A tal proposito René Guénon osserva acutamente che non bisogna confondere la terapia freudiana con la “discesa agli inferi” iniziatica, sperimentata dai grandi poeti e dai mistici.
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In conclusione, si ha il diritto di domandarsi se si debba disperare della psichiatria. Non lo crediamo, perché esiste una terapia salvatrice situata al polo opposto della scienza moderna.

La psicanalisi considera la condizione del malato mentale come definita dalla sua storia personale. Immaginiamo il paziente che risale il corso del tempo, alla ricerca di tutti gli incidenti che hanno potuto ferirlo, delle vergogne che ha lasciato dietro le spalle, delle debolezze, delle viltà ricacciate nell’oblio... Davanti a queste realtà svelate, che egli non può negare né disconoscere, l’infelice diviene consapevole di trovarsi nella trappola di una situazione senza uscita e perciò senza aspettative, perché  non si può rifare il proprio passato. Lo psicanalista ha ottenuto il bel risultato di costringere il suo paziente a rifiutarsi ogni perdono.

La sola terapia positivamente rinnovatrice è quella che permette al malato mentale, cancellando il carattere distruttivo di ciò che è stato, di volgersi con decisione all’avvenire; e a questo scopo obbligarlo a operare sul presente. Come? Adoperandosi a rivitalizzare l’essere che soffre, restituendogli la pace e l’equilibrio, suscitando in lui la speranza, eliminando pazientemente angosce, autopunizioni, false pieghe dell’anima; facendone un essere nuovo per il quale la vita comincia in d’ora con possibilità intatte. Condurre il paziente ad affrontare l’esistenza, vuol dire innanzi tutto attrarlo a operare su se stesso. Scoprire allora che il presente contiene in germe le determinazioni future, e che i problemi del momento hanno il loro giusto valore.

Fonte: “La scienza oscurantista”, J.Josipovici (Rusconi editore)



L' era delle professioni - I.Illich

L'Era delle Professioni sarà ricordata come l'epoca nella quale dei politici un po' rimbambiti, in nome degli elettori, guidati da professori, affidavano ai tecnocrati il potere di legiferare sui bisogni; rinunciavano di fatto al potere di decidere in merito alle esigenze della gente diventando succubi delle oligarchie monopolistiche che imponevano gli strumenti con i quali tali esigenze dovevano essere soddisfatte. Sarà ricordata come l'Era della Scolarizzazione, in cui alle persone per un terzo della loro vita venivano imposti i bisogni di apprendimento ed erano addestrate ad accumulare ulteriori bisogni, cosicché, per gli altri due terzi della loro vita, divenivano clienti di prestigiosi «pusher» che forgiavano le loro abitudini. Sarà ricordata come l'era nella quale dedicarsi a viaggi ricreativi significava andare in giro intruppati a guardare la gente con l'aria imbambolata, e fare l'amore significava adattarsi ai ruoli sessuali indicati da sessuologi come Masters e Johnson e i loro vari allievi; l'epoca in cui le opinioni delle persone erano una replica dell'ultimo talk-show televisivo serale e alle elezioni il loro voto serviva a premiare imbonitori e venditori perché potessero fare meglio i comodi propri. (..)

Io ritengo inevitabile questo declino della nostra epoca verso un tecno-fascismo, a meno che delle forze più fresche non riescano a reagire sul serio, non limitandosi a sostenere un nuovo mistificante professionalismo pseudo radicale, bensì perorando uno scetticismo integrale verso gli esperti, specialmente nella loro presunzione di fare diagnosi e imporre prescrizioni. Dal momento che è la tecnologia ad essere chiamata in causa per il degrado ambientale, una vera critica sociale dovrebbe sostenere che gli ingegneri si dedichino allo studio della biologia.

Finché gli scandali ospedalieri verranno imputati a singoli medici avidi o a infermieri negligenti, il problema se in linea di principio un paziente possa trarre vantaggio dall'ospedalizzazione non verrà mai posto. Fintanto che è il puro e semplice profitto capitalista ad essere messo sotto accusa come causa delle disuguaglianze economiche, la standardizzazione e la concentrazione delle industrie — che è causa strutturale di ogni disuguaglianza — non verrà mai presa in considerazione ed eliminata.

Solo se comprendiamo il modo in cui la dipendenza dalle merci ha legittimato le domande, le ha trasformate in bisogni urgenti ed esasperati mentre contemporaneamente ha distrutto la capacità delle persone di provvedere da se stesse, noi potremmo evitare di avanzare verso una nuova epoca buia nella quale una autoindulgenza edonista sarà scambiata per la forma più alta di indipendenza

Soltanto se la nostra cultura, già così intensamente mercificata, verrà sistematicamente messa di fronte alla sorgente profonda di tutte le sue connaturate frustrazioni, potremo sperare di interrompere l'attuale perversione della ricerca scientifica, le sempre più forti preoccupazioni ecologiche e la stessa lotta di classe. Al momento presente queste istanze sono principalmente al servizio di una crescente schiavitù degli individui nei confronti delle merci.

Il ritorno a un'era di politica partecipativa, nella quale i bisogni siano definiti dal consenso comune, è impedito da un ostacolo tanto fragile quanto non considerato: il ruolo che élite professionali sempre nuove giocano nel legittimare quella sorta di religione mondiale che promuove la cupidigia che impoverisce. È quindi necessario che noi comprendiamo chiaramente:

 

1.    la natura della dominanza delle professioni;

2.    gli effetti dell'istituzionalizzazione del professionalismo;

3.    le caratteristiche dei cosiddetti «bisogni imputati»;

4.    le illusioni che ci hanno resi schiavi del managerialismo

       professionale.

Tratto da "Esperti di troppo" di I.Illich (Erickson editore)





Carmelo Bene e l'abuso delle masse

“Ci sono cose che devono restare inedite per le masse anche se editate. Pound o Kafka diffusi su Internet non diventano più accessibili, al contrario. Quando l’arte era ancora un fenomeno estetico, la sua destinazione era per i privati. Un Velazquez, solo un principe poteva ammirarlo. Da quando è per le plebi, l’arte è diventata decorativa, consolatoria. L’abuso d’informazione dilata l’ignoranza con l’illusione di azzerarla. Del resto anche il facile accesso alla carne ha degradato il sesso.”
  
Parole di Carmelo Bene che oggi gli si ritorcono inevitabilmente contro. Difatti le sue comparsate al Maurizio Costanzo Show negli anni novanta spopolano in rete e vengono commentate e mal interpretate dappertutto.
Consolatorio Carmelo Bene lo è diventato per molti, proprio lui che si scagliava contro la funzione consolatoria dell’arte, ma d'altronde quando un personaggio della sua levatura decide di scendere nei talk show mediatici, come ha fatto lui in vecchiaia, lanciando letteralmente “perle ai porci”, le conseguenze sono pressoché scontate.
Non che a Bene interessasse qualcosa della reazione della massa ai suoi discorsi con interessanti intuizioni teoretiche, anzi pareva divertito e spensierato in tv, chissà però cosa direbbe oggi dell’abuso che si è fatto delle sue dichiarazioni attraverso il web, in cui ognuno tenta di tirare l’acqua al proprio mulino, dandogli anche delle valenze politiche.
Al Maurizio Costanzo Show del 1994, un tale Emanuele Giglio tra il pubblico, una volta presa la parola, cominciò a farfugliare qualcosa sul discorso del “non capire” rendendosi buffo, al che Bene gli rispose: “si ma alt, quando parlo del non capire non intendo essere deficienti!”.

Ecco quello fu il primo input, il primo campanellino di allarme che mostrava l’inadeguatezza delle masse ad afferrare dei concetti al di fuori dell’ordinario.
Oggi la situazione è peggiorata, sono tanti quelli che cliccando sui suoi video su youtube, senza comprendere a fondo ciò di cui parlava, cominciano ad assumere atteggiamenti spocchiosi, nichilisti e anarchici.
La figura di Carmelo Bene è stata parecchio importante per il teatro del Novecento, in Francia filosofi scrissero centinaia di pagine per spiegarne le gesta. Attraverso il suo teatro, andava oltre i classici superando il testo scritto, egli si esprimeva per significanti.
Ha portato in vita, tramite una via occidentale (la macchina attoriale), il Tao Te Ching.
Con l’aiuto di apparecchiature elettroniche ha tentato lo scavalcamento del linguaggio tramite la manipolazione tecnica del significante. Una deformazione della phonè (il rumore) che aveva il compito di raggiungere una dimensione di abbandono della parola, scomposta e non più adatta alla comunicazione, intesa  nel senso comune del termine.
Bene sosteneva che ogni essere umano fosse composto da una pluralità di Io distinti (Lacan), interpretava la volontà di potenza Nietzschiana come il disfacimento del concetto di soggetto, pertanto si dichiarava estraneo alle sue opere artistiche, non riconoscendosi autore d’alcunché. 
Distingueva il tempo storico, il kronos dei greci, con il tempo aiòn, ovvero l’immediato, l’attimo dello stoicismo.
Momenti di non consapevolezza in cui si è estraniati da se stessi come nell’estasi mistica.
Era consapevole di essere “attraversato” da Aristotele, da Nietzsche, da Cioran, da Deleuze, da Bacon, da Derrida, da Schopenhauer, da Kafka, da Lacan, da Joyce, da Santa Teresa D’Avila, in quanto essi non erano altro che forme interiori già contenute dentro di sè ancor prima di nascere e da cui si doveva disfare.
Parlava de “l’essere detti”, poiché affermava che l’essere umano non è padrone del linguaggio, che il discorso non appartiene all’essere parlante, che siamo parlati, con tutte le conseguenze che una intuizione di questo tipo può provocare.

 “È ora di cominciare a capire, a prendere confidenza con le parole. Non dico con la Parola, non col Verbo, ma con le parole; invece il linguaggio vi fotte. Vi trafora. Vi trapassa e voi non ve ne accorgete.”

Non era interessato alla psicologia (definita “servetta”), intuiva che la trascendenza veniva ormai avvertita in termini psicologici come inconscio, come attività psichica non cosciente. 
Anche nel cinema perseguì la strada della distruzione dell’ Io attraverso la frantumazione della pellicola, annientando i modelli narrativi e devastando l’anima del cinema, ovvero il montaggio. L’ immagine filmica venne manipolata, sbeffeggiata e ricostruita completamente.

'La mia frequentazione cinematografica è ossessionata dalla necessità continua di frantumare, maltrattare il visivo, fino talvolta a bruciare e calpestare la pellicola.
M'è riuscito filmare una musicalità delle immagini che non si vedono, per di più seviziate da un montaggio frenetico.”

Insomma già queste poche e brevi considerazioni dovrebbero far perlomeno intuire la complessità delle opere e del pensiero di Carmelo Bene, assolutamente non adatto all' ingordigia delle masse, che abituate all' intellettualismo fine a se stesso, vengono soltanto danneggiate da tali esposizioni (basta leggere i commenti che si trovano sotto i video di youtube).

Ricordo che al Costanzo Show del 1995 ad un certo punto prese la parola Bruno Zevi che centrò esattamente il punto citando Oreste Del Buono:
“Abbiamo un genio in Italia e non ce lo meritiamo. Cosa ne facciamo? Un genio è inutile, ingombrante, preoccupante per la nostra stupida società. Magari dannoso. Infatti non rispetta il sacro dei luoghi comuni di destra e di sinistra. La soluzione più indicata per contenerlo questo genio, paralizzarlo, neutralizzarlo, è tributargli un grande successo, decretargli un successo veramente popolare. Questo che sta avendo stasera al Costanzo Show non è un successo veramente popolare?”
  
E’ esattamente così, per “normalizzare” un elemento di un tale calibro non si poteva far altro che trascinarlo nella dialettica dei salottini televisivi, tra il popolino composto da critici e profani.
Come dimenticare “geni” come Giordano Bruno Guerri (l’ossessionato dal fascismo), Roberto D’Agostino (oggi alle prese con l’imbarazzante Dagospia), Davico Bonino ( “il sapone”), Guido Almansi (il critico), Luigi Lunari (“il vecchio bacucco”) e tanti altri che non riuscendo a star dietro alla profondità di Bene, si autoconvincevano che questi stesse semplicemente recitando la parte dell’anticonformista.
Carmelo Bene non recitava, non cercava il consenso, non creava consolatori spettacoli teatrali nel tentativo di dare un vago perché all’esistenza attraverso i significati.
Non andava in televisione a cercare l’esibizione o a stupire con qualche invenzione studiata a tavolino per far parlare di sé.
Quando si esprimeva sul concetto di lavoro in epoca industriale, sulla scuola moderna o sulla democrazia lo faceva per davvero, poiché non “diceva” ma “parlava”.

Era parlato, attraversato da una mistica lucidità in grado di tratteggiare i tempi bui dell’ umanità contemporanea, colma di consumatori consunti, in cui il piattume della democrazia ha preso il sopravvento.




Una poesia decadente di Mike Leigh

Incantevole poesia apocalittica targata Mike Leigh.

In una Londra spettrale si aggirano personaggi Bukowskiani tra cui il vagabondo Johnny che costretto a lasciare Manchester, decide di passare a trovare la sua ex fidanzata.

Nell'alloggio trova però Sophie, una tossica con cui si intrattiene e che risulterà solamente la prima di una lunga serie di personaggi sbandati e ribelli senza causa che incontrerà per la città.

Una volta uscito di casa difatti il giovane si imbatte in Archie, uno scozzese agitato in crisi con la sua ragazza, in Brian, un guardiano notturno di un grande edificio con cui si intrattiene a discutere di metafisica, evoluzione ed apocalisse e poi dopo essere stato ospitato e cacciato di casa da una cameriera, incontra alcuni teppisti che lo aggrediscono brutalmente. Stremato si trascina così nuovamente a casa della ex...

Johnny, interpretato da un fenomenale David Thelwis, è un predicatore filosofo nichilista che pare saltar fuori direttamente da un romanzo di Houellebecq , da un aforisma di Cioran o da La mostra delle atrocità di Ballard.

Per strade illuminate dai neon della periferia londinese Johnny si chiede “Chi siamo, dove andiamo?”

Le sue risposte sono anarchiche e confuse, i sentimenti che egli prova gli predeterminano così un' ansia cronica e perenne.

«Io non ho futuro, nessuno ha futuro, abbiamo chiuso! Guardati un po' intorno, qui sta andando tutto per aria».

Viaggiatore Camusiano Johnny, tenta di disquisire per le strade di Shakespeare, di Sant'Agostino e di Omero, arrancando come può tra le rovine di una città senza vita, egli è il paradigma post-moderno della disperazione e del tramonto della civiltà occidentale.

Un decadente tra le mura di una metropoli impaurita, incapace di legami e sentimenti autentici, isterica, ipocondriaca e profondamente irreligiosa, di fronte al quale l'essere umano non può che esser votato all' autodistruzione.

Antieroe contemporaneo dalla impellente urgenza di comunicazione nonostante la completa perdita di punti di riferimento che caratterizza il suo secolo. Tenta caoticamente di risvegliare coscienze attraverso deliri ed ossessioni apocalittiche in cui recepisce la fine dentro di sé e attorno a sé.

Ma il suo cinismo non è nulla in confronto a quello che Leigh tratteggia acutamente del mondo circostante, si perchè mentre in Johnny percepiamo disincanto, consapevolezza, cultura, lucidità ed ironia, dagli altri giunge solamente il vuoto esistenziale, la vigliaccheria, la mediocrità, l'assuefazione al sistema e la freddezza. Di conseguenza la sua presunzione e la sua rabbia crescono di giorno in giorno proprio come reazione al piattume dalla quale si sente circondato.

Leigh dietro la macchina da presa gioca a far l' antropologo di anime disilluse che fungono da specchio al caos del ventesimo secolo, e lo fa attraverso il sarcasmo. La sua regia è cruda e trasuda una forte volontà di affondare il dito nella piaga per far venire fuori i peggiori tormenti dai suoi personaggi. La cinepresa fotografa limpidamente storie di disadattamento, tutti gli incontri di Johnny hanno come denominatore comune l'insoddisfazione e la frustrazione per il sistema del produci/lavora/consuma/crepa, possiamo così osservare tutta una lunga schiera di personaggi ansiolitici non adatti ad essere imprigionati tra quattro mura domestiche.

Il protagonista anche quando trova un minimo di stabilità nella casa delle ragazze, sente il bisogno insopprimibile di fuggire per vagabondare, la sua è un' esigenza disperata di libertà, una libertà che però ogni qualvolta viene raggiunta diviene una patata bollente tra le mani..

A livello cinematografico la fotografia risulta sporca e granulosa, la sceneggiatura è magistrale nel suo tentativo di rendere il film allo stesso tempo doloroso ma divertente, dolce ed amaro, grottesco ma drammatico, si riesce sempre ad attutire la disperazione delle vicende narrate grazie all'umorismo del protagonista.

Il sorriso memorabile di Johnny ha il sapore di una deriva esistenziale senza possibilità di redenzione, la sua è una compassione per se stesso in primis e per l'umanità intera omologata e consumata. Il suo sguardo lucido coglie sogni inespressi, testimonianze di esistenze svuotate di ogni vero significato ed un' insoddisfazione repressa e perenne nei rappresentanti del proletariato che si lasciano morire giorno dopo giorno e che svogliati e terribilmente soli accettano insoddisfatti la loro esistenza per quella che è, indifferenti e rassegnati ad essa.

David Thewlis, palma d'oro a Cannes, con il suo cappotto scuro tratteggia un personaggio indimenticabile, e quando nella scena finale lo vediamo allontanarsi zoppicando per le strade diviene ancor più nitida la sua miseria.

Sul ciglio delle strade i suoi contemporanei attraversano servilmente l'aridità della loro sopravvivenza quotidiana, mentre lui pare un uccello con le ali rattrappite che prova l'ennesimo tentativo di volo.

Ed è in quest'ultima inquadratura che Mike Leigh riuscì, meglio di chiunque altro, a rappresentare l'esistenza paradossale dell'umanista moderno e la sua condizione alienante nella civiltà contemporanea.



The Grandmother: l'incomunicabilità domestica

Prima dell’indimenticabile capolavoro Eraserhead, David Lynch girò parecchi corto/mediometraggi di avanguardia, The Grandmother del 1968 ne rappresenta l’espressione più nitida.

I suoi primi passi nel cinema sono strettamente legati alla semantica della sua arte figurativa, ma a differenza dei primissimi lavori, che erano veri e propri quadri in movimento, con The Grandmother il cinema del regista americano comincia a “materializzarsi”, il film difatti si trova a metà strada tra l’ animazione in stop-motion in stile “The Alphabet” e riprese dal vero con attori in carne ed ossa.

Il mediometraggio (0.34min), girato proprio a casa di Lynch con la partecipazione di attori non professionisti, è uno dei più grandi esperimenti cinematografici mai fatti.

La (non)trama vede un uomo e una donna che camminano a quattro zampe, il loro figlio è invece in smoking. Surreale.

Una mattina Mike alzandosi dal suo letto trova le lenzuola macchiate, il padre appena se ne accorge comincia ad abbaiare ed emettere suoni gutturali scagliandosi con violenza verso il figlio, che dopo aver subito un’aggressione, decide di rifugiarsi in solaio, dove “crea” sua nonna.

Inutile soffermarsi ad interpretare razionalmente un film di David Lynch, anche perché se ci si sforza di decodificare, di cogliere simbologie o significati, si fa violenza alla natura stessa dell’opera, basata sulla percezione e sul depensamento.
Tuttavia ci si può soffermare su una “tematica” cara a David Lynch, ovvero la paura e l’ossessione per la normalità familiare (ripresa poi in Eraserhead).

Il nucleo famiglia viene distrutto irrazionalmente dipingendo genitori oppressivi, raffigurati come degli animali.

Tra toni cupi, atmosfere torbide, stanze nere e una rappresentazione macabra del quotidiano, emerge imponente dall’inconscio la percezione dell’incomunicabilità nelle famiglie moderne. Il padre di Mike è dispotico e bestiale, sua moglie invece ogni tanto mostra stralci di affetto materno finendo però sempre per schiantarsi contro il muro dell’incomprensione.

Non esiste una lingua tra Mike e i genitori, solamente versi e grida isteriche, il bambino riceve solo botte e per sfuggire dalla sua situazione si rifugia nella fantasia mescolando sogno e realtà, tra individui che escono dalla terra, nonne che nascono dal terriccio e umani che si trasformano in alberi.

The Grandmother è la messa in scena di pulsioni e turbamenti familiari, attraverso il delirio di forme e tramite la rappresentazione di squallide esistenze che fanno da soggetto all’orrore Lynchiano per il loculo domestico.

La macchina da presa varia spesso angolazione, il montaggio è rapidissimo, le musiche non sono allineate alla narrazione (cominciano e terminano fuori tempo rispetto alle scene), le ambientazioni sono composte da poche luci e tante ombre, gli sfondi si percepiscono ma sono informi e gli attori sono truccati di bianco assumendo un aspetto cadaverico.

In definitiva ci troviamo di fronte ad un mediometraggio ermetico che attraverso atmosfere caotiche e spettrali, dipinge ma non racconta, comunica ma non dice, avvolge ma non spiega.

Lo sguardo di Lynch è già quello maturo dei capolavori futuri, qui dentro c’è già tutto il suo cinema onirico, misterioso e ambivalente.  

Straordinaria poesia visiva.



Fumo, alcool e droghe nell’uomo moderno – L.Tolstoj

La gente beve e fuma non «così», non «per noia», non «per stare allegri», non perché a loro «piace», bensì per soffocare la propria coscienza. Ma se è così, quanto spaventose debbono essere le conseguenze di ciò. E infatti basta pensare a come sarebbe un edificio che sia stato costruito non con una buona livella, per controllar che i muri venissero su diritti, e non con una squadra precisa, per controllare che gli angoli fossero retti, bensì con una livella molle, che si piegava tutta ad ogni irregolarità dei muri, e con una squadra che si adattava egualmente bene a tutti gli angoli, sia a quelli ottusi a che quelli acuti.
Ed è appunto questo che avviene nella vita di tutti i giorni, grazie al fatto che gli uomini si drogano. Non è la vita che si adegua alla coscienza; è la coscienza che si piega e si adatta alla vita. Ciò avviene nella vita di singoli individui, e avviene del pari nella vita di tutta quanta l’umanità, la quale si compone appunto della vita dei singoli individui.
Chi vuol comprendere tutto il significato di un simile offuscamento della consapevolezza, provi a rammentarsi bene qual era la sua condizione interiore in ciascun periodo della sua vita. E si accorgerà che in ogni periodo della sua vita egli ha avuto dinanzi a sé determinati problemi morali, che egli doveva risolvere e dalla soluzione dei quali dipendeva tutto il bene della sua vita. Per la soluzione di questi problemi occorre una gran tensione dell’attenzione. Questa tensione è un lavoro. E in ogni lavoro, e specialmente all’inizio, vi è un momento in cui il lavoro sembra faticoso, tormentoso, e la debolezza umana suggerisce il desiderio di abbandonarlo. Un lavoro fisico sembra tormentoso, quando si incomincia a farlo; e ancor più tormentoso sembra il lavoro intellettuale. Come dice Lessing, gli uomini hanno la caratteristica di smettere di pensare quando il pensare comincia a presentare delle difficoltà, e precisamente quando, aggiungerò io, il pensare comincia a produrre frutti. L’uomo si accorge che la soluzione dei problemi che ha dinanzi richiede una tensione, spesso tormentosa, e avrebbe voglia di sottrarsi a questa tensione. Se egli non disponesse di modi interiori di drogarsi, egli non potrebbe distogliere la propria attenzione dai problemi che ha dinanzi, e, che lo voglia o no, si vedrebbe costretto a risolverli. Ma ecco che l’uomo scopre un modo di scacciare questi problemi ogni volta che essi gli si presentano, e ricorre ad esso. Non appena i problemi che attendono soluzione cominciano a tormentarlo, l’uomo ricorre a questi modi, e si salva dall’inquietudine che suscitano in lui i problemi che lo preoccupano. La sua consapevolezza cessa di pretendere che essi vengano risolti, e i problemi irrisolti rimangono irrisolti fino al successivo schiarirsi della consapevolezza. Ma quando la consapevolezza è tornata chiara, si ripete la medesima cosa, e l’uomo continua per mesi, per anni, talvolta per tutta la vita a rimaner fermi dinanzi a quegli stessi problemi morali, senza muoversi d’un solo passo in direzione della loro soluzione. E tuttavia proprio nella soluzione dei problemi morali consiste tutto quanto il moto della vita.
Avviene dunque, in ciò, qualcosa di simile a quel che farebbe un uomo che dovesse riuscire a vedere il fondo d’una pozza d’acqua torbida per ritrovare una cosa preziosa cadutagli appunto lì, e che non volendo entrar nell’acqua, agitasse consapevolmente quell’acqua tutte le volte che essa comincia a depositarsi e a ridiventar trasparente. L’uomo che si droga rimane spesso immobile per tutta la vita entro una concezione del mondo oscura e contraddittoria, ch’egli ha assimilata una volta per tutte, e ogni volta che la sua consapevolezza comincia a rischiararsi, egli spinge sempre contro la stessa parete contro cui spingeva già dieci o vent’anni prima, e che egli non potrà sfondare in nessun modo, giacché ottunde continuamente, e consapevolmente, quella punta del suo pensiero che sola potrebbe sfondar la parete.
Provi ciascuno a rammentarsi com’era, prima d’aver incominciato a bere o a fumare, e verifichi anche in altre persone, e riscontrerà un tratto caratteristico costante, che distingue le persone dedite a una qualche droga, da coloro che son liberi dalla droga: quanto più un uomo si droga, tanto più egli è moralmente immobile.

Fonte: Tratto da: ‘Perché la gente si droga?’ di L.Tolstòj





L'importanza del « mito vivente » - M.Eliade

Da più di mezzo secolo gli studiosi occidentali hanno esaminato il mito in una prospettiva che contrasta sensibilmente con quella, diciamo, del xix secolo. Invece di trattare, come i loro predecessori, il mito nell'accezione usuale del termine, cioè in quanto « favola », « invenzione», « finzione », l'hanno accettato come era compreso nelle società arcaiche in cui il mito designa, al contrario, una « storia vera » e, cosa più importante, altamente preziosa, perché sacra, esemplare e significativa. Ma questo nuovo valore semantico accordato al vocabolo « mito » rende il suo impiego nel linguaggio corrente assai equivoco.
Infatti, questa parola è usata oggi sia nel senso di « finzione » o di « illusione », sia nel senso, familiare soprattutto agli etnologi, ai sociologi e agli storici delle religioni, di « tradizione sacra, rivelazione primordiale, modello esemplare ».
Si insisterà più avanti sulla storia dei differenti significati che il termine « mito » ha rivestito nel mondo antico e cristiano. Tutti sanno che dopo Senofane (565-470 circa a.C), il quale per primo ha criticato e rigettato le espressioni « mitologiche » della divinità utilizzate da Omero ed Esiodo, i Greci hanno progressivamente svuotato il mythos di ogni valore religioso e metafisico. Opposto sia a logos, sia più tardi a bistorta, mythos ha finito per indicare tutto « ciò che non può esistere realmente ». Da parte sua, il giudeo-cristianesimo rigettava nel campo della « menzogna » e dell' « illusione » tutto ciò che non era giustificato o convalidato da uno dei due Testamenti.
Non è in questo senso (d'altronde il più usuale nel linguaggio corrente) che noi intendiamo il « mito ». Più precisamente, non è lo stadio mentale o il momento storico, in cui il mito è divenuto una « finzione », che ci interessa. La nostra ricerca verterà prima di tutto sulle società in cui il mito è — o è stato fino a questi ultimi tempi — « vivente », nel senso che fornisce modelli per la condotta umana e conferisce, con ciò stesso, significato e valore all'esistenza. Comprendere la struttura e la funzione dei miti nelle società tradizionali in causa non è solamente illustrare una tappa nella storia del pensiero umano, ma significa anche comprendere meglio una categoria dei nostri contemporanei.
Per limitarci a un esempio, quello dei cargo cults dell'Oceania, sarebbe difficile interpretare tutta una serie di comportamenti insoliti senza fare appello alla loro giustificazione mitica. Questi culti profetici e millenaristi proclamano l'imminenza di un'era favolosa di abbondanza e di felicità. Gli indigeni saranno di  nuovo i padroni delle loro isole e non lavoreranno più, perché i morti stanno per tornare su magnifici navigli carichi di mercanzie, simili alle gigantesche navi mercantili che i bianchi ormeggiano nei loro porti. È per questo motivo che la maggior parte di questi cargo cults esige, da un lato la distruzione degli animali domestici e di ogni strumento di lavoro, e dall'altro la costruzione di vasti magazzini in cui saranno depositate le provvigioni portate dai morti. Un movimento profetizza l'arrivo del Cristo su un battello mercantile; un altro attende l'arrivo dell'« America ». Una nuova era.
La struttura dei miti paradisiaca avrà inizio e i seguaci del culto diventeranno immortali. Certi culti implicano anche degli atti orgiastici, perché i divieti e i costumi sanzionati dalle tradizioni perderanno la loro ragione d'essere e faranno posto alla libertà assoluta. Ora, tutti questi atti e queste credenze si spiegano con il mito dell' annullamento del Mondo seguito da una nuova Creazione e dall' instaurazione dell'Età dell'Oro.
Fenomeni similari si sono verificati nel 1960 nel Congo in occasione della proclamazione d'indipendenza del paese. In un villaggio gli indigeni hanno tolto i tetti delle capanne per lasciar passare i pezzi d'oro che gli antenati avrebbero fatto piovere. Altrove, nell'abbandono generale, sono state mantenute soltanto le vie conducenti al cimitero per permettere agli antenati di raggiungere il villaggio. Anche gli eccessi orgiastici avevano un senso poiché, secondo il mito, il giorno dell'Età Nuova tutte le donne sarebbero appartenute a tutti gli uomini.
Molto probabilmente fatti di questo genere diventeranno sempre più rari. Si può supporre che il « comportamento mitico » sparirà con l'indipendenza politica delle antiche colonie. Ma ciò che accadrà in un avvenire più o meno lontano non ci aiuterà a comprendere quanto sta accadendo ora. Quel che ci interessa anzitutto è cogliere il senso di queste strane condotte, comprendere la causa e la giustificazione di questi eccessi, perché comprenderli equivale a riconoscerli come fenomeni umani, fenomeni di cultura, creazioni dello spirito e non irruzione patologica degli istinti, bestialità o infantilismo.
Non vi è altra alternativa: o ci si sforza di negare, minimizzare o dimenticare eccessi del genere, considerandoli come degli esempi isolati di « comportamento da selvaggi », che scompariranno completamente quando le tribù saranno « civilizzate », oppure si cerca di comprendere
gli antecedenti mitici che spiegano, giustificano gli eccessi di questo genere e conferiscono loro un valore religioso.
Questo ultimo atteggiamento è, secondo noi, l'unico che meriti considerazione. Solamente in una prospettiva storico-religiosa simili comportamenti sono suscettibili di rivelarsi come fenomeni di cultura e perdono il loro carattere aberrante o mostruoso di gioco infantile o di atto puramente istintivo.

Fonte: "Mito e realtà", Mircea Eliade (Ed.Borla)



Il destino e la provvidenza - Severino Boezio

«È proprio così» dissi io; «ma poiché è tuo compito spiegare le cause delle cose misteriose e chiarire le ragioni avvolte dall’oscurità, ti prego di espormi con tutta chiarezza la tua opinione su questo problema, poiché questo fatto sconcertante più d’ogni altro mi sconvolge». Ed ella allora, sorridendo un poco: «Tu m’inviti» disse «a indagare una questione che di tutte è la più impegnativa da sviscerare, e che non si riesce mai a esaurire interamente. Si tratta infatti di un argomento tale che, risolto un dubbio, ne ricrescono innumerevoli altri, come le teste dell’Idra; e non se ne vedrebbe mai la fine, se non venissero domati dal fuoco divampante della mente. In questo campo d’indagine rientrano infatti la semplicità della provvidenza, l’ordine del destino, i casi fortuiti, la conoscenza e la predestinazione divina e il libero arbitrio, tutti argomenti di cui tu spesso puoi comprendere l’importanza. Ma siccome anche la loro conoscenza fa parte della tua cura, cercheremo, nonostante la ristrettezza del tempo, di giungere a qualche conclusione. E anche se ti danno piacere le modulazioni della poesia accompagnata dalla musica, è bene differire per un poco questo godimento, mentre dispongo in un ordine organico le mie argomentazioni». «Come ti pare meglio» risposi.
Allora ella, quasi rifacendosi a un altro principio, così prese a esporre: «L’origine di tutte le cose, l’evoluzione delle nature in divenire, e tutto ciò che in qualche modo si muove, traggono le loro cause, l’ordine e le forme dall’immutabilità della mente divina. Essa, raccolta nella roccaforte della sua semplicità, determina la molteplice modalità in cui gli eventi si svolgono. Questa modalità, quando la si considera nella purezza stessa dell’intelligenza divina, viene detta provvidenza; quando invece la si riferisce agli esseri che muove e dispone, è stata detta destino dagli antichi. La loro diversità apparirà evidente a chi penetri con la mente la loro reciproca capacità operativa; la provvidenza infatti è quella stessa ragione divina, riposta nel sommo Sovrano di tutte le cose, che tutto dispone; mentre il destino è l’assetto inerente alle cose mutevoli, per mezzo del quale la provvidenza inserisce ogni cosa nel proprio ordine. La provvidenza pertanto abbraccia egualmente tutte le cose, benché diverse, benché infinite; il destino invece muove le singole cose secondo che son distribuite nei diversi luoghi, nelle diverse forme e nei diversi tempi, così che questo dispiegarsi dell’ordine temporale raccolto in unità dinanzi allo sguardo della mente divina è provvidenza, mentre il medesimo complesso, distribuito secondo la successione temporale, vien chiamato destino.

«Pur essendo essi diversi, son tra di sé interdipendenti; l’ordine del destino deriva infatti dalla semplicità della provvidenza. E come l’artefice dapprima concepisce nella mente la forma dell’opera che vuol realizzare e poi la porta a compimento, sviluppando in diversi momenti di tempo quel che aveva unitariamente contemplato dentro di sé, così Dio mediante la provvidenza dispone in maniera singolare e immutabile quel che dev’essere fatto, e poi mediante il destino sovrintende all’attuazione nella molteplicità e nel tempo delle cose che aveva preordinato. Pertanto, sia che il destino si compia per l’opera di spiriti divini al servizio della provvidenza, sia che la trama del destino s’intessa per mezzo dell’anima, o dell’intera natura, o dei moti celesti degli astri, o della forza degli angeli, o della multiforme destrezza dei demoni, o di alcune di queste cose o di tutte insieme, una cosa è chiara, che la provvidenza è la forma semplice e immobile delle cose che devono essere compiute, mentre il destino è il concatenamento mutevole e l’ordine temporale di tutto ciò di cui la semplicità divina ha disposto l’attuazione.
«Ne consegue che tutte le cose sottoposte al destino sono pure soggette alla provvidenza, alla quale è soggetto lo stesso destino. Però alcune delle cose che soggiacciono alla provvidenza trascendono il corso del destino, e sono quelle che, stabilmente fisse vicino alla prima Divinità, si collocano al di fuori dell’ordine inerente alla mutevolezza del destino. E come, tra più cerchi volgentisi intorno a un medesimo fulcro, quello che è più interno si approssima alla semplicità del punto medio, ed esso stesso diviene per così dire come il fulcro attorno a cui tutti gli altri girano, mentre il cerchio più esterno, ruotando con una circonferenza maggiore, si volge in spazi tanto più ampi quanto più si allontana dall’indivisibile punto mediano – se poi qualche cosa si unisce o si associa a quel punto mediano, diviene necessariamente semplice anch’essa e cessa di estendersi ed espandersi –: in simile modo quello che più s’allontana dalla prima mente, tanto più s’avviluppa nei lacci del destino e, al contrario, tanto più un essere è libero dal destino quanto più s’avvicina a quel fulcro di tutte le cose; e se aderisce alla stabilità della mente suprema, privo di moto, s’innalza anche al di sopra della necessità del destino. Come dunque il ragionamento sta all’intuizione, ciò che viene generato a ciò che è, il tempo all’eternità, la circonferenza al centro, così il corso mutevole del destino sta all’immobile semplicità della provvidenza.
«L’ordine del destino muove il cielo e le stelle, associa tra di loro gli elementi e li trasforma con alterne mutazioni, e rinnova tutto ciò che nasce e che muore mediante consimili sviluppi di semi e di embrioni. E ancora quest’ordine avvince le azioni e le varie vicende degli uomini con un’inscindibile connessione causale; la qual connessione procedendo nella sua origine dai principi dell’immobile provvidenza, è necessario che anche quelle cause siano immutabili. Le cose infatti sono ordinate nella maniera migliore se la semplicità che risiede nella mente divina dà origine a un ordine irremovibile di cause, e quest’ordine poi con la sua immutabilità raffrena le cose mutevoli che altrimenti andrebbero vagando caoticamente. Per quanto dunque a voi, del tutto incapaci di discernere quest’ordine, tutte le cose appaiano confuse e sconvolte, non di meno ubbidiscono tutte a una loro norma, che le orienta verso il bene. Nessuna azione, infatti, viene compiuta a fin di male neppure dagli stessi malvagi; questi, come ho abbondantemente dimostrato, cercano sì il bene, ma ne sono sviati da un perverso errore; tanto è impensabile che l’ordine che scaturisce dal fulcro che è il sommo bene possa mai deflettere dalla sua origine.
«Ma, dirai tu, quale confusione può essere più iniqua di questa, che ai buoni tocchino in sorte ora casi avversi ora prosperi, e ai cattivi ora cose desiderate ora sgradite? Ebbene, dimmi: gli uomini vivono di solito in una condizione mentale così equanime, che le persone da loro giudicate buone o cattive siano necessariamente tali in realtà, quali le hanno giudicate? Al contrario, proprio in questo discordano i giudizi umani, tanto che gli uni stimano degni di premio quelli stessi che gli altri ritengono meritevoli di pena. Ma ammettiamo pure che alcuno sia in grado di distinguere i buoni dai cattivi; potrà egli forse scrutare in profondità la struttura – come si dice dei corpi – delle anime? Non sarebbe infatti diversa la sua meraviglia da quella di chi non sapesse perché, tra i corpi sani, ad alcuni facciano bene alimenti dolci, ad altri amari, e perché alcuni malati abbiano sollievo da rimedi leggeri, altri da più energici. Ma di ciò non si stupisce affatto il medico, il quale ben conosce la sintomatologia e le caratteristiche dello stato di salute o di malattia. E che altro è la salute dell’anima, se non la probità, che altro la malattia, se non il vizio? Chi altri è il difensore del bene e il nemico del male se non Dio, signore e medico delle anime? Egli, guardando dall’alto osservatorio della sua provvidenza, sa quel che a ciascuno conviene e concede a ciascuno quel che sa essergli adatto. E qui sta quel mirabile prodigio dell’ordine inerente al destino, che Chi lo conosce opera cose di cui devono stupirsi coloro che tale conoscenza non hanno.
«Per riassumere ora in breve le poche cose che la ragione umana è capace d’intendere della profondità divina, ti dirò che l’onnisciente provvidenza può giudicare diversamente una persona che tu ritieni quant’altri mai onesta e osservante della giustizia. Il nostro Lucano ci avverte che agli dei piacque la causa del vincitore, a Catone quella del vinto. Ecco dunque: quanto vedi avvenire al di fuori di ogni aspettazione, in realtà è un ordine giusto, per quanto per il tuo modo di vedere sia un’assurda confusione. Ma ammettiamo pure che uno sia così ben costumato che nei suoi confronti il giudizio divino e quello umano concordino pienamente; però è poco forte di animo e, se gli capitasse qualche contrarietà, cesserebbe probabilmente di coltivare quell’integrità morale che non gli valse a propiziargli la fortuna; per questo una saggia dispensazione risparmia colui che le avversità potrebbero rendere meno buono, così che non debba sopportare dure prove colui che non vi è adatto. Vi è un altro adorno della perfezione di tutte le virtù, santo e prossimo a Dio: ebbene, la provvidenza ritiene empio che questi sia colpito da qualsivoglia sventura, a tal segno da non permettere che sia molestato neppure da malattie corporee. Perché, come disse uno anche di me più eccelso, di un uomo santo il corpo l’han costruito i cieli.
Accade poi spesso che il potere supremo sia affidato ai buoni perché la disonestà dilagante venga fiaccata. Ad altri la provvidenza distribuisce sorti variamente combinate, a seconda delle qualità dei loro animi: ne affligge alcuni perché non abbiano a insuperbirsi per un lungo periodo di felicità; lascia che altri siano sfibrati da acerbe contrarietà perché con l’uso e l’esercizio della pazienza consolidino le virtù dell’animo. Questi temono più del giusto quel che possono sopportare, quelli prendono alla leggera più del giusto quello che non possono sopportare; e costoro vengono messi alla prova dall’infelicità. Non pochi s’acquistarono venerata rinomanza nei secoli a prezzo duna morte gloriosa; taluni poi, indomiti dai tormenti, diedero agli altri dimostrazione che la virtù è invincibile dal male; ed è indubitabile che tutto questo avviene in modo quanto mai giusto e confacente, e con vantaggio di coloro che ne sembrano colpiti.
«Dalle stesse cause deriva anche il fatto che ai malvagi accadono eventi ora tristi ora lieti. Dei tristi nessuno si meraviglia, poiché tutti pensano che essi si sian comportati male; ed è poi certo che le punizioni da cui son colpiti non solo distolgono gli altri dal mal fare, ma anche correggono quelli stessi che le sopportano. I lieti poi forniscono ai buoni una gran prova della stima in cui si debba tenere una felicità di tal genere, che vedono spesso al servizio dei malvagi. A questo proposito credo che venga anche tenuto conto del fatto che alcuno, dotato di indole impetuosa e sconsiderata, possa venir inasprito fino al delitto dalle sue ristrettezze economiche; ma a una tal malattia rimedia la provvidenza, colmandolo di ricchezze. Questi, esaminando la propria coscienza macchiata di turpitudini e mettendo a confronto se stesso con la propria fortunata condizione, vien forse assalito dal timore di dover perdere nella tristezza tutto quello che ora gli è piacevole usare; si deciderà quindi a mutar condotta, e così, per timore di perdere la propria fortuna, si allontanerà dalle vie dell’iniquità. La felicità malamente usata fa precipitare altri in ben meritata sventura; ad altri vien concessa facoltà di punire, perché ciò sia di prova per i buoni e di castigo per i malvagi. Infatti, come non può esservi alcuna intesa tra buoni e malvagi, così neppure i malvagi stessi vanno mai d’accordo tra loro. E perché non dovrebbe essere così, dal momento che ciascuno di loro è in disaccordo con se stesso, avendo la coscienza dilaniata dai vizi, e commette spesso azioni che, quando le abbia compiute, veda bene che non dovevano esser compiute?
«Da ciò spesso la somma provvidenza ha tratto l’ammirevole prodigio che fossero dei malvagi a rendere buoni altri malvagi. Infatti alcuni, giudicandosi vittime di ingiustizie da parte di sciagurati, ardendo d’odio per chi fa loro del male, ritornano sul buon sentiero della virtù, sforzandosi di esser diversi da coloro che odiano. Soltanto per la potenza divina anche i mali son beni, in quanto, usandoli convenientemente, ne ottiene un qualche risultato di bene. Un ordine determinato abbraccia infatti tutte le cose; e quel che si allontana dalla funzione che in quell’ordine gli è attribuita, ricade pur sempre in un ordine, sia pure diverso, così che nel regno della provvidenza il capriccio del caso non abbia alcun potere.
Ma mi è di peso dir ciò, come se un Dio io fossi.
«Non è infatti lecito a un uomo abbracciare con la mente o spiegare con le parole tutti i particolari dell’opera divina. Basti aver compreso soltanto questo, che Dio, creatore di tutte le cose naturali, tutte quante le ordina e le orienta al bene, e che, mentre si preoccupa di conservare quel che ha procreato a propria somiglianza, elimina ogni male dai confini del suo regno per mezzo della successione degli eventi determinata dal destino. Ne deriva che, se consideri l’opera ordinatrice della provvidenza, tu debba convincerti che non esiste nessuno di quei mali, di cui si crede che la terra trabocchi. Ma vedo che tu, gravato dal peso del problema e affaticato dalla lunghezza del ragionamento, aspetti con desiderio un poco di sollievo da una poesia; prendine dunque un sorso, per potere, ristorato, proseguire con maggior lena sulla via che ti resta da percorrere. 

Fonte: tratto da  De Consolatione philosophiæ, Libro IV, capitolo 6: Il Destino e la Provvidenza (cfr. Boezio, La Consolazione della Filosofia. Gli opuscoli teologici, a cura di Luca Obertello, Rusconi, Milano, 1979).