Risparmi

" UE, ECCO IL PIANO PER RISVEGLIARE I RISPARMI IN BANCA" 

Parlano di "soldi parcheggiati in banca", di "liquidità dormiente". Sono furbi, molto furbi, ma chiamiamo le cose con il loro vero nome: RISPARMI. Sacrifici. Sicurezza per il futuro. Quando un giornalista o un economista usa l'espressione "soldi parcheggiati", sta implicitamente suggerendo che quei fondi siano improduttivi, inerti, quasi colpevoli di non essere in movimento. È una retorica che denigra la prudenza e la previdenza di milioni di famiglie. 

I risparmi non sono un lusso. Non sono un capriccio. Sono la certezza di poter affrontare un'emergenza medica, l'opportunità di dare un futuro migliore ai propri figli, la tranquillità di poter riparare l'auto quando si rompe, la dignità di non dover chiedere aiuto in caso di imprevisti. 

Chi sono questi "esperti" per dirci come dovremmo gestire i frutti del nostro lavoro? Quanti hanno vissuto con l'ansia di arrivare a fine mese? La verità è che questa retorica serve solo a un sistema che vuole i nostri soldi in circolazione per alimentare investimenti che non sono nel nostro interesse. Vogliono far sentire in colpa le persone per essere prudenti, per proteggere se stessi e le proprie famiglie. 

Non si cada in questa trappola. I risparmi non sono mai "parcheggiati". Sono esattamente dove devono essere, pronti a sostenere quando se ne ha bisogno. È un diritto, conquistato con fatica e sacrifici. Quando si legge di "soldi parcheggiati", ricordiamoci che stanno parlando della nostra sicurezza, del nostro futuro, della nostra dignità. E nessuno ha il diritto di far sentire in colpa per questo. Il risparmio è un valore, non un errore. 

Finestroni di Overton avanzano.




Specchi e "casi umani"

"Eh io trovo sempre e solo casi umani!" - altra tipica frase molto in voga negli ultimi tempi, specialmente tra le donne. È diventata quasi un mantra, una spiegazione universale per le delusioni sentimentali. Quando si definiscono i propri ex come "casi umani", ci si pone automaticamente nella posizione di chi non ha responsabilità. Si è vittime innocenti del destino crudele che fa incontrare solo persone problematiche. Tipico ragionamento comodo per non guardare mai dentro se stessi. Le relazioni sono dinamiche a due. Se c'è uno schema che si ripete nelle storie d'amore, forse ci si dovrebbe chiedere quale sia il proprio ruolo in questo ciclo. O no? C'è un motivo se si tende a essere attratte sempre dallo stesso tipo di persona. 

I modelli di attaccamento, formati nell'infanzia, influenzano profondamente le scelte sentimentali da adulti. Se si cresce in determinati ambienti, inconsciamente si finisce col cercare persone che replicano quelle dinamiche familiari. In realtà spesso si scelgono partner "complicati" perché, paradossalmente, sono più sicuri, perché con loro la relazione ha un limite incorporato. Mentre persone emotivamente stabili vengono allontanate in quanto "noiose". Ma cosa si cerca realmente in un partner? 

C'è un aspetto particolarmente insidioso su cui soffermarsi: la dinamica della "crocerossina". Molte donne (ma anche uomini) che si lamentano dei "casi umani" cercano proprio persone con evidenti fragilità o "limitazioni" emotive, psicologiche o comportamentali. Questa attrazione verso partner "da sistemare" è un controllo mascherato da altruismo. Prendersi cura di qualcuno con problemi evidenti dà un senso di controllo sulla relazione. Si diviene indispensabili, e questo è gratificante per chi teme l'abbandono. La dipendenza dell'altro diventa una sicurezza. Essere "quella che lo cambierà" o "l'unica che lo capisce davvero" offre un'identità potente e un senso di scopo. Concentrarsi sui problemi dell'altro è un modo efficace per evitare di affrontare le proprie insicurezze e fragilità. Una relazione tra pari, dove entrambi sono emotivamente stabili, richiede vulnerabilità autentica e reciprocità. Per alcuni, questo è molto più spaventoso che gestire un partner "limitato". La cosa più pericolosa è che questo meccanismo si autoalimenta. Quando inevitabilmente la "missione di salvataggio" fallisce, ecco che ci si lamenta del "caso umano" incontrato, senza mai riconoscere che lo si è scelto proprio per quelle caratteristiche criticate. Il paradosso è che poi ci si definisce "troppo buoni" o "disposti a dare troppo", quando in realtà si stanno cercando relazioni dove poter mantenere uno squilibrio di potere a proprio favore. 

Riconoscere questo schema richiede grande onestà con se stessi. Significa ammettere che forse non si è vittime passive di una cattiva sorte sentimentale, ma partecipanti attivi in dinamiche disfunzionali che, a un qualche livello, servono. 

Etichettare gli ex come "casi umani" è dunque scorretto, in primis verso se stessi. Bisogna guardarsi limpidamente allo specchio, se si ha un ruolo attivo nella scelta dei partner, allora automaticamente si ha anche il potere di fare scelte diverse e cambiare modelli relazionali.


 


Invalsi o profilazione di stato?

Da diversi anni gli studenti sono sottoposti, al secondo ed al quinto anno della scuola primaria, in terza media ed al secondo e quinto anno delle superiori, a sostenere le prove INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione). Questo ente, che dal 2016 fa parte del Sistema statistico nazionale, ha il compito di somministrare prove di Italiano, Matematica e Inglese volte a rilevare il livello degli apprendimenti degli studenti, per poi confrontarli su scala europea.
Il volto delle prove INVALSI è drasticamente mutato dal 2006, anno in cui furono somministrate per la prima volta: da strumento anonimo di valutazione delle scuole, a test psicometrico di profilazione degli studenti. Come spesso accade, le novità sono introdotte mettendone in luce i vantaggi, le comodità, i lodevoli scopi; poi, col tempo, emerge che esse nascondano altri obiettivi, secondi fini, ma intanto il loro utilizzo è entrato, come si sperava, a regime. E lo stesso è accaduto con le prove INVALSI, cavallo di Troia per estorcere, si capisce, dolcemente, le informazioni con la complicità di Dirigenti scolastici e docenti creduloni, a studenti ignari. Così le prove che erano –  ovviamente! – anonime (peccato che ad ogni studente sia associato un codice, pertanto basta risalire all’accoppiata per svelare l’identità dell’alunno), repentinamente diventano strumento di valutazione dell’alunno i cui risultati confluiranno sul portfolio personale della Piattaforma Unica. Quest’ultima, altra trovata del Ministero, raccoglie il ‘’percorso di crescita’’ degli alunni ‘’per aiutarli a fare scelte consapevoli e a coltivare e far emergere i loro talenti’’. Viene già da ridere leggendo le prime righe di presentazione sul sito. Quando si gioca sporco, si sa, col tempo si diventa più protervi. Ed ecco che all’interno delle prove INVALSI, oltre ai quesiti delle varie discipline, vengono inserite domande circa il numero approssimativo di libri presenti in casa; il numero di automobili della famiglia; il titolo di studio ed il tipo di impiego dei genitori. Ora, perché rinunciare ad una forma di arricchimento come quella rappresentata dalla vendita dei dati, dal momento che questi sono il ‘nuovo petrolio’? Facendo qualche ricerca, sembra impossibile risalire al trattamento dei dati personali. Si tratta di un sistema di scatole cinesi in cui ciascun ente rimanda al Regolamento europeo sulla privacy, da cui non si riesce a capire che fine fanno i dati raccolti. Riesce difficile immaginare che i dati servano solo a tracciare un quadro nazionale del livello di istruzione. Questi dati sono preziosissimi. Non solo perché rappresenteranno il percorso evolutivo dello studente (dalle scuole elementari fino all’università) che sarà consultabile dalle stesse università o da futuri datori di lavoro, ma perché si può desumere il quadro cognitivo del singolo studente. Le prove INVALSI sono strutturate come un test psicometrico per la misurazione del Q.I. perché i quesiti rispecchiano scale verbali e scale di performance. I risultati potrebbero essere utilizzati a scopo predittivo, quindi per supporre la collocazione sociale del soggetto, di fatto per stabilire le sue opportunità di vita.
I risultati degli INVALSI infine, sono inappellabili, perciò gli studenti non potranno né visionare gli errori fatti, né potranno ripetere le prove – della durata di sole 2 ore e corrette da un algoritmo –  se queste fossero andate male (non è detto infatti che durante la prova l’alunno sia in buono stato psico-fisico).
Lo scorso anno sono stati “coinvolti” 2,5 milioni di studenti, o bisognerebbe dire “ricattati”? Gli alunni delle classi quinte sono obbligati a fare gli INVALSI, pena la non ammissione all’Esame di Stato.
Stupisce che gli studenti accettino passivamente di svolgere queste prove, forse ne ignorano il vero fine, per ingenuità o indolenza non si pongono il dubbio, oppure dopo anni di scuola hanno interiorizzato il ruolo di sudditi. 

AM


"Virale" e "Iconico"

Basta, non se ne può più. Ogni giorno si leggono i termini "virale" e "iconico" associati a qualsiasi balletto o idiozia che salta fuori. Due termini che hanno subito una progressiva svalutazione semantica. Originariamente riservati a fenomeni di autentica risonanza culturale, oggi vengono applicati con disinvoltura a qualsiasi contenuto che ottenga una minima visibilità temporanea. Il termine "virale" nasceva come metafora per descrivere contenuti capaci di diffondersi autonomamente, quasi come un organismo biologico. Oggi basta che un video raggiunga qualche migliaio di visualizzazioni perché i media lo etichettino come "fenomeno virale", svuotando il termine del suo significato originario. Definire "virale" un contenuto mediocre serve a conferirgli un'importanza che intrinsecamente non possiede, creando artificialmente notiziabilità dove non c'è sostanza. Ancora peggio fanno con l'aggettivo "iconico". Storicamente riservato a opere, personaggi o momenti capaci di trascendere il loro tempo per diventare simboli culturali duraturi, oggi viene attribuito con leggerezza a qualsiasi fenomeno passeggero. Un grottesco vestito indossato da una celebrità, una battuta in un reality show, un balletto su TikTok: tutto diventa "iconico" nell'iperbole mediatica contemporanea. I media, nel loro disperato inseguimento di clic e visualizzazioni, esaltano acriticamente qualsiasi contenuto possa generare profitto immediato, a prescindere dal suo valore artistico o culturale. Questa inflazione terminologica non è solo una questione linguistica, ma riflette un più ampio impoverimento culturale. Quando tutto è "virale" e "iconico", nulla lo è veramente. Si perde la capacità di distinguere tra fenomeni significativi e semplici mode passeggere, tra cultura e intrattenimento di consumo. 



Scelte professionali

Sarebbe importante ogni tanto fermarsi a riflettere sul significato e l'impatto del nostro lavoro quotidiano. Le industrie ad alta tecnologia offrono posizioni prestigiose e ben remunerate, ma quali responsabilità comportano queste opportunità professionali?

Nel settore industriale avanzato, specialmente quello legato a tecnologie strategiche, si tende spesso a valutare un'azienda o un progetto esclusivamente in base alla sua capacità di creare occupazione. "Dà lavoro" diventa il mantra che giustifica qualsiasi attività, senza un'analisi più profonda sul valore e l'impatto di ciò che viene prodotto.

Questa visione riduttiva porta a una pericolosa disconnessione tra l'attività professionale e le sue conseguenze nel mondo reale.

Il potere oggi ci parla di necessaria riconversione industriale, in realtà servirebbe una riconversione di mentalità. Un professionista dovrebbe chiedersi: qual è l'impatto reale dei prodotti che contribuisco a creare? Le risorse impiegate potrebbero essere destinate a progetti più costruttivi per la società? Quale responsabilità ho nel contribuire a determinati settori industriali?

L'orgoglio per le proprie competenze tecniche e per l'appartenenza a settori all'avanguardia non può non includere anche la consapevolezza delle implicazioni etiche del proprio lavoro.

Le scelte professionali individuali contribuiscono a plasmare il futuro collettivo. Forse è tempo di ripensare cosa significhi realmente "dare lavoro" e iniziare a considerare non solo quanti posti di lavoro vengono creati, ma quale tipo di mondo stiamo costruendo attraverso il nostro impegno quotidiano.



Controinformazione

Una controinformazione autentica non aggiunge fantasie, ma rivela l'essenziale. Solo quando si abbandonano le interpretazioni soggettive per abbracciare una lettura lucida della realtà si acquisisce chiarezza.

Osservare senza distorsioni emotive o ideologiche, non è passività – è il prerequisito dell'azione consapevole.

Invece gran parte delle voci nella cosiddetta "controinformazione" offrono non fatti, ma narrazioni alternative contaminate dalle stesse tattiche manipolative che pretendono di combattere. Presentano ipotesi come certezze, collegano eventi casuali in trame fantastiche, sostituiscono l'analisi rigorosa con l'indignazione preconfezionata.

Il bello è che poi si accusano a vicenda di essere falsi controinformatori. Ad ogni intervento iniziano con "i falsi controinformatori vi dicono così, invece io..."

La vera resistenza all'informazione manipolata dei media è innanzitutto una disciplina mentale: osservare senza recitare un copione predeterminato, distinguere tra ciò che sappiamo e ciò che supponiamo, mantenere quella calma interiore che non è indifferenza, ma è il fondamento della lucidità. Solo allora si possono identificare degli spazi reali di intervento, senza sprecare energie in battaglie immaginarie o reazioni automatiche.

La vera controinformazione non suggerisce cosa pensare ed è libera dal bisogno di confermare le proprie convinzioni.




Il sacro

La percezione del sacro precede l’esistenza della società: è un’inclinazione dell’essere umano riuscire a riconoscere la trascendenza, una dimensione metafisica che va oltre l’immanenza. La dimensione del sacro si irradia dalla natura, fitto intreccio di equilibri sistemici di cui l’individuo non è che semplice ed effimera espressione. È sufficiente attraversare la natura per ‘sentire’ il respiro del cosmo, ambiente ordinato – non a caso il termine deriva dal greco kósmos, per l’appunto, ‘ordine’ – contrapposto al caos.
Lévy-Bruhl affermava che l’uomo primitivo avesse la capacità  di ‘sentire’ la trascendenza poiché i suoi processi psichici si basavano su un pensiero pre-logico, privo cioè di una struttura logica, lo strumento per pensare che Aristotele analizzò nell’Organon.
La psiche primitiva viveva un’unione mistica con la natura dove l’Io si fondeva con essa, senza opporre a sé un non-Io, un oggetto percepito; dunque il soggetto non si percepiva scisso rispetto alla realtà esterna, bensì partecipava contemporaneamente al naturale e al sovrannaturale. In assenza di una visione manichea della vita, il pensiero si sviluppava libero dalle regole della logica, libero dal principio di non-contraddizione, perciò era in grado di collocarsi in un contesto cosmico, in un punto fisso, il Centro del Mondo. In tale contesto tutto è e non-è simultaneamente; passato, presente e futuro coincidono. In questo stato mentale primitivo il sacro si rivela e turba l’animo umano, attraendolo e respingendolo, affascinandolo e spaventandolo.
Mircea Eliade scriveva che “il sacro è saturo d’essere”. Solo l’essere è sacro, è cifra dell’esistenza.
Il profano non può far parte dell’essere. L’essere è ciò a cui l’individuo tende, ciò di cui si va alla ricerca, per tutta la vita.
La rivelazione del sacro, per coloro che oggi ancora lo cercano, può dare la nausea. Quando si avverte ad un livello pre-razionale il non-senso dell’esistenza e si ha la certezza dell’ineffabilità del sacro, sovviene un senso di spaesamento nauseante. Si barcolla come dopo un pugno in faccia.
La maggioranza delle persone oggi fa a meno del sacro: si fugge dalla sensazione di nausea che sballotta la mente e ci si nasconde al centro commerciale, il nuovo ‘centro del mondo’, il tempio del consumo.

Tuttavia capita ancora di incontrare persone nei boschi che osservano le cime degli alberi, ne toccano i tronchi e godono del silenzio, dell’immensità e della sacralità della natura.


                                 AM


Nuova Yalta

Nell'ombra delle grandi manovre geopolitiche contemporanee, si profila uno scenario che ricorda la storica Conferenza di Yalta del 1945, ma con coordinate radicalmente diverse. Questa volta, l'oggetto della spartizione non è più il destino dell'Europa uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, bensì l'Europa stessa come entità geopolitica e strategica.

L'asse USA-BRICS sembra essere sempre più un tavolo di negoziazione dove vengono ridisegnati gli equilibri planetari. L'Europa, lungi dall'essere un attore protagonista, si sta trasformando nel principale terreno di confronto e compromesso tra le nuove potenze globali.

Da un lato abbiamo gli Stati Uniti che, consapevoli del proprio declino egemonico, cercano di preservare influenza e alleanze strategiche. L'Europa per loro rappresenta ancora un avamposto geopolitico cruciale, un baluardo contro la Russia e la crescente influenza cinese.

Dall’altro i Brics, un blocco sempre più coeso che include Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. Questi paesi mirano a scardinare l'ordine internazionale guidato dall'Occidente, costruendo alleanze alternative e sfidando l'egemonia statunitense.

E poi c’è l’Europa, sempre più frammentata e priva di una vera sovranità strategica. Essa è il campo di battaglia diplomatico e economico tra questi nuovi equilibri globali.

L'ipotesi di una "Nuova Yalta" si costruisce sui seguenti assi:

- Distacco Energetico: l'Europa viene progressivamente sganciata dalle forniture energetiche tradizionali, con nuove rotte che bypassano i suoi interessi.

- Marginalizzazione Strategica: perdita progressiva di peso politico e capacità decisionale autonoma.

- Frammentazione Interna: divisioni che indeboliscono la capacità di risposta collettiva.

Quello che si profila non è tanto un accordo formale, quanto un tacito rimodellamento degli spazi di influenza. L'Europa è sempre più relegata a un ruolo di "cuscinetto" tra le grandi potenze, con la sua sovranità progressivamente erosa. E con gli attuali vertici non può che assumere il ruolo di oggetto, più che soggetto, delle dinamiche geopolitiche globali.

La "Nuova Yalta" non è ancora scritta. Ma i primi capitoli sembrano già tracciati, con il ruolo dell'Europa nel mondo in via di ridefinizione.

Una situazione geopolitica complessa che solleva più domande di quante non fornisca risposte definitive.



Polarizzazioni

Opinioni polarizzate, tifo per fazioni, bianco o nero. Quando si cerca di analizzare questioni complesse con imparzialità arrivano a flotte i "ma voi da che parte state?" Questo accade soprattutto perché l'appartenenza a gruppi ideologici definiti viene premiata, mentre il pensiero indipendente genera sospetto ("gatekeeper"!). È comprensibile, la comodità di identificarsi con una fazione definita è fonte di sicurezza emotiva e senso di identità condivisa, ma il potere prospera su queste dinamiche di fazioni contrapposte. Chi sceglie l'autonomia intellettuale, osservando criticamente la realtà senza aderire a posizioni preconfezionate, non viene visto di buon occhio, egli minaccia l'ordine stabilito del dibattito polarizzato. Chi cerca di comprendere a fondo le questioni non urla slogan, non si schiera aprioristicamente, ma prima osserva, studia, riflette e valuta. Questo è un modus operandi malvisto, che mal si concilia con le logiche di appartenenza organizzata, ne abbiamo fatto esperienza negli anni. Siamo convinti che la libertà del pensiero individuale e non l'affiliazione a strutture che perseguono primariamente il potere sia un segno di onestà verso se stessi. Meglio essere guardati con sospetto piuttosto che bearsi della comoda appartenenza ad un collettivo. Si rimane ai margini, ma i benefici sono impagabili. 



Resilienza

Resilienza: la parola feticcio dei nostri tempi, il mantra delle conferenze manageriali, il termine magico che trasforma l'oppressione in opportunità. Ci hanno convinto che essere "resilienti" sia la virtù suprema. La resilienza è diventata la foglia di fico perfetta per un sistema economico e sociale che scarica sugli individui responsabilità collettive. 

La resilienza nasce come concetto scientifico che descrive la capacità di un materiale di assorbire urti senza spezzarsi. In psicologia, indica la capacità di affrontare e superare eventi traumatici. Un concetto utile, legittimo. Ma cosa in cosa è stata trasformata oggi? In un imperativo morale, uno strumento retorico che colpevolizza chi non "rimbalza" abbastanza velocemente dalle difficoltà. "Sii resiliente!" è diventato il modo elegante per dire "arrangiati" e "non lamentarti". È il complemento perfetto a un'epoca di precarietà e incertezza Lavoro instabile? Sii resiliente. Stipendio inadeguato? Opportunità per dimostrare resilienza. Stress? Ti manca la resilienza. Questo abuso ha trasformato un concetto potenzialmente utile in uno strumento di controllo sociale. Non è più una qualità personale, ma un obbligo, un nuovo standard di produttività emotiva. La retorica della resilienza opera un ribaltamento perverso: trasforma problemi strutturali in deficit individuali. Se non riesci a sopravvivere in un sistema economico predatorio, il problema sei tu, la tua insufficiente resilienza. Anziché interrogarsi su come cambiare sistemi malati, ci si concentra su come adattarsi meglio ad essi. La resilienza diventa complice del mantenimento dello status quo. Si glorifica dunque la capacità di sopportare condizioni insostenibili, ma noi non siamo materiali da testare fino al punto di rottura. 

Diffidate di chi usa questo termine, la vera forza non sta nel piegarsi senza spezzarsi, ma nel dire "basta" quando è necessario. Non sta nell'adattarsi a sistemi ingiusti, ma nel cambiarli. WI