Il futuro dei nostri figli

Guardiamo negli occhi i nostri figli. Osserviamo con gioia i loro progressi, il loro percorso di crescita. Luce che riempie questi tristi tempi. Poi guardiamo il mondo, il suo repentino cambiamento, l'inumano che prende il sopravvento. Come fare, cosa lasciare loro in eredità, alle future generazioni?

J.R.R. Tolkien scrisse: "Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare".

Dobbiamo insegnare ai nostri figli, ai nostri giovani a non omologarsi. Dobbiamo insegnargli a non dare nulla per scontato, a porre quesiti, ad essere vigili ed attenti. Dobbiamo dare loro in dono i nostri comportamenti, i nostri piccoli gesti quotidiani. Dobbiamo instillare in loro il seme del libero pensiero, che diventa vivo nella libera azione. Non possiamo lasciargli solo macerie. Non possiamo estirpare tutte le erbe maligne del mondo, ma possiamo regalare loro un piccolo appezzamento di terreno fertile dove far germogliare i frutti che oggi abbiamo seminato. Dove l'humus delle nostre idee nutra ancora la speranza di credere in un futuro migliore di questo oscuro presente.



Il popolo secondo Dostojevskij - R.Guardini

"Popolo" è la parola che per Dostojevskij significa il compendio di ciò che nell'uomo è genuino, profondo, sostanziale. Il popolo è sfera dell'umanità schietta e primitiva, profondamente radicata nelle sue tradizioni, vigorosa ed augusta. Ma è popolo anche l'uomo indifeso, perseguitato dal destino, sfruttato dagli abili e dai furbi, oppresso dai prepotenti. Proprio per questa ragione esso è però, più di tutte le forme dell'umano, vicino alle cose eterne, cinto dalla protezione dell'amore divino. La parola "popolo" ha in Dostojevskij, come in tutti i grandi romantici, un suono solenne e nostalgico che commuove e conforta.

Il popolo vive in intima unione con gli elementi primordiali dell'esistenza. È cresciuto con la terra, sulla terra cammina, lavora, da essa trae le sue possibilità di vita. Inserito nel grande ordine della natura, nel ritmo alterno della luce e della vegetazione, sente, forse senza saperlo esprimere, la vivente unità dell'universo.

Per quanto miserabile e peccatore, il popolo rappresenta l'umanità autentica ed è sano e forte nonostante il suo avvilimento perché è inserito nella stessa struttura fondamentale dell'esistenza, mentre l'uomo colto, l' “occidentalista", che ha voluto emanciparsi, ha perso ogni naturale appoggio, e vive in un clima artificioso e malato.

L'uomo del popolo vive invece nel gran circolo del sangue, e come parte di una famiglia, di un gruppo, dell'umanità, è percorso dalla corrente della vita collettiva. Egli è preso dal complesso degli avvenimenti nei quali si compie il destino e non ha alcuna possibilità di sottrarvisi, ma non sente, del resto, il bisogno di farlo. Così la sua vita è tutta colmata dalle realtà fondamentali dell'esistenza, dalle cose di tutti i giorni, da gioie e dolori semplici ma ricchi di ciò che è essenziale.

Il popolo è ancora l'uomo immediato, in cui l'unità non si è spezzata. Non riflette; accetta l'esistenza come gli è data. Non pensa e non sente in modo astratto, ma per immagini e avvenimenti. Non segue una dottrina, parte dalla situazione concreta, lo hic et nunc. In lui l'istinto è ancora infallibile, perciò sa orientarsi e distinguere. Le forze dell'intuizione sono ancora intatte. Conosce il linguaggio simbolico delle cose e in forma di visione può essergli ancora rivelato il senso dell'universo. È saggio e veggente; gli sono maestre le tacite potenze creative.

Così il popolo, e l'uomo del popolo, vive l'integra realtà dell'esistenza. Questo però fa sì ch'egli le sia completamente abbandonato e ne debba sopportare tutto il peso.Tuttavia egli non si domanda se questo peso sia giusto. La vita c'è, con tutta la sua gravezza, e l'uomo semplice non conosce ancora i vari modi, le tecniche per sottrarvisi. La sopporta semplicemente ed in questo è grande.

Il popolo è abbandonato, tribolato, oppresso. Sarà anche astuto, ma non cesserà per questo di essere prigioniero della vita. C'è anche molto male nel popolo:accanto ad un'allegria infantile e ad una bontà delicatissima, ci sono passioni che si scatenano fulminee e possono crescere sino ad un insensato furore. Cattiveria e violenza imprevedibile, furore bestiale, crudeltà spietata, ubriachezza, insensibilità, corruzione, tutte le potenze del male operano in lui e tuttavia, anzi persino in questo, il popolo è "buono come un fanciullo".

In fondo Dostojevskij, come tutti i romantici, ne fa un essere mitico. Il popolo di cui egli parla sono gli uomini che vediamo tutti i giorni, ma dietro ad essi si entra, in un'altra sfera, in un ambito originario ed essenziale e gli uomini reali sono "popolo" nella misura in cui si rivelano la presenza di questa altra sfera.

(…)

Dostojevskij, infatti, fu senza dubbio uno dei più grandi romantici. Ma il suo popolo non è una figurazione romantica in senso superficiale. A parte il fatto che vi si manifestino alcuni aspetti essenziali della concezione cristiana del mondo, questo popolo non è per nulla idealizzato, ma visto in una luce molto realistica — ove non si intenda per realismo una realtà nuda e spoglia, della quale Dostojevskij direbbe ch'essa è povertà e aridità del poeta. Il popolo è visto da lui in tutta la sua sozzura, nei suoi vizi, nella sua depravazione e ignoranza; torpido, avido, dedito soprattutto in modo ripugnante al bere. Tuttavia è "popolo di Dio".

La sua esistenza non è giudicata santa per se stessa — ove Dostojevskij sembra incline a crederlo, lì egli soggiace al suo panslavismo metafisico — ma essa in ogni suo aspetto è aperta alla santità; immediatamente di là dai suoi confini c'è Dio. Può accadere allora da un momento all'altro che l'individuo più corrotto, standosene mezzo ubriaco in una taverna, si metta a parlare di Dio e del senso dell'esistenza con tanta profondità che non si può fare a meno di ascoltarlo.

Fonte: tratto da “Il mondo religioso di Dostojevskij” di R.Guardini (ed.Morcelliana)