La medicalizzazione degli studenti

Da qualche anno nelle scuole sono stati attivati sportelli di supporto psicologico. Si tratta di un ulteriore passo verso l’istituzione di un sistema di controllo sociale totale che si insinua nelle menti, effettua diagnosi cliniche ed applica etichette che definiscono l’individuo. Agli studenti è consentito assentarsi durante le lezioni mattutine per recarsi allo sportello di ascolto, dove uno psicologo avrà il compito di fare anche da ‘’mentoring per l’orientamento’’, progetto finanziato dal Pnrr per ‘’sostenere gli studenti nel loro percorso di crescita’’. Gli alunni, oltre ad essere accolti, orientati, sostenuti e ascoltati, ora vanno anche diagnosticati, etichettati, medicalizzati. In alcune scuole spetta addirittura al consiglio di classe indicare gli studenti a ‘rischio dispersione’ a cui servirebbe un salto dallo psicologo. Un tempo erano poche le persone che si rivolgevano allo psicologo, si diffidava di questa figura importata dagli Stati Uniti. Poi le serie tv e la diffusione delle facoltà di Psicologia, hanno indotto un nuovo bisogno. Il sistema capitalistico si regge sulla creazione di falsi bisogni e conseguentemente offre soluzioni a pagamento. La scuola, che non è sfuggita a questo modello economico, ormai rispecchia un’organizzazione aziendale, dove gli studenti sono utenti e perciò bisogna provvedere a soddisfarli, offrendo loro servizi. Si ottengono così due obiettivi: la normalizzazione della figura dello psicologo che, rispetto ad un tempo, non è più lo strizzacervelli che cura i matti; ed il modellamento degli studenti secondo gli standard stabiliti dal sistema. Non vai bene di matematica? Vai dallo psicologo, sicuramente sarai discalculico. Non vai bene di inglese? Sicuramente sarai dislessico. Sei irrequieto e disinteressato? Vedrai, accerteranno un disturbo dell’attenzione. Ti senti giù? Non sai a quale facoltà universitaria iscriverti? Stai collezionando insufficienze? Vai allo sportello psicologico!!! Giovani trasformati in pazienti imbranati ed incapaci di provvedere a se stessi, acconsentono inconsapevolmente a cedere parte della propria autonomia. Illich la chiamava ‘espropriazione della salute’, la gestione professionale e metodica dell’individuo sano che viene trattato da malato. Per gli studenti di oggi, quando saranno adulti, apparirà normale andare dallo psicologo e portarci i propri figli, a maggior ragione se non saranno mai stati in grado di educarli. Nell’era del capitalismo anche la salute è diventata una merce.


                                                      AM


Antropologia capovolta

Secondo Feuerbach Dio è una mera proiezione che l’essere umano ha compiuto di se stesso: gli attributi umani, banali e finiti, attraverso un processo di alienazione, sono stati infinitizzati. Ciò che è qualitativamente limitato e pertanto destinato ad esaurirsi, tenta invano di ricercare l’infinito nel finito, proiettando fuori da sé ciò di cui è sprovvisto.
Eppure Dio è morto. È stato sostituito dalla tecnica, un iperoggetto, direbbe Timothy Morton, viscoso e insidioso, che dà l’illusione di amplificare se stessi. Non possiamo liberarcene e più tentiamo di sconfiggerla, più rimaniamo invischiati.
Internet, il cellulare, l’IA, sono tutti sistemi simbolici nei quali siamo immersi e di cui non comprendiamo appieno il funzionamento; sono proiezioni di qualità umane dilatate collocate su un piano ontologico alieno che tuttavia siamo convinti di padroneggiare solo perché hanno sembianze antropomorfe. La tecnica dà vita ad un ambiente in cui si annullano i principi della logica aristotelica: niente più A=A, A non è non-A , A o è B o è non-B.  La verità è che non esiste più alcuna verità, tutto è possibile ed impossibile allo stesso tempo, né si può risalire alle cause di un fenomeno e capirne i molteplici effetti. Tutto sembra collegato, ma potrebbe anche trattarsi della tendenza tipicamente umana a cercare schemi che in realtà non esistono. La tecnica è l’espressione di quella esasperante razionalizzazione che secondo Weber ha investito l’Occidente, si è radicata grazie al capitalismo, e ci ha rinchiusi in una gabbia di acciaio. La crescente razionalizzazione è una forma di antropologia capovolta, è il nuovo Dio della nostra epoca: promette conforto, salvezza e speranza che dimorano in un deserto di valori. Convince di essere onnipotenti e onniscienti, quando in realtà è lei a possederci e conoscerci tutti.
Secondo Timothy Morton gli iperoggetti “ci mettono al cospetto di una finitudine molto grande”. La voragine della nostra finitudine, che ci dà la nausea, un tempo trovava sollievo in Dio, benché bisognasse rivolgersi ad un piano metafisico; oggi quel senso di finitudine viene colmato dalla tecnica che scava ancor più a fondo quella voragine, producendo un ribaltamento dell’essere umano e dei suoi valori, asservendolo e svuotandolo della sua essenza.

“Solamente un Dio ci può salvare” aveva detto Heidegger durante un’intervista per Der Spiegel nel 1966. Oggi, a quasi 60 anni di distanza, dobbiamo chiederci chi sia veramente questo nuovo Dio.  


                                                   AM

                                                




Lo sguardo bambino

Spesso le amicizie più profonde sono quelle che ci portiamo dietro dalle scuole dell'infanzia. Perché accade? Perché viviamo in prima persona il bambino che è dentro quell'amico e ciò ce lo fa vedere in un'ottica più umana e compassionevole. 

Avete mai provato a guardare le persone come se fossero ancora bambini? È un esercizio molto fecondo, quando consideriamo gli altri nella loro vulnerabilità e innocenza, riusciamo a comprendere meglio le loro difficoltà. Sviluppiamo empatia. Ci accorgiamo che i loro comportamenti da adulti riflettono paure, sogni e insicurezze radicate nell'infanzia. 

Invece di puntare aprioristicamente il dito per giudicare o criticare un comportamento, coltivando questa visione si riescono ad avere effetti positivi sia sugli altri che su noi stessi. È un esercizio che fa bene a tutti perché invece di reagire impulsivamente con rabbia o frustrazione, possiamo fermarci e attraverso questo "sguardo bambino" considerare le esperienze dell’altra persona, approcciando con calma e comprensione. 

Provare per credere. Non è semplice ma una volta entrati in quest'ottica si riescono a creare relazioni molto più profonde poiché ci connettiamo con gli altri a un livello più autentico. Si crea altresì una maggiore fiducia reciproca e le persone si sentono più libere di esprimersi senza paura di giudizio. 

In quanti vanno a regalare soldi a psicologi solamente perché hanno bisogno di mettersi a nudo e mostrare la propria vulnerabilità senza essere giudicati? Circondarsi di persone che riescono ad avere questo approccio nelle relazioni significa diventare improvvisamente ricchi.



I giovani italiani al cinema. Controcultura, moda e il musicarello

   Tra I generi cinematografici che nascono nell’Italia dal dopoguerra in poi, c’è anche il musicarello. Considerato, a ragione, tra I generi minori, e quasi ignorato negli studi accademici, soprattutto fuori dall’Italia, questo genere cinematografico nasce nella seconda metà degli anni Cinquanta per diventare popolare alla metà degli anni Sessanta. Circa 100 film vengono prodotti in 15 anni, alcuni anche diretti da registi noti come Lucio Fulci e Lina Wertmüller.   I tratti ricorrenti su cui si basa il genere non sono poi così differenti da quelli del cosiddetto neorealismo rosa o d’appendice degli anni Cinquanta, la trama infatti si basa spesso su una storia d’amore contrastata, ma mai tragica come nell’altro genere in voga negli anni Cinquanta, il melodramma; la novità sta nello scegliere come protagonista un cantante emergente e nel sottolineare le scene più intense della narrazione con canzoni dello stesso. Raramente queste produzioni erano caratterizzate da un’alta qualità e possono tranquillamente essere considerate a ragione cinema commerciale ed anche promozione dei cantanti di musica leggera. Nonostante ciò, il genere non va ignorato perché ritrae una nuova generazione di giovani italiani, e sono dunque, come tanti altri film e generi cinematografici, uno strumento e una testimonianza importante per lo studio sociologico dell’Italia. Il musicarello porta sullo schermo due elementi di costume e cultura, ma anche due categorie merceologiche, che per la prima volta in Italia venivano pensati i giovani: la musica leggera e l’abbigliamento alla moda.  Il genere riscuote un certo successo tra i giovani, nuova classe di consumatori fino a poco tempo prima ignorata, ma che stava allora diventando una interessante fetta di mercato. Dunque, cinema, musica e moda, generi commerciali che nell’Italia dagli anni Cinquanta hanno visto un’enorme espansione e che, dalla fine dei Sessanta, nella loro nuova veste, accompagnano la nuova generazione nella strada verso nuovi modelli, accontentando il loro desiderio di distinguersi dai padri, e quindi essere consumatori differenti.

    I protagonisti dei musicarelli vorrebbero apparire spesso dei ribelli, ma sono dei ribelli in stile Italiano, non certo il modello di ribelle che Hollywood aveva proposto ai suoi giovani negli anni Cinquanta. Marlon Brando, con la sua giacca di pelle era stato probabilmente uno dei simboli più tipici di quegli anni, imitato dai giovani in varie parti del mondo nel suo iconico ruolo di ribelle in Gioventù Bruciata (Rebel without a Cause, Ray, 1955).  Sono questi gli anni in cui nascono subculture e soprattutto controculture giovanili. Quasi tutte queste tendenze nascono in relazione a nuovi generi musicali e sviluppano un loro stile di abbigliamento. Tuttavia, queste controculture nascono fuori dall’Italia e arrivano con lieve ritardo nel nostro paese. Inoltre, in Italia, nel processo di acquisizione dei caratteri specifici di queste controculture, le stesse si modificano in relazione alla situazione cultura e politica del nostro paese. In quegli anni, ad esempio, gli hippies, compaiono solo sullo sfondo di vari generi, soprattutto gialli e polizieschi della fine degli anni Sessanta, e sono rappresentati in maniera assolutamente negativa; la loro ribellione allo stile di vita borghese ne costituisce un pericolo e sono quindi rivestono ruoli secondari come sospettati criminali o criminali vedi e propri in film come Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Petri, 1970) e Una lucertola con la pelle di donna (Fulci, 1971).   A queste atmosfere tetre e a questi personaggi sicuramente più controtendenza e ribelli, il musicarello contrappone i suoi giovani musicisti che si ribellano più che altro al volere dei loro genitori. Tra gli altri ‘ribelli’ il musicarello porta sullo schermo Rita Pavone, Al Bano e Romina, Caterina Caselli e Gianni Morandi. Un esempio abbastanza tipico, in quanto a trama, ma un po’ differente in quanto a stile, è Non stuzzicate la zanzara (Wertmüller, 1966). È la storia di Rita, una ragazza di nobili origini, che torna a casa dopo essere scappata dal collegio, ma il suo intento è diventare una cantante e sposare il suo ex professore di musica. Il padre, un uomo fissato con la disciplina militare, cerca in tutti i modi di impedire a Rita entrambe le cose. Tuttavia, Rita con il supporto della madre riuscirà a coronare i suoi sogni. Rita è ribelle, ma come una qualsiasi romantica e ingenua adolescente, come romantiche e un po’ da favola sono le scenografie e i costumi del film. Rita vuole cantare ‘canzonette’ e sposare il suo professore di musica. Tra i musicarelli, questo, diretto da Lina Wertmüller, rappresenta una particolare versione un po’ musical americano, perché comprende balli con coreografie, un po’ favola perché ambientato in un castello fantasticamente arredato e decorato, ma con tocchi comico-ironici nello stile della Wertmüller. In questo musicarello, i due protagonisti interpretati, da giovanissimi Rita Pavone e Giancarlo Giannini, entrano in scena cantando e indossando uno stesso identico completo color melanzana completato da un dolcevita rosa shocking, cappello e stivaletti in stile Beatles; uno dei primi esempi di abbigliamento unisex. Niente violenza, né sesso e neanche grandi ideali per cambiare il mondo, si sogna soltanto un po’ più di libertà, ingenuo divertimento, pantaloni e vestiti colorati: questi i giovani italiani descritti nel musicarello. Forse, in questo caso, un lieve accenno alla lotta nella ribellione di madre e figlia al pater familias.



                                                  MLS


L'incidente del Passo Dyatlov

L'incidente del Passo Dyatlov è uno dei misteri più fitti ed intriganti degli ultimi settant' anni.

In una remota zona degli Urali, nell'allora URSS, agi inizi del 1959, nove uomini, nove esploratori (sette maschi e due donne) tutti con profonda esperienza a livello di scalate, fecero una brutta fine.

Capitanati dall'esperto ventitreenne Igor Dyatlov, il gruppo intraprese una missione esplorativa. Improvvise condizioni meteo avverse, costrinsero, da quello che si capì successivamente ad una deviazione sul percorso iniziale e ad un accamparsi ai piedi di una montagna dal sinistro nome di "montagna morta". Tardando il loro arrivo nel punto di incontro prestabilito, nel febbraio partirono le ricerche e quello che si trovarono di fronte i soccorritori ha dato vita alle teorie del mistero.

Molte domande che hanno sempre trovato incomplete risposte.

La tenda che ospitava i nove componenti della spedizione era squarciata dall'interno e i corpi degli occupanti lontani da essa. Sparpagliati nei dintorni.

Dalle tracce si comprese che i ragazzi si erano allontanati non solo con passo normale ma anche che avevano lasciato gli indumenti e gli effetti personali all'interno della tenda.

A circa cinquecento metri si trovavano i resti di un fuoco dove vennero trovati due copri seminudi e senza scarpe.

Altri tre corpi nudi vennero trovati nei paraggi del bivacco morti congelati.

Solo qualche mese dopo, quando la neve aveva iniziato a sciogliersi, i soccorritori trovarono i corpi degli altri esploratori nel corso d'acqua lì vicino.

Alcuni di loro, da quello che si capì dalle autopsie, morirono di ipotermia mentre sui corpi dei ragazzi trovati nel fiume erano presenti lesioni profonde al cranio e alle costole.

A una donna mancava la lingua e gli occhi ma senza segni evidenti di una qualsiasi forma di lotta.

Nel campo base vennero trovate le foto del gruppo che faceva notare sui volti dei ragazzi un'ansia crescente negli ultimi giorni di vita oltre ad un'altra foto inquietante di una figura indefinita nel bosco adiacente alla radura.

Molte sono le ipotesi che sono state formulate nel corso del tempo inerente a questo "incidente".

L'indagine finale parlò come causa di morte di "una forza naturale irresistibile" e questa vaga conclusione lasciò tutti sbigottiti e insoddisfatti.

Da qui il sorgere di una miriade di ipotesi ma tutte non complete e che lasciano aperte ancora oggi molte voragini di spiegazione.

Ecco perché il caso del Passo Dyatlov resta ancora oggi un mistero inspiegato che affascina ma anche atterrisce.

Per chi voglia approfondire in modo TOTALE TUTTA LA VICENDA, si consiglia il libro di Keith McCloskey dettagliato e preciso sia a livello di cronaca, che di indagine e anche per quel che riguarda tutto il ventaglio di ipotesi sulla causa di morte dei nove esploratori.

Ad ognuno, a fine lettura, la propria e personale conclusione.


                                                     OC

Transizione digitale

Nella scuola si fa un gran parlare di digitalizzazione. Quando poi si legge il Piano Scuola 4.0, in cui sono previsti visori per la realtà aumentata (AR) e aule immersive, sembra veramente che la trasformazione della scuola sia imminente. Nel 2021 col Pnrr sono stati destinati 800 milioni di euro per “promuovere un sistema di sviluppo della didattica digitale e di formazione del personale scolastico sulla transizione digitale”. Da quel momento nelle circolari, ai collegi docenti e nei corsi di formazione per gli insegnanti si fanno riferimenti spasmodici all’utilità dell’IA. Un vero e proprio lavaggio del cervello per convincere dell’ineludibilità della didattica digitale. Gli alunni, già alle medie, fanno corsi di coding e vengono pubblicati volumi intitolati “Lavorare sul genere a scuola con coding e robotica educativa” scritti da due ricercatrici di Indire (Istituto Nazionale Documentazione, Innovazione, Ricerca Educativa).
Le pressioni affinché la scuola cambi, sotto molteplici punti di vista, provengono dai tentacoli di vari enti privati, tra cui proprio Indire – sovvenzionato da associazioni private – che gestisce le prove Invalsi, i programmi di mobilità all’estero Erasmus+ ed i programmi di formazione per docenti e studenti. Questi enti che si nascondono dietro acronimi impossibili da decifrare sono una commistione di soggetti e di partecipazioni pubbliche e private così ingarbugliate che servirebbe un gruppo di detective per decriptare la trama del sistema. Solo per citarne una: il Direttore Generale di Indire è anche Presidente dell’Università Telematica degli Studi IUL. Ci sarà per caso conflitto di interessi?
Nonostante sembri che sia stata messa in moto una macchina che non lascia scampo all’umano carisma che caratterizza ancora alcuni docenti, i sistemi di IA da applicare alla didattica sono ancora molto indietro. Gli stessi informatici coinvolti nei progetti di HCI (Human Computer Interaction) affermano che si è ancora distanti dal riuscire a replicare a livello robotico le capacità percettive ed interattive dell’essere umano. Al momento l’IA non è in grado di classificare, trovare pattern e mappare grandi quantità di dati senza un grosso dispendio di energia. I vari progetti di transizione digitale della scuola stanno sicuramente generando profitti per alcuni sinistri soggetti e mensilità extra per alcuni docenti servi del sistema, ma per il momento, fortunatamente, il risultato concreto è un nulla di fatto.


                                                   AM

                                                  

La magia di "Nuovo Cinema paradiso"

 "Anche se il tempo passava, in tutte le donne che incontravo ho cercato solo te"

"Nuovo Cinema Paradiso" di Giuseppe Tornatore è un film che ebbe un debutto fallimentare ma che è diventato negli anni un classico del cinema.

Quello di "Nuovo Cinema Paradiso" è stato un percorso unico e meraviglioso, un film dato praticamente per spacciato alla sua uscita il 17 novembre del 1988.

Accolto timidamente l’anno successivo però al Festival di Cannes ottenne il Grand Prix Speciale della Giuria e l'anno dopo ancora ottenne l’ambito Oscar come miglior film straniero fino a diventare un classico del cinema mondiale.

"Nuovo Cinema Paradiso" è film che parla del passato e di un passato che si proietta nel presente.

È un film che affonda le radici nei ricordi ed in un passato di provincia semplice legato allo scorrere naturale delle cose.

Ovviamente non poteva mancare la musica del maestro Morricone che non funge solo da semplice accompagnamento agli episodi del film ma che restituisce allo spettatore l’esatta essenza della struggente vita del protagonista.

Il film non è una celebrazione nostalgica dell’arte cinematografica in senso stretto, si tratta un’autobiografia sognata attraverso il cinema stesso.

Il "luogo" principale" della narrazione è certo il cinema, sia quello fisco (la sala) che le emozioni delle proiezioni, ma poi, altra componente basilare, è l'essenza stessa di una società che riprendeva a sognare dopo la guerra.

Il cinema quindi inteso non semplicemente come svago ma come formatore della memoria collettiva.

E poi, nella seconda parte ecco irrompere l'altro elemento centrale: il ricordo.

Quel ricordo che non sbiadisce mai.

Quel qualcosa che si può accantonare in un angolo ma che mai diventa dimenticanza.

Un ricordo che è radicalità, identità, essenza e profumo.

"Nuovo Cinema Paradiso" è una vera e propria metafora di epoche che cambiano e che partendo da un posto sperduto si proiettano e sovrappongono sul mondo intero.

Basandosi sul concetto di tempo.

C’è il divenire ma anche l’assenza nel film di Tornatore.

Perché se il tempo non esiste, le vite delle persone e le idee potranno sempre incontrarsi.

Basta la magia dell’amore come dice Alfredo al piccolo Totò: "Qualunque cosa farai, amala, come amavi la cabina del Paradiso quando eri picciriddu"

Il messaggio di "Nuovo Cinema Paradiso" è un messaggio di nostalgia e di speranza.

Quella cosa che si è persa perché abbiamo abdicato alla "costruzione" delle passioni.

Che siano quelle legate ai rapporti comunitari o ai grandi amori del passato che non vengono mai dimenticati.

"Nuovo Cinema Paradiso" è uno di quei film che restano impressi nel cuore dello spettatore per tutta la vita.

Un cinema non fatto di calcoli e perfezione ma di emozioni forti. Un’ indelebile inno alla vita, ai legami e all’amore.

Alle cose che mai finiscono e che vengono condensate nella visione finale in cui la splendida avventura della vita, con tutto il suo carico di ricordi avvolgenti e di dolori insanabili, ci viene mostrata in quei baci finali proiettati sullo schermo a cui non possono sottrarsi le lacrime.


                                                OC

Momenti

Un tempo scattare una foto di famiglia, col partner, ai figli, era l'immortalare di momenti che sarebbero valsi come ricordi da sfogliare negli anni con i propri cari.

Con l'avvento dei social network si è capovolto tutto, non più una delicata funzione di eternare attimi ma una ricerca compulsiva di approvazione.

Si punta il dito sui giovani ma a noi pare che le generazioni più "vecchie" siano quelle messe peggio da questo punto di vista.

Leggiamo cose davvero imbarazzanti, coppie che vivono sotto lo stesso tetto farsi i complimenti e dialogare sui social, per mostrare al prossimo quanto sono bravi e affiatati.

Bambini spiattellati ovunque, foto di famiglia di ogni tipo e in generale condivisione costante della propria vita quotidiana sui social media che non può che riflettere problematiche interiori.

Questa continua esposizione della propria vita privata spesso maschera disagi, solitudine, ansia e depressione.

Pertanto invece di commentare sempre sotto le foto di questi soggetti "ma che bella famiglia che siete", "che bel bambino", "che bravi!", o peggio finire nei vortici dell'invidia per la finta felicità altrui, se siete loro amici piuttosto fategli comprendere che tutto ciò non è sano.

Basta esporre se stessi su questa immondizia digitale, alienante e finta.

La vita è altrove.




Anacronismo

Da un lato si parla delle grandi potenzialità dell'intelligenza artificiale che, parliamoci chiaro, potrebbe già ora sostituire gran parte dei lavori umani, dall’altro però non si molla il modello tradizionale di lavoro di otto ore al giorno con l'età pensionabile a 70 anni.

Regole pensate in una società totalmente diversa, continuano incredibilmente a persistere, sembrano tutti ipnotizzati.

Costoro parlano ancora di lotte sindacali, di orari di lavoro, di INPS, senza rendersi conto del punto in cui siamo e senza capire che i sistemi di previdenza sociale in auge sono stati progettati attorno a un modello di lavoro tradizionale per una società totalmente differente.

Invece di sedersi seriamente a un tavolo e prendere atto che il modello delle otto ore, delle pensioni dopo 40 anni è una roba completamente anacronistica, continuano a fare tira e molla, lo smart working non va bene, il giorno in meno a settimana è troppo, alziamo l’età pensionabile a 80 anni ecc ecc

Ma questi ci sono o ci fanno? Domanda retorica, ovviamente.

Bisogna cambiare immediatamente la percezione del lavoro e del tempo libero, questo può avvenire solo attraverso un cambiamento culturale profondo che sradichi concezioni obsolete, ormai insostenibili.

Vanno abbattute tutte quelle barriere sociali, economiche e culturali che rendono difficile una transizione rapida a nuovi modelli di lavoro e pensionamento.

Basta ipocrisia. Si affronti la realtà seriamente, che piaccia o non piaccia le regole vanno totalmente rifondate.

 



Elettrodomestici moderni

Oggi acquistare un elettrodomestico significa mettere in preventivo che dopo pochi anni bisogna comunque cambiarlo.

Li progettano così, la chiamano "obsolescenza programmata", ovvero fare durare i nuovi prodotti solo qualche anno.

Di recente osservavamo un frigorifero di 30 anni, funziona ancora alla grande senza dare alcun segno di cedimento. Oggi non è più possibile trovare apparecchi simili.

Per ridurre i costi di produzione, utilizzano materiali scadenti, per esempio plasticacce sottili e componenti elettronici di bassa qualità.

Non importa se si spendono 2000 o 200 per una lavatrice, tanto dopo qualche anno bisognerà sostituirla.

C'è poi la questione delle classi energetiche per cui si consuma meno a discapito della durata del prodotto. Poi certo, c'è anche il discorso della complessità tecnologica, poiché gli elettrodomestici moderni hanno funzioni sempre più avanzate (spesso inutili) che possono fare aumentare il rischio di guasti ma in realtà dietro tutto c'è solo la grande cultura del consumismo che punta a "stimolare" il mercato.

Si promuovono prodotti costosissimi (in comode rate, per indebitare perennemente la gente) da "cambiare" ripetutamente nel corso di pochi anni.

La riparazione? Non serve più. Bisogna buttare e riacquistare, d'altronde c'è a disposizione il nuovo elettrodomestico che canta, rutta, scoreggia e balla ed ha una classe energetica alta!

A che serve riparare quell'obsoleto prodotto acquistato giusto qualche anno fa?

"Produci, consuma, crepa".




La rivoluzione silenziosa indicata da Ivan Illich

"Esperti di troppo" di Ivan Illich è un libro da leggere, ci invita a ripensare il nostro rapporto con i cosiddetti “esperti”, con le istituzioni e con la tecnologia.

Illich propone una "deprofessionalizzazione", ovvero un recupero delle competenze da parte delle persone comuni poiché la professionalizzazione di vari settori, come la medicina (“Nemesi Medica”), l'educazione (“Descolarizzare la società”) e la tecnologia in generale ha causato una dipendenza da parte del popolo nei confronti degli “esperti”.

Perdendo competenze pratiche, le persone difatti diventano passive, delegando il controllo della propria vita agli “esperti”, ecco che allora Illich propone un ritorno a forme di conoscenza più decentralizzate e accessibili, che spiega dettagliatamente nel libro.

Per Illich vi è una necessità impellente di abbattere le barriere tra gli “esperti” e la popolazione, mettendo in discussione una società in cui il valore delle persone è misurato in base alle qualifiche.

Per il filosofo austriaco bisogna riscoprire competenze pratiche e conoscenze tradizionali, attraverso una istruzione basata su esperienze dirette.

La dipendenza dagli "esperti" sforna persone incapaci di risolvere problemi senza che intervengano questi ultimi, ecco che entra così in gioco il legame tra conoscenza e potere, poiché man mano che gli esperti guadagnano autorità, il potere decisionale si sposta sempre di più verso le loro istituzioni, creando un sistema in cui gli individui diventano impotenti.

Negli anni pandemici tra il 2020 e il 2023 abbiamo potuto vivere in prima persona i rischi di cui ci parlava Illich, nel momento in cui gli esperti dicevano al popolo le cose più astruse, dai caffè in piedi mascherati ma seduti no, alle scuole in maschera sui banchi, ai finestrini in auto, al divieto di sport, alla chiusura delle altalene dei bimbi, alla disinfestazione delle spiaggie e l’elenco sarebbe davvero lunghissimo. Cosa accadde? Esattamente impotenza da parte del popolo, quella di cui ci metteva in guardia Illich, “perché lo dicono gli esperti, sei per caso virologo tu?”.

Recuperare le sue opere oggi è necessario per riflettere sul significato dell'autonomia individuale e collettiva in un mondo sempre più mediato da esperti e tecnologie.

La "rivoluzione silenziosa", così la definiva Illich, avverrà quando le persone inizieranno a prendere coscienza della propria autonomia e a rifiutare la dipendenza dagli “esperti” in modo tale da resistere a forme di controllo che limitano la loro libertà.


 

La caduta del Muro di Berlino

Sono trascorsi 35 anni dalla caduta del Muro di Berlino.

Le immagini di quella notte del 9 novembre resteranno per sempre nella memoria.

Il muro che cade e i berlinesi dell'Est che passano ad Ovest attraverso il famoso Check Point Charlie, una città sommersa da una massa umana fatta di colori, emozioni, curiosità, frenesie, rivincite.

Berlino "città aperta", la disintegrazione della "Prussia rossa", le tavole di Yalta fatte a pezzi, la Storia che espugna il comunismo come una ipotetica Bastiglia e brucia i fantasmi del passato.

Perché la fine del Muro, che appunto simboleggiava la Guerra Fredda nella sua interezza, di questa cicatrice che tagliava in due l'Europa post bellica è un qualcosa che va al di là della mera rappresentazione storica.

Da lì a poco il signor Douglas Pearce intitolò un suo disco "cosa rimane quando i simboli si frantumano?".

Infatti, al di là della gioia per la fine di un oltraggio, chi sapeva guardare oltre il contingente si rese conto che il mondo non solo non sarebbe stato più lo stesso ma che si sarebbe trasformato in qualche cosa di solo apparentemente migliore.

Dando libero sfogo a quel capitalismo di matrice americana e senza un contrappeso a frenarne la diffusione, si sarebbero espanse ovunque le forze altrettanto o addirittura peggiori del socialismo reale.

Ne parlò profeticamente già Evola in un breve saggio del 1929 che vi invito a cercare e a leggere per chi non ne fosse a conoscenza.

Forze, quelle del capitalismo, che al contrario di quelle del bolscevismo sono più subdole, più latenti, ammantate di lustrini e neon luccicanti.

Queste forze negative, non avendo freni, avrebbero non solo ammaliato tutti ma avrebbero reso chiunque (o quasi) dei perfetti "schiavi felici".

Il modo in cui viviamo ORA è figlio di quel crollo e della fine di un equilibrio. Un mondo post nichilista, senza simboli, senza eroi, senza punti di riferimento, senza ideali ma solo con codici fiscali e codici a barre.

Questo sarà il nuovo muro da abbattere per le giovani generazioni europee.

Il muro del capitalismo transnazionale, del liberismo, del potere dei media, dell'atlantismo, della NATO, delle multinazionali del farmaco e del petrolio, dell'unione europea, della BCE, dei burocrati di Bruxelles, delle ONG, della sostituzione etnica, della cultura woke.

Per tutti gli altri ci sono Mentana, Formigli, Gruber, Fazio e la De Filippi.


OC

La vittoria di Trump

A differenza delle precedenti elezioni americane, sembra che questa volta vi siano stati, da parte dei supporter di Donald Trump, minori attese messianiche e un entusiasmo più pacato e realista nei confronti della vittoria del proprio fronte. I toni della sinistra, invece, sono stati come sempre drastici e scomposti, vagheggiando di catastrofi economiche e fine del mondo mentre saranno alle prese per mesi con la complicata elaborazione di una sconfitta per loro impensabile e incomprensibile. Detto questo, vorremmo chiedere agli uni e agli altri: cosa vi entusiasma di Trump? Che cosa vi terrorizza di Trump? Perchè nella sostanza, dal nostro punto di vista, realmente cambia ben poco. Che sia la forza del capitale transnazionale e smaterializzato a vincere, o quella del capitale dei gruppi di interesse nazionale e degli oligarchi, poca differenza fa: sono sempre due stadi del capitalismo avanzato che convergono quindi verso gli stessi obbiettivi, a breve o lungo termine. Perchè non esiste un capitalismo buono, ma solo uno spregiudicato e uno prudente. Da questo punto di vista, Trump non è una battuta d'arresto nei confronti del tentativo di instaurazione del sistema neoliberista occidentale su scala planetaria, ma solo un cambio di passo, una fase del suo consolidamento. Progressismo e conservatorismo sono due facce della stessa medaglia.




Pasquale Festa Campanile: nuove versioni della commedia all’italiana.

Pasquale Festa Campanile è stato uno tra i registi italiani che con il suo particolare stile ha contribuito alla storia di quel genere che ha caratterizzato il cinema italiano dalla fine degli anni Cinquanta: la commedia all’italiana.

La commedia all’italiana esplode proprio all’inizio di quel periodo di (apparente) prosperità che è stato definito come boom economico (1957-1963) e si pone come obiettivo quello di rappresentare la realtà di una società, quella Italiana, che nel mutare la sua economia stava mutando il suo stile di vita. La commedia all’italiana si pone l’obiettivo di narrare questa nuova realtà attraverso le virtù, ma soprattutto i vizi, degli italiani in una chiave ironica e con un tono agrodolce. Questo genere però prosegue ben oltre gli anni del boom e pian piano ingloba i nuovi mutamenti che la società italiana attraversa a vari livelli.

Il lavoro di Pasquale Festa Campanile si inserisce proprio in questo secondo periodo, e in particolare è dalla metà degli anni Sessanta che il regista sviluppa una sua personale versione della commedia all’italiana: il genere viene rivisitato in chiave erotica. Le sue commedie sono state definite del critico e storico cinematografico Gian Piero Brunetta come film dalla raffinata impaginazione tipica da riviste maschile. In generale, da un punto di vista dell’immagine, l’effetto patinato è effettivamente assicurato da costumi e set interni eleganti e modernissimi in linea con design e moda in voga dalla seconda metà degli anni Sessanta. Ma la variante erotica della commedia all’italiana di Festa Campanile spesso va oltre una semplice raffinatezza estetica volta ad attrarre il pubblico maschile, il regista infatti introduce personaggi femminili che non solo non mancano di classe, ma che soprattutto propongono sullo schermo modelli femminili differenti dal passato, per carattere, stile di vita, fisicità e abbigliamento. La raffinatezza di ambientazioni, costumi e narrazione serve al regista per precorrere sullo schermo temi per i tempi abbastanza scottanti perché legati ad una nuova libertà di costumi in campo sentimentale e sessuale; una libertà che ai tempi veniva vista dai più, dentro e fuori dal mondo del cinema, in maniera distorta. Per questo motivo Festa Campanile, come altri registi dell’epoca, deve scendere a compromessi per potere, ad esempio, raccontare la storia di una giovane italiana che segue un vento di liberazione dei costumi. Il compromesso sta nell’utilizzare un’attrice non italiana, per raccontare però la storia di una nuova generazione di italiane. Una scelta obbligata per tacitare la sempre presente ipocrisia della morale di tanto cinema italiano che preferiva che le sue attrici, soprattutto le più note, non venissero associate a questo nuovo stile di vita.

Un esempio tra le opere di Festa Campanile rappresentativo di questo stile e di tutte queste istanze è La Matriarca (1968), interpretato proprio da un’attrice non italiana, la francese Catherine Spaak. Il film narra la storia di una giovane e bella vedova, Mimmi, che dopo aver scoperto che il marito intratteneva diverse relazioni con altre donne, sperimentando con loro varie pratiche sessuali, decide di provare anche lei nuove esperienze. Mimmi però si avvia a queste esperienze in maniera quasi scientifica prendendo spunto dal libro Psychopatia Sexualis di Krafft-Hebing.

Questo testo è stato non soltanto il primo di carattere scientifico ad offrire un quadro di tutti i comportamenti sessuali secondo una analisi psicologica, ma aveva attirato l’attenzione di un più vasto pubblico perché trattava in maniera accademica, tra gli altri, temi come il sadomasochismo e il feticismo, pratiche ritenute fino ad allora semplici deviazioni. Festa Campanile, proprio grazie al suo stile patinato e all’ispirazione letterario-scientifica, fa affrontare tali pratiche alla sua raffinata protagonista senza mai dimostrare alcun pregiudizio. Il classico lieto fine, sebbene nello stile di Festa Campanile, c’è: Mimmi si risposa, ma il suo nuovo marito (Jean-Luis Trintignant) non è un uomo ancorato alla morale borghese e dichiara che l’unica cosa veramente rivoluzionaria è amare qualcuno.




                                                  MLS

Il fenomeno 883

In questi giorni lo sport preferito degli italiani è discutere della serie tv degli 883.

Da un lato abbiamo quelli che ne stanno facendo addirittura una analisi sociologica e politica tirando in ballo fasi del capitalismo, dall’altro chi snobba il fenomeno 883 con sprezzo.

A nostro parere non c’è da andare molto lontani con le riflessioni e il fatto che la serie tv sia così vista non stupisce, bastava andare a vedere in questi anni un concerto di Pezzali per rendersi conto dell’enorme seguito, soprattutto della generazione nata tra gli anni settanta e ottanta.

Trattasi di semplicissima nostalgia, poco altro. I quarantenni di oggi percepiscono in quelle melodie tutta una serie di ricordi degli anni della loro gioventù, a prescindere dal fatto che ai tempi li ascoltassero o meno, perché comunque quei brani facevano da sottofondo agli anni novanta, scandivano le giornate sia del rockettaro che del discotecaro.

Gli 883 sono stati il riflesso di una generazione che ha vissuto in un determinato periodo, una fotografia di giovani disillusi, senza alcuna posizione ideologica, senza alcuna idea da difendere, che ricercavano solamente quella spensieratezza adolescenziale fatta di bar e discoteche.

Ai tempi non esistevano ancora talent-show dal successo preconfezionato o social network, pertanto la loro popolarità di massa fu quanto meno genuina.

Trattasi di canzonette orecchiabili, talvolta anche piacevoli e Pezzali è un personaggio con una sua sincerità autobiografica.

L’unico motivo per cui c’è questo interesse attorno agli 883 è semplicemente la nostalgia di una generazione.

Gli 883 non sono dunque né simpatici, né antipatici, sono il perfetto specchio di quel che erano i giovani medi degli anni novanta.

Giovani che si ritengono migliori di quelli di oggi ma che in realtà ne sono stati i naturali predecessori, con meno tecnologia, senza smartphone e social network.

I vari Lazza e compagnia cantante sono l’evoluzione degli 883 adattati ai tempi di oggi.




Reductio ad unum

Una tesi piuttosto consolidata e diffusa della teoria delle relazioni internazionali è che le ideologie non siano il movente di iniziative e attriti nazionali, bensì i meri rapporti di forza. L'ideologia, invece, sarebbe utilizzata secondariamente presso le masse e l'opinione pubblica come fattore mobilitante e aggregante e legittimante. In sostanza, solo la volontà di acquisire influenza o preservare l'egemonia nella propria sfera di interesse sarebbe alla base della prassi politica, mentre l'ideologia sarebbe un artefatto culturale utile ad imbonire le masse al fine del consenso. A ben guardare, tuttavia, questa tesi che sembra scalzare in un unico movimento tutta la complessità dell'elaborazione politico-ideologica storica, unificando l'intera umanità grazie a un movente che si vorrebbe pre-ideologico, non fa che riproporre il problema su un altro piano, denunciando la propria natura proiettiva ed etnocentrica. Ci si chiede infatti, la volontà di prevalere all'interno di una dinamica o di un equilibrio di rapporti di forza, non è a sua volta ideologia? Più specificamente, non è espressione di quella volontà di potenza che Nietzsche eresse a cifra dell'Occidente, e che sembra animare qualsiasi politica imperialistica e predatoria moderna? E a sua volta, la volontà di annullare la portata storica di qualsiasi ideologia per affermare la nuda volontà di potenza non è una forma di nichilismo attivo che conferma la vocazione nichilista dell'Occidente? In tal caso ci troveremmo di fronte non alla rivelazione che le ideologie sono prodotti culturali, ma che l'ideologia è tutto, e che quando si nega, lo fa a partire da istanze ideologiche, e che l'Occidente - come sempre - si rivela incapace di comprendere l'altro da sè, manifestando costantemente la sua tendenza alla reductio ad unum.




Città anestetizzate

Osservando alcune città e le loro prime cinture ci sono saltate all'occhio tre cose.

1) L' impressionante numero di farmacie.

2) L'aumento di negozi per la cura degli animali.

3) La scarsità di spazi per il gioco dei bambini. Sono tre elementi molto significativi.

Il primo ci mostra come ormai ci sia una totale medicalizzazione dell'esistenza, vi è un concetto di prevenzione ossessiva e un ricorso ai farmaci costante per ogni minimo problema. Il secondo ed il terzo punto sono poi la fotografia del calo demografico della nazione. Animali sempre più umanizzati, con passeggini, vestitini, detartrasi e farmaci per una imbarazzante antropomorfizzazione dell'animale domestico. Bambini invece assenti per le strade, con pochi spazi a disposizione, allontanati dal gioco libero di strada da una società sempre più asettica e controllata in cui si preferisce mandar loro in luoghi circoscritti a svolgere attività limitate piuttosto che fargli sperimentare la vita nei cortili.

Una società anodina, anestetizzata e priva di calore.




Alien, il monolite di Ridley Scott

C’è sempre un prima ed un dopo, per ogni cosa.

Uno snodo decisivo all’interno della cinematografia legata al genere fantascienza avviene verso la fine degli anni ’70.

Se prima Kubrick, con piglio dell’autore alto ed in modo filosofico, in “2001 Odissea nello spazio” e poi “Star Wars” sdoganano il genere, quest’ultimo facendolo diventare non solo un fenomeno di costume e di intrattenimento per tutte le età, è il film di Ridley Scott che, due anni dopo, lo trasporta su un altro livello.

Il 25 ottobre del 1979 esce “Alien”.

Il primo ed inimitabile.

La fantascienza da quel momento perde quella patina di B-movie che fino ad allora aveva sempre avuto per assume valenze diverse.

"Alien" in buona sostanza cosa è?

È un film che appartiene al genere fantascientifico certamente ma in cui l’elemento horror già presente nei culti passati come “L’invasione degli ultracorpi” di Siegel prima e “L’astronave atomica del Dr. Quatermass” di Val Guest dopo, assume connotati totalmente nuovi.

Scott ribalta l’ambientazione geometrica del cinema di fantascienza introducendo un’estetica gotica e rendendo l’atmosfera del film estremamente cupa e tenebrosa, attingendo anche e soprattutto al cult movie “Terrore nello spazio” del maestro e antesignano Mario Bava.

“Alien” è un’opera che amalgama alla perfezione due estetiche forti, quella di un futuro tecnologicamente lontano nel tempo e nello spazio (la fantascienza con tutto il suo carico di computer impeccabili e congegni tarati alla perfezione) e quello dell’ignoto, del buio, del non conosciuto, su quell’abisso dell’insondabile su cui si adagia chiunque si spinge troppo oltre.

In “Alien” c’è questo stacco, questa distanza estetica tra ciò che esiste tra l’ambiente asettico dell’astronave e tra l’impervia superficie del pianeta, tra il conosciuto ed il totale controllo della realtà dell’astronave con quello che è invece l’interno del relitto.

Angusto, buio, danneggiato. Una discesa negli inferi, un oltrepassare la soglia del conosciuto ed il confronto con qualcosa di antico e terribile.

Un film uterino, che si svolge interamente all’interno di un’astronave, di un luogo che può e dovrebbe creare la vita. E la vita si crea all’interno del relitto, il cui ingresso ricorda quello di una vagina.

E la vita che dovrebbe nascere come atto di amore, in “Alien” diventa un qualcosa di differente. La genesi della vita in questo lontano futuro avviene con violenza, con un oltraggio. In un modo improvviso, inatteso e crudele. Avvolgente, parassitario.

Una vita che nasce impiantandosi e squarciando.

L’apparizione dell’elemento creatura rompe quel delicato equilibrio che già dalla prima parte della pellicola sembra assai sottile.

Il modo bruto e violento con il quale la creatura aliena (il famoso facehugger) si lega senza alterare nulla con il malcapitato e sfortunato (nonché imprudente) Kane è incredibile.

È una novità (in parte vista ma in modo differente già nel film di Val Guest) che sorprende. Un parassita che adopera il corpo umano per riprodursi, per crescere e diventare ancora più letale, senza di esso non avverrebbe nessuna mutazione.

Si va così a configurare un vero e proprio ibrido innaturale, dove l’uomo funge da mezzo e non da fine ultimo.

Mezzo che condurrà ad una nuova fase, ad un nuovo segmento di vita, ancora più incredibile sia nello sviluppo e sia nella sua nascita. Un parto innaturale e illogico nella nostra concezione.

Possiamo dire dunque che “Alien” rappresenta il farsi identico dell’altro, è un archetipo che darà origini in secondo luogo alla sua pluralità. L’alieno è simile alla nostra struttura, alla struttura dell’ospite, ma ne è differente nella sua diversità.

L’estetica visionaria di Giger è elemento centrale per contribuire in modo impeccabile ed iconograficamente indelebile a queste visioni e a queste rappresentazioni.

A creare quel mondo biomeccanico su cui si poggia l’intero film.

Senso di angoscia e volontà di sopravvivenza davanti ad una specie ostile tra gli angusti, a volte immensi ed a volte claustrofobici ambienti della Nostromo. Tra gli interstizi della nave si annida l’ospite, l’intruso, l’alieno. Aggressivo ed ostile, guidato solo dall’istinto di sopravvivenza.

L’azione ferocemente ossessiva del mostro di riprodursi è la dimostrazione di come egli sia costantemente impegnato in una genesi orrorifica di una discendenza del male.

La paura regna sovrana nei corridoi della Nostromo, il subdolo mostro si aggira nei bui profondi, nelle inquietanti luci lampeggianti e tra i fumi delle tubature. Condotti, corridoi, aperture, gocciolamenti e tracce appiccicose sono tutti rimandi legati alla sfera sessuale. Una sorta di ipnosi regressiva che ci conduce in un labirinto in cui la componente materna di freudiana memoria trova la sua massima applicazione. In rimandi costanti e continui.

Il film si apre con il sonno degli occupanti della Nostromo, si avvicina al sonno/attesa delle uova pronte a schiudersi, si protrae nel sonno comatoso (“come un incubo”) di Kane e si conclude con il sonno puro e rassicurante di Ripley. Varie fasi in cui si passa da utero ad utero ad utero. L’utero finale è quello più grande e rassicurante, l’utero dell’universo in cui la Weaver si abbandona prima di approdare in nuovi incubi.

Ecco perché a 45 anni dalla sua uscita, “Alien” non smette mai di farci riflettere, di sorprenderci, di dare nuovi spunti di riflessione e di aprire discussioni infinite. Dopo di allora, tutti dovranno confrontarsi e fare i conti con questo monolite della cultura cinematografica.



                                                      OC

La metamorfosi occidentale delle "sinistre"

La metamorfosi occidentale dei partiti di massa di sinistra - dalla difesa degli interessi dei lavoratori a quelli delle élite economiche, dal socialismo al liberismo, dal pacifismo all'atlantismo bellicista - è stata resa possibile svuotando i contenuti delle sue grandi battaglie storiche, quelle per i diritti dei deboli, e spostandone il potenziale critico in direzione degli interessi di pseudo-minoranze che allo stato attuale non hanno nessuna autentica portata rivoluzionaria, ma che anzi sono funzionali al mantenimento degli attuali equilibri di potere e incoraggiano gli attuali processi di cambiamento in direzione di una società autoritaria e delle differenze. Le questioni dei diritti del migrante o dell'appartenente alla comunità lgbtq+wq$ - tanto per citare due cavalli di battaglia della pseudo-sinistra contemporanea - permettono di salvare la favola e l'apparenza della sinistra che lotta per i deboli e perseguire contemporaneamente il programma del neoliberismo più spinto, lasciando sullo sfondo le autentiche urgenze sociali, sfrattate dal loro antico domicilio politico storico, e ormai neppure più nominate. Senza comprendere questo meccanismo della sostituzione, non ci si può rendere ragione di come siano saltate alcune delle categorie fondamentali della tassonomia politica moderna, e la necessità di un ripensamento di quest'ultima che superi visioni obsolete e anacronistiche.



Rimbaud e "l'alchimia del verbo"

Il 20 ottobre del 1854 nasceva a Charleville, piccola città francese, uno dei più grandi poeti dell'epoca moderna.

Il primo poeta "rivoluzionario", lo studente modello a livello scolastico ma decisamente controcorrente nell'analisi della realtà, Rimbaud l'irrequieto che sogna la fuga dalla sua piccola città natia. Quella del poeta francese è proprio la ricerca, materiale ed artistica, di una "fuga". Di una "fuga" dal presente e dalla rigidità delle convenzioni artistiche.

Un poeta che guarda al futuro, un creatore di opere che anticipino il mondo a venire.

Un artista che deve essere e deve farsi "veggente" ed attraverso la poesia arrivare alla conoscenza.

Il percorso di Rimbaud è votato alla volontà di superamento dell'umano immergendosi nella natura, nella vita e nelle contingenze storiche.

Tutto ciò che lo circonda appare come un turbinio di immagini senza senso e occorre un modo per ordinarle e comprenderle. Un processo per decodificare l'ordine profondo che regola la vita e la morte, i successi e le sconfitte, l'estate e l'inverno, tutto ciò che è accaduto e che accadrà.

È la parola al centro del suo cammino, la parola usata come mai prima di allora, la costruzione di un mondo fatto non di contorni squadrati ma da visioni che si perdono nella forma di colori cangianti, "ebbri", di paesaggi stupefacenti e di discese stravolgenti.

Si assiste dunque alla elaborazione di un nuovo modo di comunicazione. La cosiddetta "alchimia del verbo".

Come i miti, come le parabole, e le fiabe che hanno il compito di far arrivare l'ascoltatore al mondo dei principi attraverso la parola e il coinvolgimento emotivo.

Spetterà poi alla razionalità il chiarimento delle presunte contraddizioni e la disposizione degli avvenimenti nella giusta luce. Ma in ogni caso si tratta di "illuminazioni" che non tutti riescono a cogliere. Una potenza immaginativa non per tutti. Bisogna "elevarsi".

L'uomo "dalle suole di vento" in realtà l'aveva previsto forse dal giorno stesso in cui si era messo in cammino e aveva deciso di provare a vivere mille vite spese tutte nel tentativo di dare all'esistenza un senso inaudito.

In questa "illuminazione" pare che Rimbaud sia proprio riuscito ad intuire l'essenza della limitatezza del meccanismo sensoriale umano. Dove ogni ingranaggio emotivo si trova a ripetere sempre le stesse azioni.

Holderlin, diceva che i veri poeti si rivelano per la maggior parte all’inizio e alla fine di un’era.

Ed infatti Rimbaud è il primo poeta di una civiltà non ancora apparsa, civiltà i cui orizzonti e i cui limiti appaiono ancora incerti perché collocati in un mondo "altro".

Lo strumento poetico di Rimbaud è un atto di ribellione a quell’Occidente vuoto, contento di sé, secolarizzato e senza forza che ha perso perfino l’istinto di conservazione e il desiderio della bellezza.

E questo suo desiderio ribelle fugge libero indifferentemente sia dal passato che dal futuro.

Non si stabilisce, non si situa in un tempo storico.

È solo un vortice basato sulla modalità della nostalgia o del desiderio, che ci trascina e ci sottomette.

Alla ricerca di una liberazione a cui lui arrivò quando capì che tutto era compiuto e abbandonò la vita poetica.

Una missione espletata in pochi anni.

La porta della prigione era aperta, ora bisognava solo correre nel sole d'Africa, nelle sue distese infinite.

L'opera di rottura e negazione era stata compiuta.

La fine avvenne presto, attorno ai 20 anni il momento del distacco.

Lasciò agli altri la chiave per la libertà.

La fusione completa tra il sogno ed il desiderio.



                                                    OC