Figli, pane e compromessi

Il non fare figli o il farli sempre più tardi non è solo una questione culturale, di immaturità, di menefreghismo. È anche una questione sociale e economica molto concreta.

Nei paesi cosiddetti molto sviluppati fare figli sembra diventato un privilegio.

Fa figli tendenzialmente chi può permetterselo e garantire alla prole il meglio.

Il limite è poi indicare come soluzioni aiuti dallo stato per colmare la disuguaglianza che si è creata. È cercare una soluzione dentro la stessa cornice che ha reso la famiglia un privilegio.

Anche chi vorrebbe tutelare la vita e la famiglia come valori spesso presenta modelli di famiglia "borghesi" dove brave persone con buoni titoli di studio, buona posizione sociale, fanno più figli a cui possono garantire scuole paritarie, corsi extra, le migliori università così che possano ripetere il percorso dei genitori.

Il buon padre porta i soldi a casa. Si accetta la società e il mondo del lavoro così come sono, disumani e competitivi perché "la famiglia va mantenuta", quindi non si deve dare fastidio a nessuno per non rovinare la carriera.

Le persone perbene studiano e accumulano titoli, non mettono in discussione gli indottrinamenti, che non sono solo il gender, ma per esempio anche l'economia e lo scientismo.

Si studia e si fa il lavoro che conviene, non si seguono vocazioni strane, come la mantieni una famiglia poi?

Ci sono molti giovani che osservano questo e lo trovano tremendamente falso. Sentono di essere cresciuti a pane e compromessi. Di essere stati schiavi del dogma "studia, trovati un lavoro, muori di quel lavoro".

E non sono giovani menefreghisti, che non vogliono fare famiglia o non si vogliono impegnare. Non vogliono essere schiavi del "produci, consuma, crepa". Dove anche gli esseri umani sono merce e i figli una prestazione da mettere in mostra.

È ora di mettere in discussione le fondamenta di questa società. Di parlare di tornare ad una società in cui è la fisiologia a dettare il passo e non il profitto.

In cui tornare ad una prossimità umana e ad una dimensione di comunione.




Le inchieste sulla “gioventù meloniana”

In questi giorni stanno circolando "inchieste", da parte di una nota testata, sul "fascismo" negli ambienti del partito della Meloni. 

Ora, se si vuole analizzare lo stantio nostalgismo del fascismo storico di taluni ambienti, lo si faccia pure, questo però non deve in alcun modo dare credibilità a testate del genere.

Sostanzialmente i fatti sono questi, da sempre si trovano all'interno delle "destre" parlamentari soggetti nostalgici. I partiti di centro-destra sanno bene di avere nel loro bacino di elettori persone di una certa area e a loro conviene così, trattasi di numeri utili per occupare poltrone e portare avanti l’agenda mondialista. Una volta al potere sappiamo quali sono le reali linee del partito sulle tematiche che contano davvero e lì non vi è differenza tra “destre” e sinistre” (in questo periodo appoggi incondizionati a Ucraina e Israele, oltre al solito vassallaggio USA).

Nonostante sia limpidissima la propaganda che questo tipo di giornalismo porta avanti da mattina a sera, la realtà è che ci sono ancora tante persone convinte che testate del genere facciano realmente informazione, basta leggere i commenti raccapriccianti sotto gli ultimi video, del tipo"meno male che ci siete voi che fate inchieste altrimenti ci sarebbe il fascismoooo".

Sappiamo bene come “lavorano” costoro, sui grandi temi internazionali essi portano avanti la narrazione imposta, nel frattempo però contornano il tutto con notizie di gossip di bassissima leva per soddisfare l'italiano medio e talvolta “denunciano” i piccoli “fascismi” dei nostalgici assorbiti furbescamente dalle finte destre parlamentari.

D'altronde stiamo parlando di personaggi che si fotografavano fuori dal ristorante col lasciapassare sghignazzando ("io c'ho il green pass ma mi siedo fuori per rubare il posto a chi non lo ha gnegnegne"), di testate che stanno ospitando, per discutere delle loro "inchieste", soggetti del calibro di Roberto Saviano o Formigli.

Saviano? Quando vi capita di ascoltare un monologo di costui fermatevi e cercate il video che il povero Vittorio Arrigoni gli aveva dedicato, basterà quello per farvi inquadrare meglio il signore in questione.

Che dire poi di Formigli, noto conduttore di alcuni teatrini televisivi fintopluralisti di la7 e non aggiungiamo altro.

Insomma basta pagliacciate, basta pseudoinchieste su cose risapute che non sorprendono nessuno ma che sono utili per dar da mangiare a questi finti tutori della democrazia che danno ancora l'illusione a molti sprovveduti che esista libertà di stampa e che si possa attraverso le grandi testate andare contro il potere costituito. Nulla di più falso.



Scuola e retorica progressista - G.Papini

Ma cosa hanno mai fatto i ragazzi, gli adolescenti, i giovanotti che dai sei fino ai dieci, ai quindici, ai venti, ai ventiquattro anni chiudete tante ore del giorno nelle vostre bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello? Con quali traditori pretesti vi permettete di scemare il loro piacere e la loro libertà nell'età più bella della vita e di compromettere per sempre la freschezza e la sanità della loro intelligenza? Non venite fuori con la grossa artiglieria della retorica progressista: le ragioni della civiltà, l'educazione dello spirito, l'avanzamento del sapere… Noi sappiamo con assoluta certezza che la civiltà non è venuta fuor dalle scuole e che le scuole intristiscono gli animi invece di sollevarli e che le scoperte decisive della scienza non son nate dall'insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola o non v'insegnavano. Sappiamo ugualmente e con la stessa certezza che la scuola, essendo per sua necessità formale e tradizionalista, ha contribuito spessissimo a pietrificare il sapere e a ritardare con testardi ostruzionismi le più urgenti rivoluzioni e riforme intellettuali. Essa non è, per sua natura, una creazione, un'opera spirituale ma un semplice organismo e strumento pratico. Non inventa le conoscenze ma si vanta di trasmetterle. E non adempie bene neppure a quest'ultimo ufficio - perché le trasmette male o trasmettendole impedisce il più delle volte, disseccando e storcendo i cervelli ricevitori, il formarsi di altre conoscenze nuove e migliori. Le scuole, dunque, non son altro che reclusori per minorenni istruiti per soddisfare a bisogni pratici e prettamente borghesi. Per i maestri c'è soprattutto la ragione di guadagnarsi pane, carne e vestiti con una professione ritenuta "nobile" e che offre, in più, tre mesi di vacanza l'anno e qualche piccola beneficiata di vanità. Aggiungete poi a questo la sadica voluttà di potere annoiare, intimorire e tormentare impunemente, in capo alla vita, qualche migliaio di bambini o di giovani. Nessuno - fuorché a discorsi - pensa al miglioramento della nazione, allo sviluppo del pensiero e tanto meno a quello cui si dovrebbe pensar di più: al bene dei figliuoli. L'uomo, nelle tre mezze dozzine d'anni decisive nella sua vita (dai sei ai dodici, dai dodici ai diciotto, dai diciotto ai ventiquattro), ha bisogno, per vivere, di libertà. Libertà per rafforzare il corpo e conservarsi la salute, libertà all'aria aperta: nelle scuole si rovina gli occhi, i polmoni, i nervi (quanti miopi, anemici e nevrastenici possono maledire giustamente le scuole e chi l'ha inventate!) Libertà per svolgere la sua personalità nella vita aperta dalle diecimila possibilità, invece che in quella artificiale e ristretta delle classi e dei collegi. Libertà per imparare veramente qualcosa perché non s'impara nulla di importante dalle lezioni ma soltanto dai grandi libri e dal contatto personale con la realtà. Nella quale ognuno s'inserisce a modo suo e sceglie quel che gli è più adatto invece di sottostare a quella manipolazione disseccatrice e uniforme ch'è l'insegnamento. Nelle scuole, invece, abbiamo la reclusione quotidiana in stanze polverose piene di fiati - l'immobilità fisica più antinaturale - l'immobilità dello spirito obbligato a ripetere invece che a cercare - lo sforzo disastroso per imparare con metodi imbecilli moltissime cose inutili - e l'annegamento sistematico di ogni personalità, originalità e iniziativa nel mar nero degli uniformi programmi. Fino a sei anni l'uomo è prigioniero di genitori, bambinaie e istitutrici; dai sei ai ventiquattro è sottoposto a genitori e professori; dai ventiquattro è schiavo dell'ufficio, del caposezione, del pubblico e della moglie; tra i quaranta e i cinquanta vien meccanizzato e ossificato dalle abitudini (terribili più d'ogni padrone) e servo, schiavo, prigioniero, forzato e burattino rimane fino alla morte.

Lasciateci almeno la fanciullezza e la gioventù per godere un po' d'igienica anarchia! L'unica scusa (non mai bastante) di tale lunghissimo incarceramento scolastico sarebbe la sua riconosciuta utilità per i futuri uomini. Ma su questo punto c'è abbastanza concordia fra gli spiriti più illuminati. La scuola fa molto più male che bene ai cervelli in formazione. Insegna moltissime cose inutili, che poi bisogna disimparare per impararne molte altre da sé. Insegna moltissime cose false o discutibili e ci vuol poi una bella fatica a liberarsene - e non tutti ci arrivano. Abitua gli uomini a ritenere che tutta la sapienza del mondo consista nei libri stampati. Non insegna quasi mai ciò che un uomo dovrà fare effettivamente nella vita, per la quale occorre poi un faticoso e lungo noviziato autodidattico. Insegna (pretende d'insegnare) quel che nessuno potrà mai insegnare: la pittura nelle accademie; il gusto nelle scuole di lettere; il pensiero nelle facoltà di filosofia; la pedagogia nei corsi normali; la musica nei conservatori. Insegna male perché insegna a tutti le stesse cose nello stesso modo e nella stessa quantità non tenendo conto delle infinite diversità d'ingegno, di razza, di provenienza sociale, di età, di bisogni ecc. Non si può insegnare a più d'uno. Non s'impara qualcosa dagli altri che nelle conversazioni a due, dove colui che insegna si adatta alla natura dell'altro, rispiega, esemplifica, domanda, discute e non detta il suo verbo dall'alto. Quasi tutti gli uomini che hanno fatto qualcosa di nuovo nel mondo o non sono mai andati a scuola o ne sono scappati presto o sono stati "cattivi" scolari. (I mediocri che arrivano nella vita a fare onorata e regolare carriera e magari a raggiungere una certa fama sono stati spesso i "primi" della classe). La scuola non insegna precisamente quello di cui si ha più bisogno: appena passati gli esami e ottenuti i diplomi bisogna rivomitare tutto quel che s'è ingozzato in quei forzati banchetti e ricominciare da capo.


Tratto da: "Chiudiamo le scuole!", G.Papini (Luni editrice) 


Il business riesumato

Dopo aver promosso la pace in decenni di disarmo con la fine della guerra fredda (in realtà la guerra non si è mai fermata ma solo smolecolata, dilazionata nel tempo e distribuita nel globo a seconda degli interessi) si rimette in moto la propaganda che approfitta del clima bellico degli ultimi anni sotto una luce che fa apparire Orwell un produttore di manuali più che uno scrittore di romanzi distopici. "La guerra è pace", dobbiamo difenderci, attaccando. E siccome il cattivone di turno stavolta è grosso, troppo grosso, allora si punta al riarmo con la tipica paranoia anglo americana nel momento in cui non ottiene ciò che vuole o perde egemonia. Essi a ruota contagiano tutti i paesi della Ue.

Occorre una economia di guerra e investimenti da prelevare dalle risorse sia pubbliche che private, soprattutto private come suggeriva qualche mese fa il marione nazionale mandato per indicare quali strategie economiche adottare. 

Occorre soprattutto la carne da cannone reintroducendo la leva militare ma con toni più leggeri, quasi arcobaleno, perché la parola guerra non fa più paura e tutti siamo rassicurati dalle informazioni dei media che il patriottismo europeo è cosa buona e giusta ed è ora di scendere in campo e prepararsi che tra 5 o 6 anni l'uomo nero arriverà e se non lo farà lo andremo a prendere noi. 

Le masse ignare ingurgitano tutto, le nuove generazioni vivono su tik tok, si disinteressano delle cose del mondo e saranno facili da "arruolare" ideologicamente a qualsiasi causa scellerata proposta dalla propaganda dei media e della scuola.




Gli incubi di Franz Kafka

Kafka è stato autore di fiabe oniriche e stranianti.

Kafka, uomo piccolo e fragile, privo di autostima e intrappolato nei meandri di una colpevolezza senza un perché. I suoi “non eroi” immersi costantemente in situazioni angosciose e indefinibili, grottesche, oniriche, apparentemente senza speranza.

Kafka, autore di quell’altrove che racconta la realtà per quello che è: un incubo.

Gli scritti di Kafka, i suoi racconti, i suoi romanzi, sono pagine in cui sono presenti ossessioni, fobie, sensi di colpa, inguaribili nevrosi.  Il suo conflitto interno, come quello che visse con la figura paterna o con l’altro sesso, la debolezza di salute, non bastano a spiegare appieno la genesi oscura e radicale del suo progressivo alienarsi dal mondo e dalla vita e a condensarne il negativo concetto in fantasie allucinanti.

Il nichilismo kafkiano non è un rifiuto dell’esistente per affermare una “più che vita” ma solo la visione di ciò che si ha attorno.

È quel tunnel buio in cui sostano sia gli incubi di Lovecraft e la disillusione totale di Cioran ma a differenza di questi due scrittori, il nucleo fondante, presente in tutto l’universo kafkiano è la colpa.

E la conseguenza della colpa è la condanna.

Nei suoi elaborati i personaggi conducono una vita apparentemente tranquilla e sono tranquilli con la propria coscienza, fino a quando non scoprono di portare sulle spalle una colpa, a loro sconosciuta fino a poco prima.

La colpa dei personaggi ha ritorsioni sulla vita personale degli stessi, è motivo di giudizi, ingiurie, provocazioni e pettegolezzi.

Ciò che pensano gli altri impedisce al protagonista, detentore della colpa, la realizzazione di una vita serena ed equilibrata. Spesso i personaggi di Kafka vogliono evadere, alla ricerca di un’esistenza migliore, priva di giudizi di terze persone.

Forse proprio come lui che voleva scappare da una condizione familiare severa e rigida.

Ma questa fuga è impossibile perché la condizione persistente del mondo dell’uomo kafkiano è l’angoscia. Una zavorra pesante da cui è impossibile liberarsi.

Un uomo solo, in una condizione quotidiana aliena, atroce e malvagia ed in cui l’autorità è lontana, invisibile, inaccessibile, potente e vendicativa.

Ecco quindi, tra le sue righe, emergere l’urgenza narrativa di raccontare un uomo irrisolto nonché un modo per sondare abissi dell’animo che altrimenti gli sarebbero rimasti oscuri.

Un uomo che si muove tra due elementi, due pilastri sviliti della società moderna. O per meglio dire due tenaglie oppressive che si intrecciano fino a stringere il protagonista in gangli da cui è impossibile fuggire, se non con la morte. Il primo è la famiglia, non sinonimo di pace e affetti, ma luogo del confronto frustrato, dell’inadeguatezza, della colpa. L’altro è il dedalo burocratico in cui l’uomo moderno si trova disperso: una “tirannia senza tiranno”, un sistema che ha il solo scopo di perpetuare sé stesso, di cui gli uomini, anche quelli che si trovano ai livelli più alti, sono degli ingranaggi.

Un autore difficile e non di facile lettura e nonostante la sua portata sia immensa e la critica letteraria lo abbia da tempo inserito tra i maggiori autori della letteratura mondiale di sempre, il suo messaggio (o grido disperato) ha una valenza che ancora non è stata appieno recepita.


                                                                                   OC

La maschera dell'intelligenza artificiale

L’AI ci aiuterà a svolgere compiti ripetitivi, aiutandoci a liberare energie creative per altre occupazioni. Tale affermazione, piuttosto diffusa tra gli 'AI-fans', è banalmente falsa: ad aiutare le persone nei loro calcoli, c'è già il computer. E soltanto il computer può avere questa funzione. L'AI, è invece semplicemente - e molto più banalmente -, il pensiero delle élites dominanti. È l'AI a darci le risposte 'giuste' alle nostre domande, è l'AI a dire ad un medico 'cosa deve fare', 'come si evolverà una malattia', 'quali terapie somministrare'. È sempre l'AI, dietro la maschera della maggiore efficienza, a 'suggerire' ad un insegnante come impostare una lezione, di cosa parlare, quali temi affrontare, e soprattutto, come parlarne. L'AI quindi non aiuta nessuno, ma - e questo è certo l'unico compito -, si sostituisce al pensiero umano, affinché esso si strutturi nell'unica modalità possibile: quella della mafia tecnologica, meramente interessata alla mercificazione di ogni forma vivente. L'elogio dell'AI, passa quindi per la mistificazione, del suo funzionamento: l'AI non fa calcoli, ma 'pensa', quello che 'deve' essere pensato. È indubbio, che il suo successo - nella guerra contro l'uomo iniziata da banchieri affaristi e magnati vari in vena di filantropia -, non può prescindere dallo scadimento della stessa capacità di pensiero. A questo servono, media social e video, 24 ore su 24 proiettati sui nostri telefonini; non più lo schermo televisivo che si accendeva la sera, ma la televisione 'permanente' che non si spegne più. A questo servono gli schermi giganti installati nelle nostre città, con giornalisti in primo piano a diffondere false informazioni, perché nessuno si sottragga al pensiero che tutti devono pensare. L'uomo comandato dall'AI, sarà un uomo felice: come un bambino, gli sarà chiesto soltanto, di eseguire, e ripetere. Senza doversi più preoccupare di nulla. La vita - l'intera vita -, nelle mani delle élites mondiali.



Dominique venner, samurai d'Occidente

 

“Ci sarà bisogno certamente di gesti nuovi, spettacolari e simbolici per risvegliare dalle sonnolenze, scuotere le coscienze anestetizzate e risvegliare la memoria delle nostre origini. Entriamo in un’epoca nella quale le parole devono essere rese autentiche dagli atti”

Il 21 maggio del 2013 per chi segue le vicende metapolitiche della nostra vecchia cara Europa non è una data qualunque.

Il 21 maggio del 2013, a Parigi, sacrifica la propria vita a 78 anni, lo scrittore francese Dominique Venner. 

Da alcuni definito “il samurai dell’Occidente” in onore di un suo celebre libro. 

Scelse un luogo altamente simbolico per questo suo gesto estremo, l’interno della Cattedrale di Notre Dame. 

Nel primo pomeriggio, entrò nella cattedrale simbolo di quella civiltà cristiana occidentale che lui riteneva minacciata, si mise la pistola in bocca e si sparò.

Un gesto estremo, un urlo lacerante lanciato all’Europa intera ed ai suoi cittadini, nello stesso modo di Mishima, di Ian Palach o Alain Escoffier, con le stesse modalità e con lo stesso tragico epilogo.

La decisione di togliersi la vita come gesto di protesta e di fondazione ebbe una gestazione lunga e meticolosa. 

Sbaglia chi colloca Dominique Venner in modo semplicistico all’interno di un alveo politico. 

Avendo imboccato il nuovo secolo, la battaglia non è più ideologica ma metapolitica. 

Il giovane politico degli anni giovanili lasciò lo spazio allo scrittore, allo storico meditativo come amava definirsi. 

Credeva nell’etica, nelle radici europee, nel bello, nella compostezza e nella riscoperta delle nostre tradizioni ataviche. 

Il ritorno, per averli perennemente come punti di riferimento, ai pilastri della formazione europea: i miti iperborei, l’Iliade, l’Odissea o il sacro mito delle origini di Roma. 

Venner era uomo equilibrato ma deciso, pacato ma intransigente su cosa doveva fare l’Europa per non morire definitivamente. 

Era un “alieno” lo scrittore francese, alieno perché cercava nel mondo classico l’antidoto per sopravvivere alla decadenza moderna ma anche uno slancio per superare la crisi e gettare le basi per una nuova civiltà. 

Alieno perché in una cultura omologata e lanciata verso il futuro, nella società dei consumi, della globalizzazione e del meticciato culturale e sessuale, parlare di nobiltà di Spirito e di altezza dell’Anima è una pratica avulsa

Sbaglia chi lo definisce un “disperato” perché dovrebbe di conseguenza dare lo stesso appellativo a Mishima che come lui si “sacrificò” per scuotere coscienze ed aprire cuori. 

Come lo scrittore giapponese ritenne che un popolo che dimentica il proprio passato è destinato a morire, e di conseguenza anche lui cercò di contrapporre una negatività (la rinuncia alla vita materiale e terrena) al nichilismo moderno. 

Una contrapposizione netta, un gesto equiparabile ad una fiamma che si leva nell’oscurità, ad una pira potente che si innalza nella notte dell’Europa, per indicare un cammino necessario per non perire e per gettare le basi di un nuovo inizio e per rivitalizzare quella Tradizione che per Venner era “la sorgente delle energie fondatrici”. 

Ribadendo che “la Tradizione non è il passato, ma al contrario ciò che non passa e che sempre ritorna in forme diverse”


                                                                            OC

Saggezza e solitudine

Vivere da soli richiede una grande intelligenza; e riuscire anche a restare comunque duttili, elastici e adattabili è un'impresa ancora più ardua. Vivere da soli, senza le mura delle gratificazioni che ci proteggono, richiede un'estrema attenzione vigile; poiché una vita solitaria incoraggia la pigrizia, le abitudini che ci confortano e che diventano perciò quasi impossibili da abbandonare. Una vita solitaria è un incentivo all'isolamento, e solo i saggi riescono a vivere da soli senza fare del male a se stessi e agli altri. La saggezza è solitudine, ma un percorso solitario non conduce alla saggezza. L'isolamento è morte, e la saggezza non la si ritrova nel ritrarsi dalla vita: non c'è alcun sentiero che conduce alla saggezza, poiché ogni sentiero è separativo, esclusivo. Per loro stessa natura, i sentieri possono solo condurre all'isolamento, anche se questi isolamenti vengono chiamati unità, intero, uno. Un sentiero è un processo esclusivo; il mezzo è esclusivo, e il fine è come il mezzo, poiché il mezzo non è separato dalla meta, da ciò che dovrebbe essere. La saggezza arriva con la comprensione della nostra relazione con il prato, con il passante, con il pensiero fluttuante. Ritirarsi, isolarsi per ricercare, significa mettere la parola fine alla scoperta. La relazione conduce a una sorta di solitudine che non attiene all'isolamento, e dobbiamo cercare di arrivare a questa solitudine, che non è della mente che si rinchiude, ma appartiene alla libertà. Il completo è il solitario, mentre l'incompletezza cerca la via dell'isolamento.

Tratto da "Liberarsi dai condizionamenti" di J.Krishnamurti 

"Una primavera troppo lunga" di Y.Mishima

Brillante romanzo d’amore giovanile finora inedito in italiano e quasi sconosciuto all'estero, "Una primavera troppo lunga" uscì per la prima volta in Giappone nel 1956.

Divenne immediatamente un bestseller e fu adattato al cinema l’anno successivo.

Mishima aveva cominciato a pubblicarlo a puntate su una rivista popolare a gennaio del 1956, proprio mentre su una rivista letteraria iniziava la serializzazione de "Il padiglione d’oro", uno dei suoi lavori più rappresentativi.

Serio e impegnato il secondo, è invece lieve e ironico il primo, che appartiene a un filone di opere in cui, secondo il noto critico e amico di Mishima Donald Keene, il grande scrittore riversò aspetti del suo carattere che trovavano poco spazio nella sua produzione seria, come l’umorismo e il gusto per la caricatura.

Anche in quest’opera più leggera, l’arte del grande scrittore è riconoscibile nella splendida costruzione dell’intreccio, nella profondità dei personaggi resa con pochi tocchi sapienti, nei temi a lui cari che non rinuncia a trattare, nella sua visione dell’uomo e del mondo raccontata, in questo caso, con spirito e disincanto.

"Una primavera troppo lunga", Per gli amanti del Mishima più "leggero".

                                                                                OC

Chi sono i “rivoluzionari”?

Le rivoluzioni - tanto sociali, politiche, che militari - ossia i cambiamenti radicali di status quo, tendenza o equilibrio tra parti, non sono mai fenomeni spontanei, nè si esauriscono nel visibile. Sono piuttosto l'epifenomeno del lungo lavorio di processi carsici che affiorano e si compiono nella svolta rivoluzionaria; il cambiamento non è l'esito di tale svolta, bensì la sua causa. Nulla cambia che dietro le grandi rivoluzioni vi sia la regia di élite in ombra che organizzano le masse simulando la spontaneità del fenomeno rivoluzionario: senza un'adeguata base di consenso diffuso e distribuito nessun cambiamento può essere realizzato e stabilizzato. La base di ogni reale cambiamento politico e sociale è null'altro che un cambio di paradigma culturale condiviso. Questo è il motivo per cui le armi più potenti che esistano nell'epoca della società di massa sono quelle intese a generare il consenso, ossia l'educazione, l'informazione e la propaganda. Il sistema contiene il momento rivoluzionario al suo interno come atto di fondazione e affermazione di un ordine che, in realtà, è già predisposto prima di tale atto e di tale affermazione. In altre parole, prima che si manifesti concretamente, il cambiamento è già avvenuto; prima del varo, la nave è già stata costruita. La rivoluzione politica e sociale sancisce la rivoluzione culturale, ossia il cambio di paradigma; mai il contrario. La prima non ha alcun potere sulla seconda: senza un cambio di paradigma qualsiasi preteso evento rivoluzionario non fa che perpetuare il medesimo. Chi pretende di cambiare il sistema mediante una rivoluzione sociale, politica o militare non comprende che questi momenti sono strutturalmente pre-posti e pre-determinati dal sistema stesso. In cerca di risposte, dopo esserci chiesti quale sia l'azione efficace, ora vale la pena chiedersi anche chi sia il soggetto plausibile di tale agire.




Siete fuori dal "sistema"?

Uno dei grandi tranelli del cosiddetto "sistema" è far credere, a colui che considera se stesso un "ribelle" o un "antagonista", che il sistema sia un corpo estraneo, qualcosa che si può accogliere o rifiutare, un nemico esterno a cui è possibile dichiarar guerra, che si può vincere o a cui si può soccombere. Un sistema è, per definizione, un insieme organico di parti, raccolte intorno a un principio organizzatore che le trascende, e che sono ad esso interconnesse costitutivamente e in maniera strutturale. Tutto ciò che è interno al sistema è parte del sistema e ad esso organico, compreso il rifiuto e l'antagonismo al sistema stesso. Se state leggendo queste righe e vi considerate fuori dal sistema, sappiate che il sistema ha prodotto il vostro rifiuto, lo ha previsto e calcolato, lo ha incoraggiato in una certa misura perché funzionale, lo tollera finché può digerirlo, e se in qualche modo esso diventa tossico, lo gestisce nel modo in cui l'organismo gestisce le proprie cellule malate o difettive. In generale è corretto affermare che il sistema produce il rifiuto e l'opposizione al sistema come strumenti della sua perpetuazione, e quando essi non sono più utili all'equilibrio dell'organismo, li annienta semplicemente sospendendo i lori legami strutturali con il sistema stesso, perchè essi non sono nulla e non hanno alcun significato se non come parti organiche al sistema. Il sistema è un circuito ermeneutico completo, che raccoglie e ricomprende ogni proprio momento, compreso quello negativo. Questo è il motivo per cui ogni velleità romantica di lotta e opposizione frontale al sistema è pia illusione. Ignora la propria funzione di momento organico al sistema medesimo, e il suo destino segnato dalla natura delle cose. È tempo di lasciare all'adolescenza i sogni romantici, e abbracciare il distacco e il realismo dell'età matura. A partire da questi presupposti è possibile immaginare forme e strategie di azione efficace.




Il denaro come fine – M.Fini

 «Mai un oggetto il quale debba il suo valore esclusivamente alla propria qualità di mezzo, alla sua convertibilità in valori più definitivi, ha raggiunto così radicalmente e senza riserve una simile assolutezza psicologica di valore diventando un fine» (G. Simmel, Filosofie del denaro).


La capacità del denaro di crescere come un tumore sul corpo che gli ha dato vita sino a invaderlo completamente, soffocarlo e distruggerlo, deriva dalla sua natura squisitamente tautologica, dalla sua attitudine ad autoalimentarsi, diventando così un fine, un fine ultimo, un fine che non ha altri fini al di fuori di se stesso. E poiché il denaro è un sacco vuoto, un puro Nulla, il suo fine non ha mai fine, si pone in un futuro irraggiungibile, trascinando con sé, in questa corsa verso il niente, l'uomo.

La tautologia è particolarmente evidente nel meccanismo finanziario, nel denaro che compra denaro. «Il denaro finanziario» scrive Bazelon, «non è denaro da spendere. Con esso non si compra mai nulla; serve a guadagnare altro denaro. E quando poi si è in pieno movimento, non si compra nulla nemmeno col denaro guadagnato sul denaro adoperato per guadagnarlo, e così via».

Ma anche l'intero circuito creditizio sta assumendo questo andamento tautologico. Crediti enormi divenuti inesigibili vengono pagati sempre più spesso aprendo altre linee di credito al debitore. Cioè il creditore paga il debitore perché lo paghi. Soddisfa la promessa di pagamento di cui è detentore con un'altra. Questo sistema iniziò, forse, almeno ad alto livello, dopo la prima guerra mondiale: gli Stati Uniti per consentire agli europei di pagare gli interessi dei rilevanti debiti che avevano contratto con loro gli facevano dei prestiti, cioè aprivano altri crediti. Ma a quel tempo un tale circolo vizioso era ancora l'eccezione. Oggi è la regola. I circuiti deficitari internazionali, come li chiamano gli economisti, sono innumerevoli.

(…)

Se dal punto di vista individuale è un credito, verso il sistema, considerato globalmente il denaro, metafora della modernità, è un colossale debito che abbiamo accumulato col futuro. È grazie a questo debito che abbiamo potuto anticipare, intensificare e allargare al massimo produzione e consumi dilapidando in tempi rapidissimi risorse naturali immense. Abbiamo vampirizzato e ipotecato il futuro come se fosse qualcosa di reale, di concreto, un bene immobile di nostra proprietà.

La rapina nei confronti del futuro ha via via assunto ritmi sempre più precipitosi perché la velocità è insita nel meccanismo del denaro e perché, essendo un'illusione, per continuare a esistere, il denaro ha bisogno, come nella catena di Sant'Antonio, di conquistare sempre nuovi entusiasti, di rafforzare la fede dei credenti e di convertire, con le buone o le cattive, i miscredenti.

La velocità di circolazione e la moltiplicazione del denaro, diventate parossistiche, sono state favorite dalla sua progressiva smaterializzazione e dalla fine dell'aggancio all'oro. È vero che anche l'oro, in quanto denaro, era una convenzione basata sulla fiducia, non diversamente dagli impulsi elettronici rimandati dal computer che oggi tengono luogo di moneta. Ma, a differenza di questi, la sua produzione fisica era limitata. Sganciandosi dall'oro «il sistema ha disattivato il proprio dispositivo di sicurezza». È come una mongolfiera che, liberata dell'intera zavorra, sale a velocità vertiginosa verso l'alto, ormai fuori da ogni controllo. Ma in questa stratosferica ascesa del denaro c'è anche il presupposto della sua fine.

Tratto da: “Il denaro sterco del demonio” di M.Fini (ed Marsilio)



Tendenza anarchica dell'individualismo moderno

Il riferimento in un nostro recente articolo a una presunta tendenza anarchica nel modello individualistico moderno ha suscitato qualche perplessità e merita perciò di essere chiarito. In senso generale e prima di qualsiasi elaborazione politica che tenti di renderla realizzabile nel concreto, possiamo definire anarchica qualsiasi tendenza al rifiuto e alla soppressione della presenza di un'autorità costituita e di un modello politico e sociale strutturato in modo centralizzato e verticale. In sostanza, è tendenzialmente anarchica qualsiasi istanza libertaria radicale, dove il concetto di libertà è identificato con l'assenza di vincoli esteriori, obblighi, doveri, gerarchie, sovrani e padroni. Da questo punto di vista, il rifiuto delle strutture sociali e politiche tradizionali da parte della modernità, che sfocia nelle varie declinazioni della dottrina liberale, tradisce chiaramente una tendenza anarchica, seppure poi questa sia stata mediata storicamente in varie formulazioni di una teoria politica e sociale volta a salvaguardare non un'idea radicale di libertà negativa - totale assenza di autorità e centralizzazione di potere - bensì la maggior quantità possibile di assenza di vincoli compatibile con il vivere associato. Qui la modernità vive il suo più grande paradosso, ossia il fatto che la società liberale si sia nel tempo dimostrata costitutivamente e strutturalmente illiberale. Per cercare di renderne conto, sarebbe necessario meditare gli aspetti paradossali dell'idea di libertà astratta alla radice del pensiero liberale, ma non è questo il punto della riflessione odierna. Ciò che qui preme sottolineare è che alla radice della modernità si riscontra un originario rifiuto del modello tradizionale di gestione e distribuzione del potere politico, legato all'istanza di affermazione e protezione dell'individuo, le cui prerogative sono considerate prioritarie rispetto ai vincoli comunitari, sociali e gerarchici premoderni. Da questo punto di vista individualismo è anarchismo, seppure nella società liberale tale anelito abortisca nelle forme di un nuovo e più raffinato autoritarismo. Rimane infine da notare che il rifiuto dell'ordine costituito è un momento indispensabile di qualsiasi processo rivoluzionario. Vi è un momento anarchico in qualsiasi moto volto al cambiamento, che sarà poi superato nell'edificazione di un nuovo ordine. La rivoluzione conservatrice ha espresso la romantica figura dell'anarchico di destra, ossia di colui che rifiuta l'ordine nato dalla dissoluzione per completare la rivoluzione - intesa in senso proprio, come movimento circolare - ed edificare un nuovo mondo fondato tuttavia su principi permanenti e incorruttibili. Tale figura può anche arrestarsi allo stadio del rivoluzionario permanente, a sua volta incarnazione di una espressione positiva della tendenza anarchico-conservatrice. Egli è colui che constatando l'impossibilità del compimento rivoluzionario, vive una forma di esistenza militante e mobilitata, radicalmente oppositiva, seppure consapevole dell'impossibilità della vittoria sul campo, concependo tuttavia la propria missione esistenziale con il mantenimento di posizioni perdute, quale forma eroica di un'etica residuale e in funzione di sentinella e testimone nel luogo della catastrofe.


Il satanismo razionalista

Il cosiddetto "satanismo razionalista" sarebbe, secondo gli antropologi culturali e i sociologi delle religioni, la forma più moderna ed evoluta del culto devoluto a Satana, l'entità considerata maligna e ribelle dal cristianesimo, e rivalutata, reinterpretata o presa a modello da una serie di esperienze occultistiche, settarie o pseudospiritualistiche emerse sin dai primi secoli cristiani. Le varie espressioni del satanismo, a prescindere dal modo in cui interpretano la figura di Satana, hanno tutte come tratto comune ed unificante un radicale rifiuto del cristianesimo. Che concordino nella visione cristiana di Satana, e pertanto sfocino nel puro culto del male con forme di ritualismo parodistico, o considerino Satana una figura positiva da contrapporre al demiurgo della gnosi cristiana o al Dio dispotico e crudele dell'Antico Testamento, l'elemento caratterizzante è la contrapposizione alla tradizione e alla sua dogmatica. Il "satanismo razionalista" altro non sarebbe che una versione emancipata e disincatata di questa istanza anticristiana e antitradizionale, che prenderebbe Satana come simbolo di ribellione all'autorità e al dispotismo del passato, per farne modello dello sviluppo del potenziale individuale, rigorosamente da perseguire in autonomia e in contrapposizione ad ogni ordine costituito. Ogni uomo deve così eleggersi a norma e signore di sé, seguendo la propria luce interiore e divenendo artefice del proprio destino, senza ricorrere a giustificazioni nella trascendenza o nel divino. La realtà è quella tangibile; la morale va definita individualmente (più o meno in accordo con la società in cui si vive, a seconda dei gusti); l'organo di conoscenza è la ragione; la forma di conoscenza è essenzialmente la scienza moderna; l'arte è da considerare pura espressione della propria individualità e del proprio gusto personale. In generale il satanismo viene considerata una via di liberazione dai tabù sociali e storici, dai vincoli individuali autoimposti o ricevuti per educazione, da tutto ciò che limita l'individuo nello sviluppo della propria personalità, potenzialità, ricerca di piacere e realizzazione. In sostanza il "satanismo razionalista", sviluppato pienamente nella sua istanza razionale, ossia purgato da residui mitologici, simbolici e romantici, altro non è che il modello dell'individualismo moderno, con tutti i suoi corollari di ateismo, scientismo, materialismo, anarchismo e superomismo velleitario. Resterebbe da chiedersi chi dei due mente camuffandosi per l'altro, se Satana o la modernità, o se non siano semplicemente uno lo specchio dell'altro. Da sottolineare che questo orizzonte ideologico, essendo un fenomeno moderno, è già passato. Il "satanismo razionalista" è un fenomeno da boomer o, tutt'al più, da trentenni annoiati. È un residuo di conservatorismo che ignora come il mondo attuale sia molto più avanzato nella dissoluzione nelle sue manifestazioni odierne considerate normali. La postmodernità ci mostra un volto satanico decisamente più inquietante e sorprendente, diremmo stimolante nella sua repellenza. Vale la pena ritornarci.




Comprendere la situazione internazionale

 

A prescindere da eventuali simpatie o odi viscerali per Russia o Israele, a parere nostro non è possibile comprendere l'attuale situazione internazionale, né tantomeno tentarne una valutazione il più razionale e oggettiva possibile, senza tener presenti alcuni concetti fondamentali.

1. A prescindere dagli aspetti regionali e contingenti, quello che si viene delineando è uno scontro tra coloro che sostengono l'egemonia dell'Occidente, tanto a livello politico che economico, e coloro che rivendicano una via autonoma e indipendente, rifiutando sudditanza e sottomissione. In altre parole: unipolarismo vs multipolarismo. Nessuno dei soggetti implicati, infatti, rivendica credibilmente per sé e per la propria cultura/civiltà - se ci si attiene almeno a ciò che viene dichiarato - il ruolo che l'Occidente a guida americana ritiene esplicitamente gli spetti.

2. Lo scontro non è una lotta di civiltà, ma eventualmente per il diritto alla civiltà, ossia tra chi nega che l'altro e la propria cultura abbiano il diritto di esistere così come essi sono - questo è il senso della cosiddetta esportazione della democrazia e dei diritti - e coloro che invece reclamano il diritto alla propria identità, autodeterminazione storica e realizzazione indipendente del proprio potenziale di sviluppo.

3. In questo contesto il fanatismo nazionalista, il fondamentalismo religioso e varie espressioni di xenofobia e razzismo sono arruolati alla causa unipolare perchè nella loro irrazionabilità sono facilmente manipolabili con l'illusione di obbiettivi particolari o breve termine conformi alla propria causa, ma funzionali però al disegno d'insieme che ne è di fatto l'esatto opposto. Questo spiega quel fenomeno solo apparentemente paradossale per cui chi sostiene la fine delle identità religiose, etniche e nazionali possa servirsi di eserciti ultranazionalisti e organizzazioni fondamentaliste per una causa quale la globalizzazione e il mondialismo. Fermarsi al piano di queste rivendicazioni locali non restituisce il quadro d'insieme: Stati Uniti ed Unione Europea non sosterranno mai l'indipendenza e la sovranità di nessun popolo e di nessuna nazione, se non in funzione della sconfitta di un nemico che considera più pericoloso, salvo poi disfarsene e rinnegarli quando l'obbiettivo è raggiunto.

4. Gli attori, le scene e i teatri locali vanno dunque interpretati nel contesto della regia globale e non isolati: la tecnica della propaganda è proprio quella di smembrare il quadro d'insieme per far risaltare i singoli atti del dramma, i quali possono avere nel contesto un significato - e di conseguenza un portato emotivo - completamente opposto rispetto al quadro generale.

5. L'esito dello scontro, nel quadro generale, è di fatto vitale solo per l'Occidente. Il fronte multipolare è infatti irriducibile a un'unica identità, cultura e formazione politica. In sintesi, il disegno multipolare andrà avanti anche se la Russia, l'Iran o la Cina saranno sconfitti. Viceversa l'Occidente unipolare, quando cadrà, cadrà tutto intero e in modo irreversibile. La gravità del rischio e la portata della posta in gioco dovrebbe aiutare a comprendere quanto l'Occidente sia disposto a sacrificare in termini di costi materiali e di vite umane, per tentare di preservare la propria sopravvivenza.



Ernst Jünger, un autore titanico

 "Soffro di un tempo che mi è estraneo ma non pretendo il diritto di essere escluso da questo soffrire. È la sofferenza degli spiriti superiori nel nostro tempo."

Se c’è un autore che ha attraversato con costrutto ed operosità viva tutto il Novecento, questo fu Ernst Jünger. Un secolo denso di avvenimenti, esperienze, guerre, tensioni, mutamenti, conflitti, miglioramenti e peggioramenti. Jünger li visse tutti, fino in fondo. Immergendosi in essi e traendone le vere essenze per un miglioramento ed accrescimento personale. Ha attraversato, senza conciliarli, gli opposti della nostra epoca. Fu guerriero e fautore della pace, individualista ma anche sovraumanista, fu soldato ed aperto alle esperienze della trincea ma anche amante della Macchina e della Natura. Percorse la modernità descrivendola come un sentiero stretto, compreso tra il precipizio della tecnica e l’altezza della divinità. Jünger fu il più grande scrittore di guerra (“Tempeste d’acciaio”), ed ebbe, al pari di Evola e Pasolini quello sguardo profetico su quel futuro tanto descritto ed anticipato dai cosiddetti scrittori “della crisi”.

“L’operaio”, sua opera centrale è l’analisi sull’epoca mondiale dominata dalla tecnica. Tecnica intesa come quella sfida lanciata dalla modernità che va riconosciuta così da poter dominare ed indirizzare e non subire passivamente. Oltre il nichilismo del mondo moderno, Jünger, alla fine del tunnel della disgregazione, scorge una luce, o per meglio dire una nuova strada. Una strada che si apre, grazie al suo pensiero intuitivo, ad una specie di nuovo umanesimo. Un superamento dell’umano in una dimensione totalmente nuova. Quasi mitologica. Che trasforma il lavoratore in un nuovo titano che unisce il meccanicismo in una struttura di pensiero integrale che piega i ritmi in una sorta di nuova spiritualità. La sua pubblicistica è sterminata, tra saggi, racconti, romanzi, epistolari e diari.

“Oltre il muro del tempo” è un approfondimento vero e proprio sul tema del tempo secondo una maestosa visione d’insieme: un’immagine metafisica che, in quanto tale, trova nel mondo fisico la sua controparte. Lo scrittore tedesco non si limita, così, a svilire le ormai sempre più screditate visioni ottimistiche e progressistiche di radice illuministica. Non una visione lineare e progressista della storia ma al pari di Eliade, Jünger rivisita la concezione circolare del tempo. Non esiste un progresso rettilineo. Attraverso la storia della terra e la divisione in cicli metafisici e sovraumani, la lunga analisi del saggio porta ai tempi ultimi. I tempi in cui pochissimi uomini possiedono strumenti adatti all’adesione al nuovo ciclo, al disvelamento, alla frantumazione della crosta nella quale siamo avvolti dalla Tecnica (concetto che sarà spesso presente nelle sue analisi). Una possibilità a cui l’umana natura può giungere pagando un prezzo altissimo di sofferenza e dolore, così da poter accogliere la metamorfosi in vista di una nuova libertà. L’uomo moderno “differenziato” quindi al centro di un’epoca spaventosa ed in balie di forze elementari e caotiche. Da cui può “ritirarsi”, agendo su se stesso ma soprattutto dandosi al bosco. Quel bosco tratteggiato alla perfezione in quell’altra sua opera basilare (al pari di “Cavalcare la tigre” di Evola) che fu “Il trattato del ribelle”. Traduzione italiana che però non rende appieno il senso, intendo nel titolo, di quello originario. Nell’edizione tedesca il titolo è “Der Waldgang”, cioè “colui si dà al bosco”. Il ribelle (nel titolo italiano) quindi è colui il quale si ritira dal mondo, “passa al bosco”, avendo possibilità nulle di incidere su di esso, cercando di preservare la sua interiorità, i suoi valori e la sua libertà. Ecco quindi l’anarca jungeriano, il nuovo ribelle che lotta contro il nulla e la decadenza, riscoprendo e rivalutando la propria consapevolezza, mantenendo intatto il suo nucleo inviolabile e la sua profondità. In uno stile severo ed asciutto, aderente nella sua interezza a principi dimenticati. In un cerchio ed in una cittadella inespugnabile. Da cui condurre una lotta di resistenza ma anche di testimonianza.

L’immensa portata dell’opera jungeriana è impossibile da ingabbiare in poche righe. Restano disseminanti nel tempo, per chi ha voglia di approfondire, “scogliere di marmo”, “passaggi al bosco” e radure di luce. Bagliori e sentori di un autore “titanico” di un secolo infame che, come ebbe modio di dire Alain De Benoist, non concesse il Nobel ad un autore complesso e profondo che, come una sentinella silenziosa, si stagliò sul confine del nulla.


                                                      OC

Se vuoi puoi tutto. O no?

Se vuoi puoi tutto. O no? Secondo ricercatori Cabanas e Illouz, autori del saggio “Happycracy" la scienza della realizzazione e del successo controlla le nostre vite con effetti potenzialmente devastanti sulla psiche degli individui. L'emancipazione individuale è infatti materia delicata, difficilmente delegabile ad un esperto di marketing o di business. “Cambia, impegnati e realizzati”. Benché i contenuti dei guru del business e del successo appaiano strumenti utili per un’evoluzione personale, il più delle volte non sono niente di più che comfort food per la mente oltre che un pericoloso rinforzo alla narrativa dominante. Mascherata da autorevole opinione di un esperto, la narrazione del successo è il più delle volte una acritica adesione al sistema in cui viviamo in una versione portata all’ennesima potenza ed estremizzata: l’entusiasmo per il contesto neoliberale diventa estetica, smette di essere un ideale e si trasforma in habitus esistenziale: l’individualista motivato. Intelligente e ottimista è il modello che viene proposto per realizzarsi. Il guru è colui che, in quanto vincente, è in grado di insegnare agli altri come sfruttare le infinite opportunità del mondo, apparentemente celate da una coltre di ozio e pigrizia. Chi ascolta diventa un cercatore ossessionato di sé stesso, dei propri errori e dei propri limiti. La chiave della realizzazione, nel lavoro come nella vita personale, è banalizzata in un’eterna trasformazione dell’io che non lascia spazio ad alcuna trasformazione del mondo. La carriera, intesa come corsa solitaria a discapito di tutto, è l’unica dimensione dove esercitare il proprio valore. Sia chiaro, non dobbiamo correre il rischio di generalizzare, dal web possono essere reperite fonti interessanti e utili per il nostro sviluppo professionale. Tuttavia, la direzione intrapresa da molti guru del web ha permesso ai loro messaggi di uscire dal contesto di riferimento per invadere le sfere dell'intera esistenza, diventando un modello di lifestyle. Nonostante la convinzione in un approccio individualista, ottimista e fiducioso la visione del mondo dei guru del web è il più delle volte una stampella del modello socio-economico in cui viviamo. L’estetica del successo non si configura come un modo di vivere individuale ma come rinforzo politico di un sistema prevaricante sui cosiddetti perdenti della società. Rimettere in discussione le contraddizioni del nostro modello non è ingrediente della ricetta del successo. Ansia, narcisismo e depressione sono, secondo molti studiosi, i rischi più comuni legati ad un messaggio troppo legato all'ideologia del successo: non realizzarsi (o non rialzarsi dopo un fallimento) è vissuto come una sconfitta personale di cui vergognarsi intimamente. Forse dobbiamo iniziarne a parlarne, con maggiore attenzione.

A.Sahebi



Lucio Dalla, un hobbit della musica italiana

“Io credo che è l'amore, è l'amore che ci salverà”.


Nel film “L’hobbit” Gandalf dice a Galadriel che “sono le piccole cose, le azioni quotidiane della gente comune che tengono a bada l’oscurità”. Il cantautore bolognese Lucio Dalla, era come un hobbit. Un essere piccolo, innocente e puro. Un hobbit che ha raccontato in molte delle sue canzoni le storie dell’umanità che ha incontrato e conosciuto. Un pilastro della musica italiana, che unì la tradizione popolare italiana con la musica leggera, le melodie e i ritmi semplici e scanzonati con suoni appartenenti al pop, senza essere rinchiuso in un genere particolare. Ma al di là dell’aspetto musicale, differente da quello di altri suoi “colleghi” cantautori fossilizzati in certe strutture, erano i testi a colpire. Un florilegio di canzoni i cui testi sembrano degli storyboard per la costruzione di un film, una sceneggiatura perfetta per fatti di vita comune. Come delle istantanee precise di un momento, una fotografia spietata di un attimo. Ogni verso di un suo brano apre ricordi, immagini, situazioni di impronta cinematografica ed offre infinti spunti di riflessione. Come la distruzione delle illusioni di “Cara” (“per uno come me l'ho già detto che voleva prenderti per mano e volare sopra un tetto”), l’elogio della forza del pensiero critico di “Come è profondo il mare” (“È chiaro che il pensiero dà fastidio anche se chi pensa è muto come un pesce”), la mediocrità derivante dalla meccanicità della vita quotidiana di “Quale allegria” (“Far finta che in fondo in tutto il mondo c’è gente con gli stessi tuoi problemi per poi fondare un circolo serale per pazzi sprasolati e un poco scemi”) bilanciata dalla forza di volontà di “Cosa sarà” che in modo a volte irrazionale spinge ad affrancarsi dalle bassezza della vita (“Che ti spinge a picchiare il tuo re, che ti porta a cercare il giusto, dove giustizia non c'è”). E quante volte abbiamo incontrato nelle periferie delle città storie simili a quelle di “Anna e Marco”? La storia di sogni irrealizzabili di due sconfitti dalla vita che vengono mitigati dal conforto, dalla solidarietà e dalla vicinanza (“Anna avrebbe voluto morire, Marco voleva andarsene lontano, qualcuno li ha visti tornare tenendosi per mano”), o il dolore di un addio di chi è andato via davvero per realizzarli quei sogni “Balla balla ballerino” (“Ferma con quelle tue mani il treno Palermo-Francoforte, per la mia commozione c'è una ragazza al finestrino, gli occhi verdi che sembrano di vetro, corri e ferma quel treno fallo tornare indietro”). Il tutto con la speranza nel cuore di un futuro di tacita speranza di “Futura” (“Non girare la testa, dove sono le tue mani, aspettiamo che ritorni la luce, di sentire una voce, aspettiamo senza avere paura”). Una speranza che attraversa un tempo difficile, un “apocalisse dei nostri tempi” che solca le varie fasi del nostro percorso in un mood che non può non richiamare “Il settimo sigillo” di Bergman de “L’ultima luna”. Un testo di disperata attualità che però ci ammonisce con un chiaro messaggio. Il domani apparterrà solo a chi avrà il disincanto e il candore di un bambino, a chi avrà capito come superare le miserie e la disperazione dell’uomo moderno (“L'ultima luna la vide solo un bimbo appena nato, aveva occhi tondi e neri e fondi e non piangeva. Con grandi ali prese la luna tra le mani, e volò via. Era l'uomo di domani”).

Un artista sensibile la cui arte poetica vive per l’eternità.

“Per poter riderci sopra, per continuare a sperare”


                                       OC

9 Marzo 2020, l'inizio del delirio

Il 9 Marzo 2020 fu l' inizio di un periodo kafkiano in cui accaddero strani fenomeni.

In quel tempo l'Italia venne divisa in zone colorate in base alle quali si concedevano le libertà di movimento.

Mentre camminavi sereno, dal lato opposto della strada qualcuno ti guardava spaventato e si tirava su una pezza di stoffa sul volto.

Strani personaggi passavano a disinfettare le sabbia sulle spiagge.

Elicotteri in diretta tv inseguivano una persona che camminava da sola nel deserto.

Uomini andavano in bicicletta in montagna o passeggiavano nei boschi isolati respirando attraverso una pezza lercia appiccicata sul volto.

A scuola i bambini non potevano andarci. Successivamente però si ma dovevano salutarsi col gomito, mascherarsi sui banchi e se per sbaglio si scambiavano una penna tra loro l'insegnante impazziva e chiamava il 118.

Sempre a scuola, se un bambino svolgeva un compito in classe doveva consegnarlo alla maestra bardata e metterlo in quarantena 15 giorni.

Le persone uscivano di casa con una carta da formaggio con la giustificazione dei loro movimenti e dal governo arrivavano indicazioni intelligenti del tipo "se andate a trovare un amico potete farlo so se è amico vero".

Nei parchi giochi nastravano le altalene, nei supermercati lasciavano aperti i reparti per gli animali e chiudevano quelli dei giocattoli.

Dentro le auto si vedevano coppie sedute una avanti e una dietro, rigorosamente mascherati e con i finestrini aperti d'inverno per fare circolare l'aria ed evitare possibili contagi.

Negli ospedali la gente moriva da sola, senza possibilità di vedere i propri cari.

Al bar potevi per un periodo mascherarti in piedi ma non seduto, un altro momento dovevi seduto ma non in piedi.

Esimi medici spiegavano come avere rapporti intimi mantenendo le distanze di sicurezza. Altri dichiaravano "amatevi ma non troppo".

Il Presidente del consiglio andava in diretta tv mascherato in solitaria suggerendo di utilizzare le carte e non il contante poiché veicolo di contagio. Poi sotto Natale dava strani bonus per fare spendere denari alle masse che una volta rientrate dalla spesa venivano colpevolizzate in quanto responsabili di contagio.

Ad un certo punto un banchiere ed un militare vennero messi a governare e comunicarono cose grottesche tipo "se non ti sieri muori e fai morire", "noi istituiamo un lasciapassare per ritrovarsi tra persone non contagiose". Tutta la stampa era zelante e le masse si accalcavano negli hub come polli.

In tv tre “stimatissimi” medici canticchiavano Jingle bells modificandone il testo con frasi come "se tranquillo vuoi stare il siero devi faaare".

A lavorare non ci si poteva andare se non muniti di una sorta di lasciapassare che certificava di essersi iniettati roba inutile e dannosa firmando il proprio consenso.

Potremmo andare avanti a lungo ma facciamo finta che non sia accaduto nulla di strano. Non ci fu alcun delirio collettivo, né abuso di potere. D'altronde furono solo misure di emergenza, non si poteva conoscere a fondo la portata del fenomeno. Fu solo prevenzione, suvvia, non siate paranoici e rancorosi, quel che è stato è stato.



Geopolitica e gnosi

Le potenze talassocratiche non possono propriamente essere chiamate Occidente, in quanto la loro caratteristica determinante è appunto la delocalizzazione, l'informità e l'instabilità fluidica e indefinita il cui simbolo è l'elemento acqueo, e l'incarnazione archetipica elementare il mare. Se sono chiamate Occidente, lo sono perchè la loro origine storica è a Ovest del centro, il continente Euroasiatico, e in quanto luogo del tramonto, "occasus" del presente ciclo storico. Qualsiasi definizione geografica autentica ha invece come riferimento uno spazio specifico, garantito e sicuro, caratterizzato dalla comunione di un popolo, una tradizione e una cultura con il suolo e la terra in cui essa è radicata e legata da un'origine e un destino. Questo è il motivo perchè la vera geopolitica come forma di conoscenza è piu affine alla gnosi tradizionale che alla scienza moderna, in quanto non può che nutrirsi di una dimensione metafisica e spirituale sconosciuta alla pseudocultura profana. È anche il motivo per cui la cultura moderna diffida della geopolitica, se non addirittura la osteggia, in quanto il suo orizzonte è quello dell'identità e della differenza, l'esatto opposto del modello imperialista talassocratico, che punta a risolversi nell'uniformità e nell'indifferenza. Questo per dire che la guerra non è tra Occidente e Oriente, ma tra le forze dell'informe e del caos, e quelle della forma che è spirito. Questo è il motivo per cui esiste un Occidente autentico e un Occidente ombra e doppio che ne è come la nemesi. Eurasia è il luogo in cui l'Occidente autentico può riposare e ristorarsi nella propria identità nel riferimento a un centro immutabile. Multipolarità è il nome della forma in cui tale centro articola e custodisce la differenza delle sue espressioni, in un'armonia corale di pace e libertà. Utopia escatologica quaternaria.




Esteriorità e autostima nella donna dell'era dei social network

Ragazzine che non superano i 40kg per “essere in forma”, donne di tutte le età che vanno in ansia se hanno un qualsiasi difetto fisico, che sia una smagliatura, un briciolo di cellulite o qualsiasi cos’altro. Questa è una vera e propria piaga sociale aggravata dell'era dei social media e della cultura dell'apparenza.

Qualcuno spieghi a queste donne che un ad uomo che può essere definito tale non interessano minimamente tali dettagli, egli ama la donna in quanto essere unico e irripetibile e quelli che sono considerati “difetti” non sono per lui nulla in una completa ottica relazionale corpo-mente. Sono solamente fisime indotte da una società malsana che continua a perpetuare ideali di bellezza inaccessibili e artificiali attraverso la pubblicità, i media e l'industria della moda.

Esistono dei movimenti che spingono all’ accettazione di sé e all’ amore per il proprio corpo, basandosi sull'idea che tutti i corpi, indipendentemente dalle loro dimensioni o forme, meritino rispetto. Tuttavia c’è da diffidare da molti di loro, poiché un conto è liberarsi dagli standard di bellezza irrealistici imposti dalla società e rispettare l'unicità dei corpi umani, promuovendo autostima e autoaccettazione, un altro è esaltare situazioni fisiche dannose per la salute.

Peraltro l’eccessiva magrezza nella donna, tanto in voga oggi, è cosa innaturale, ella deve avere, come biologia comanda, forme morbide, ma ciò non significa, ovviamente, sfociare nell’esaltazione del grasso eccessivo che può causare scompensi alla salute. Il modello androgino della donna palestrata, tutta nervi e senza curve probabilmente fa comodo a qualcuno ma è tutto fuorché naturale.

La salute mentale di molte donne è danneggiata da tali fissazioni, molte, anche se non lo ammettono, vivono sotto pressione per conformarsi a tali fasulli standard di bellezza che causano effetti nocivi sulla salute emotiva come depressione, ansia e disturbi alimentari.

Certamente è importante piacersi, ma una donna non può percepirsi come un burattino, ci sono miliardi di altri aspetti che contribuiscono alla sua bellezza, dalle movenze, ai modi, allo sguardo, al suo modo di ragionare, all’essenza che emana. Come si può anche solo lontanamente pensare di essere valutate in base a degli aspetti marginali di un corpo? Vivere il proprio aspetto esteriore come unica misura di autostima la dice molto lunga sui valori delle società occidentali.




Lavoro e tempo libero - G. Thibon

Il proletario moderno ha l'odio del lavoro. Anche quando questo è ben retribuito, la sua insoddisfazione non si placa. Soffre meno di essere un operaio sfruttato che di essere un operaio senz'altro: le sue infinite rivendicazioni materiali non sono altro che manifestazioni superficiali e ingannatrici di un tale malessere fondamentale. Il proletario soffre in questo modo perché il suo lavoro è inorganico, inumano. I socialisti propongono, come rimedio alla crisi operaia, una più giusta ripartizione dei redditi, salari più alti, come se il problema operaio si limitasse a questo! Si tratta piuttosto di un rifacimento totale delle condizioni prime del lavoro industriale, si tratta di sopprimere il lavoro inumano, il lavoro senza forma e senza anima: la « grande officina », il lavoro « alla catena », la specializzazione portata all'eccesso, ecc., tutte cose che lo statalismo socialista può solamente portare alla loro suprema e mortale espressione. Il problema dei salari è molto secondario. L'artigiano di paese che costruisce oggetti completi e tratta con una clientela viva è infinitamente più felice e soddisfatto dell’operaio d'officina, pur con uno standard di vita ben inferiore a quello di quest'ultimo. Se le condizioni di lavoro dell'operaio dell'industria e del commercio non cambiano, l'elevazione del livello dei salari potrà soltanto nuocergli. L'uomo votato al lavoro malsano è votato altresì allo svago malsano. Il tempo libero (con tutte le « distrazioni » che implica) non è più per lui il prolungamento ritmico del lavoro, ma una maniera di evadere, di vendicarsi del lavoro: invece di rendere più facile la ripresa del lavoro, la rende più amara. Non si rimedia ai mali scaturiti da un lavoro inumano con l'aumentare il benessere economico del lavoratore: si rischia anzi così di aggravare il suo fastidio e il suo decadimento. Il marchio di certe forme moderne dell'attività sociale consiste infatti in questo: il lavoro e lo svago, normalmente complementari, vi diventano antagonisti. Semplice caso particolare di quella legge generale che dice: le cose che, sane, si completano, malsane si divorano a vicenda. Il cattivo amore dei sessi si capovolge in odio dei sessi, un cattivo sonno invade la veglia e l'avvelena. Lo stesso accade per un lavoro senza anima: I'abbrutente mescolanza di tensione e di monotonia che lo caratterizza, si riflette sul tempo libero, lo predispone alla dissolutezza, cioè a piaceri inumani e artificiali quanto lui. Le gioie che popolano il riposo dei lavoratori diventano così qualcosa di teso e di artificiale una sorta di lavoro straordinario che, lungi dal distendere anima e corpo, aumenta la loro fatica e la loro intossicazione. Baudelaire, cantore supremo della decadenza, non per caso ha usato la parola « lavoro » per designare la voluttà: Oui des Dieux osera, Lesbos, être ton juge Et condamner ton front pâli per les travaux?... Les débauchés rentraient, brisés par leurs tra vaux...

Infatti colui che non trova più gioia nel suo lavoro, troverà lavoro nella sua gioia. Il lavoro forzato ha come corollario il piacere forzato. È amaramente istruttivo vedere la classe operaia e le sue guide rivendicare in primo luogo, e quasi esclusivamente, un aumento dei salari e del tempo libero. Pretese tanto superficiali rivelano una strana dimenticanza dell'intima solidarietà e della continuità qualitativa che esistono tra il lavoro e il riposo. Lavoro e svago sono le due fasi di uno stesso ritmo: la perturbazione di una di queste fasi porta fatalmente con sé una corrispondente perturbazione nell'altra. Chi dorme male non può vegliare normalmente; allo stesso modo un uomo costretto ad un lavoro contro natura rischia gravemente di non occupare molto umanamente il suo tempo libero. Si avrà un bell'aumentare quest'ultimo in quantità: non per questo la sua qualità diverrà meno inferiore e falsa. Non si tratta di tentare di far da contrappeso ad un lavoro inumano per mezzo dell'accrescimento del « benessere » dei proletari: finchè il lavoro resterà inumano, un tale benessere non potrà essere sano. Si tratta prima di tutto di umanizzare il lavoro. Fatto ciò si potrà lecitamente pensare al miglioramento della situazione materiale delle masse: le riforme operate in questo senso avranno allora maggiori possibilità che non oggi di non esasperare, nell'anima dei lavoratori, l'odio per il lavoro e lo spirito di rivolta e di anarchia.

Quando parlo di umanizzare il lavoro, non voglio dire di renderlo necessariamente più facile e meglio remunerato, ma voglio soprattutto dire di renderlo più sano. Esiste una vita dura e difficile che è umana: quella del contadino, del pastore, del soldato, del vecchio artigiano di paese, esiste anche una vita molle e facile che è inumana e che genera la corruzione, la tristezza e l'eterna ribellione dell'essere che non svolge alcun ruolo vivente nella Città: quella per esempio dell'operaio standard in periodo di alti salari, del burocrate amorfo e ben pagato, ecc. Ed è proprio quest'ultimo genere di esistenza che il socialismo reclama per tutti! Per parte nostra, noi che amiamo il popolo d'un amore umano (cioè d'un amore spietato verso qualsiasi atmosfera inumana che lo minacci, per comoda e desiderabile che possa essere in apparenza), chiediamo per lui molto di più, chiediamo dell'altro. I democratici moderni hanno troppo frettolosamente confuso vita dura e vita inumana. E con ciò si sono condannati quasi unicamente a corrompere sotto il pretesto di umanizzare.

Gustave Thibon, Diagnosi 1940 (Iduna edizioni)