Rimbaud e "l'alchimia del verbo"

Il 20 ottobre del 1854 nasceva a Charleville, piccola città francese, uno dei più grandi poeti dell'epoca moderna.

Il primo poeta "rivoluzionario", lo studente modello a livello scolastico ma decisamente controcorrente nell'analisi della realtà, Rimbaud l'irrequieto che sogna la fuga dalla sua piccola città natia. Quella del poeta francese è proprio la ricerca, materiale ed artistica, di una "fuga". Di una "fuga" dal presente e dalla rigidità delle convenzioni artistiche.

Un poeta che guarda al futuro, un creatore di opere che anticipino il mondo a venire.

Un artista che deve essere e deve farsi "veggente" ed attraverso la poesia arrivare alla conoscenza.

Il percorso di Rimbaud è votato alla volontà di superamento dell'umano immergendosi nella natura, nella vita e nelle contingenze storiche.

Tutto ciò che lo circonda appare come un turbinio di immagini senza senso e occorre un modo per ordinarle e comprenderle. Un processo per decodificare l'ordine profondo che regola la vita e la morte, i successi e le sconfitte, l'estate e l'inverno, tutto ciò che è accaduto e che accadrà.

È la parola al centro del suo cammino, la parola usata come mai prima di allora, la costruzione di un mondo fatto non di contorni squadrati ma da visioni che si perdono nella forma di colori cangianti, "ebbri", di paesaggi stupefacenti e di discese stravolgenti.

Si assiste dunque alla elaborazione di un nuovo modo di comunicazione. La cosiddetta "alchimia del verbo".

Come i miti, come le parabole, e le fiabe che hanno il compito di far arrivare l'ascoltatore al mondo dei principi attraverso la parola e il coinvolgimento emotivo.

Spetterà poi alla razionalità il chiarimento delle presunte contraddizioni e la disposizione degli avvenimenti nella giusta luce. Ma in ogni caso si tratta di "illuminazioni" che non tutti riescono a cogliere. Una potenza immaginativa non per tutti. Bisogna "elevarsi".

L'uomo "dalle suole di vento" in realtà l'aveva previsto forse dal giorno stesso in cui si era messo in cammino e aveva deciso di provare a vivere mille vite spese tutte nel tentativo di dare all'esistenza un senso inaudito.

In questa "illuminazione" pare che Rimbaud sia proprio riuscito ad intuire l'essenza della limitatezza del meccanismo sensoriale umano. Dove ogni ingranaggio emotivo si trova a ripetere sempre le stesse azioni.

Holderlin, diceva che i veri poeti si rivelano per la maggior parte all’inizio e alla fine di un’era.

Ed infatti Rimbaud è il primo poeta di una civiltà non ancora apparsa, civiltà i cui orizzonti e i cui limiti appaiono ancora incerti perché collocati in un mondo "altro".

Lo strumento poetico di Rimbaud è un atto di ribellione a quell’Occidente vuoto, contento di sé, secolarizzato e senza forza che ha perso perfino l’istinto di conservazione e il desiderio della bellezza.

E questo suo desiderio ribelle fugge libero indifferentemente sia dal passato che dal futuro.

Non si stabilisce, non si situa in un tempo storico.

È solo un vortice basato sulla modalità della nostalgia o del desiderio, che ci trascina e ci sottomette.

Alla ricerca di una liberazione a cui lui arrivò quando capì che tutto era compiuto e abbandonò la vita poetica.

Una missione espletata in pochi anni.

La porta della prigione era aperta, ora bisognava solo correre nel sole d'Africa, nelle sue distese infinite.

L'opera di rottura e negazione era stata compiuta.

La fine avvenne presto, attorno ai 20 anni il momento del distacco.

Lasciò agli altri la chiave per la libertà.

La fusione completa tra il sogno ed il desiderio.



                                                    OC

"Mitologia tolkieniana" di Mario Polia

"Mitologia tolkieniana" è un saggio dello studioso Mario Polia consigliato a tutti gli appassionati del filologo inglese ma anche e soprattutto a chi di Tolkien ha solo sentito parlare o a chi ne ha una conoscenza superficiale. Se l’opera tolkieniana continua a fare proseliti, ad affascinare e a conquistare il motivo è molto semplice. Continua perché il senso del Mito abita in ognuno di noi, nelle nostre anime. Alcuni possono sopprimerlo ma non possono cancellarlo. Perché alcuni si sono resi conto che “abitare” in una sola “dimensione” non soddisfa, si tratta di una condizione innaturale. Si sente il bisogno, o magari solo la percezione, di altro. Di un mondo reale e non artificioso, Un mondo non dominato dalla tecnica, dall’utile e dall’economia. Un mondo dove innalzare la trascendenza da opporre ad un presente meschino. Il cercare la metafisica dove regna lo scientismo. Un bisogno forse elementare ma vitale. Per confrontarsi con l’insondabile, con l’immaginazione ed il sogno.

Attraverso la comparazione e confrontando le principali tradizioni, Mario Polia ci dimostra come l'opera di Tolkien è comparabile all'opera di un Omero o di un Virgilio, Un'opera formativa e fondante ordinata da leggi che provengono dal Mito. 



                                                     OC

Nuovi film Horror

 

Non è corretto affermare che non esistano ottimi film horror di recente produzione, ci sono stati negli ultimi vent’anni parecchi titoli interessanti.

Quello che però la gran parte delle produzioni horror recenti non fanno più è creare atmosfere di tensione senza l’utilizzo di semplici mezzucci.

Molti film horror vecchi riuscivano a fare paura e creare suspense attraverso la costruzione di atmosfere sinistre. Grandi prove attoriali, inquadrature, musiche, ombre, suggestione e non esplicitazione, trame ben scritte, psicologia dei personaggi. Questi erano gli ingredienti fondamentali per la riuscita di un film horror. Senza l'ausilio degli effetti speciali moderni, si trovavano soluzioni davvero memorabili, in grado di terrorizzare ancora oggi.

Adesso la gran parte delle produzioni se non utilizzano i famosi “jump scare” difficilmente riescono ad ottenere l’effetto che desiderano.

Ma il punto è che non si creano più atmosfere sottili e tensioni psicologiche, investendo sull’emotività ello spettatore. Si preferisce farlo saltare dalla sedia alzando improvvisamente l’audio, tralasciando tutto il resto. Ecco perché gran parte delle uscite finiscono nel dimenticatoio dopo un mese, mentre opere come ad esempio “L’esorcista” di William Friedkin rimangono intatte nel tempo.

È proprio il pubblico di oggi che richiede solamente salti e adrenalina per poi cestinare il tutto e passare al successivo. In pieno stile reel di tik tok.

Un pubblico che vive il cinema horror solamente come passatempo mentre si sbirciano le notifiche di whatsapp in attesa del momento dello spavento.

Parliamoci chiaro, oggi un giovane si annoierebbe a morte e guardare un film come Rosemary’s baby.

I film horror, un tempo fonti di esplorazioni della psiche umana, di critica sociale metaforica, di riflessioni sui tabù, sono diventati nella QUASI totalità dei casi mero intrattenimento attraverso beceri mezzucci tecnologici.



 

McMahon e la manipolazione delle masse

La serie su Netflix dedicata all’imprenditore Vincent Mc Mahon è interessante per svariati aspetti.

McMahon nell’arco di 40 anni è riuscito a far diventare il wrestling una macchina di soldi con fatturati da capogiro. In che modo?  Sfruttando la manipolazione delle masse che la società attuava nel tempo, attraverso i media. È un uomo che non ha inventato nulla, che non è mai andato controcorrente, che semplicemente si è sempre adeguato dando al pubblico ciò che voleva, rappresentando la falsa realtà del momento.

Qualche esempio? Negli anni ’80 e ’90 in base al “nemico pubblico” del momento creava personaggi antipatici con cui le masse caprine potevano scagliarsi, ecco che durante la guerra in Iraq veniva fuori il wrestler amante di Saddam a cui ovviamente contrapponeva l’eroe americano buono che faceva giustizia. Oppure si cimentava nell’ideazione di soggetti come l’iraniano cattivo e il sovietico antipatico nei giorni della guerra fredda.

Interessante notare anche come adattò i suoi spettacoli nei confronti delle donne, rappresentandole dapprima come oggetto sessuale, vanitose e sexy per poi cambiare rotta cavalcando l’onda del femminismo egualitario e del gender in cui le femmine combattono come i maschi e hanno un aspetto sempre più mascolino.

McMahon è il simbolo dell’imprenditore spietato il cui obiettivo è solamente quello di fare soldi a valanga attraverso l’osservazione dei gusti delle masse indotte dai media.

È il classico stereotipo dell’uomo dal motto “il business è il business”, laddove quest’ultimo diviene un feticcio, conta più di tutto, portando a calpestare qualsiasi rapporto personale pur di fare denaro.

Il documentario McMahon mostra sostanzialmente come fare soldi senza scrupoli sfruttando la manipolazione delle masse.

In questo l’imprenditore americano è stato certamente un genio.



Difesa della vita e transumanesimo

 << Non lascio aperto nessuno spiraglio all'eutanasia. Non dico: "fammi morire". Ma: "lasciami morire come ha stabilito la natura". Né io, né tu. La natura. Prendiamo il caso di Piergiorgio Welby, che ho seguito da vicino. Welby sostanzialmente non disse: staccate la spina. Ma: lasciate che la natura faccia il suo corso, non fatemi restare vittima di una tecnologia che costruisce qualcosa di sostitutivo e artificiale rispetto alla natura. >> (Giovanni Reale)

Così si esprimeva il grande filosofo e storico Giovanni Reale in merito al caso Welby.

Quello del fine vita è un tema spinoso, delicato. Su WI non abbiamo mai messo in discussione nè la difesa della vita in ogni sua forma, né in particolare la difesa della vita dei più deboli. Cerchiamo piuttosto di portare l'attenzione su un'altra questione, che casi come quello famoso di Welby hanno portato necessariamente in primo piano. La tecnica sta obbligando l'uomo ad affrontare quesiti e bivi etici che le epoche precedenti alla nostra non conoscevano. In particolare, le macchine per il sostegno vitale creano condizioni di sopravvivenza artificiale che pongono la necessità di problematizzare la stessa nozione di vita e di vivente. Se non ci si rende conto che il problema è lo stesso del transumanesimo tecnologico, non si afferrano né i termini della questione, né il perimetro ideologico che essi coinvolgono. Per tentare di affrontare il problema etico e morale dell'accanimento terapeutico, ad esempio, le categorie tradizionali, ossia a misura d'uomo, si rilevano semplicemente inadeguate, perchè qui entriamo nel dominio dell'inumano, che avanza laddove l'umano arretra. il nostro è come sempre un invito al coraggio di pensare e al porsi domande scomode e destabilizzanti, dove la risposta non sia pregiudicata e precompresa. Non invitiamo al relativismo, ma a non dare per scontato l'esito del domandare, né ad accomodarsi su sentieri prestabiliti che ignorano le sfide del postmoderno. Vero è che in un mondo sano, la possibilità di tali quesiti non dovrebbero neppure sussistere.

Il fatto è che una volta entrati nella meccanizzazione dei sistemi di mantenimento vitale, ci ritroviamo ad avere macchine in grado di prolungare la vita in maniera artificiale di un organismo che non può sopravvivere da solo. La domanda dunque è: una vita che è mantenuta artificialmente e tecnologicamente, un organismo che non è più in grado di reggersi autonomamente è ancora vivo? È un dilemma tragico, insolubile ed è difficile giungere a una visione univoca. Ognuno si dia la sua risposta.



La dissoluzione della famiglia

 

Prima di politiche sociali che - per usare un eufemismo - non incoraggiano la costruzione di un nucleo familiare, e prima della promozione di una cultura che scoraggia i modelli tradizionali promuovendo individualismo, eccentricità e narcisismo, il più letale attacco alla famiglia è stato portato diffondendo una nuova idea di "amore" coniugale, astratta e irrealistica, tipicamente adolescenziale, in linea con una società che ci vuole eterni immaturi privi di legami e strutture solide, soli e indifesi. Il modello di amore odierno si basa sull'idea che il compagno o la compagna siano una sorta di prolungamento della propria individualità, e che come tale debbano continuare a nutrire sensazioni e piaceri che in genere sono elementi di una prima fase della relazione, i quali poi dovrebbero maturare e trovate la giusta dimensione all'interno di una progettualità dove all'aspetto emotivo subentrano fattori di ordine spirituale e razionale che, se da un lato raffreddano gli aspetti più voluttuari della relazione di coppia, tuttavia costituiscono le basi per un rapporto solido, sensato e orientato. Questa seconda fase, che è quella funzionale alla costruzione di un nucleo famigliare, sembra oggi essere espulsa dai modelli di coppia che la società promuove. Le relazioni devono fermarsi alla fase "innamoramento", per non giungere mai alla fase "impegno". Quando un rapporto non stimola più i sensi, non costituisce più una piacevole distrazione, non coinvolge più con passioni che travolgono o ottenebrano, allora si dichiara finito, perchè ha perso il lato interessante, la dimensione di intrattenimento. È chiaro che su queste basi è impensabile la costituzione di qualsivoglia nucleo familiare, il quale sarà inevitabilmente destinato a disgregarsi perchè certe sensazioni tendono inevitabilmente a consumarsi e a dileguare nel tempo, se non vi è qualcosa di solido - quindi di non appartenente alla sfera emotiva - che le nutre e le rigenera. L'idea tradizionale è che l'amore non sia un piacere, ma un sacrificio, un donare se stessi all'altro, e un mettere la coppia, e quindi la famiglia, davanti al proprio interesse individuale, fino al punto da far coincidere tale interesse con quello della nuova entità a cui si è dato vita con l'altra persona. È questa idea di sacrificio, anti-edonistica e anti-individuale che la nostra società abborrisce. È su questa idea che i legami familiari si strutturavano saldi e i matrimoni duravano una vita intera. È su questa idea che si poteva pensare un futuro a lungo termine, che contemplasse progetti comuni che richiedevano fiducia reciproca e dedizione. Oggi principi come questi sono un'eccezione, ed è naturale che le famiglie si dissolvano, o semplicemente scompaiano.



Indifesi e dipendenti

È ormai noto che la società neoliberale globalista ha come obbiettivo la creazione di individui atomici privi di radici ed identità, che fungano da indifeso supporto al sistema tecnocapitalista in veste di docili lavoratori e consumatori, privi di qualsiasi reale potere politico e di concreta autonomia. Per fare questo sono state progressivamente e sistematicamente minate tutte le strutture sociali intermedie che si frapponevano tra la singola persona e il potere. Tali strutture costituivano dei centri di resistenza all'esercizio diretto dell'autorità e una sorta di rifugio in cui il singolo poteva trovare realizzazione prima e al di fuori di ciò che il sistema disponeva univocamente e unilateralmente per lui.

La prima e la più centrale di queste strutture è la famiglia, intesa come un nucleo di persone unite da legami di sangue, affetti, storia, proprietà ed interessi. A ben vedere questi aspetti rappresentano forme di solidarietà identitaria che il potere tende a negare o ad abolire. Tutta la propaganda contro la cosiddetta "famiglia tradizionale" (tralasciando gli argomenti "patriarcali" più beceri) verte nel tentativo di dimostrare che i legami biologici sono ininfluenti, che la famiglia è il luogo più corrotto e vile dell'egoismo privato, e che è necessario ogni giorno scegliere arbitrariamente con chi spartire l'esistenza. Le sue funzioni economiche, educative, assistenziali e di cordone sanitario verso il mondo esterno, che garantiscono un certo grado di indipendenza dei singoli che vi appartengono rispetto alla società, vengono completamente svalutate, così come l'oggettività fattuale dei legami che la saldano, quali quelli di sangue o di responsabilità reciproca.

Il potere vi vuole liberi e autodeterminati a parole, ma indifesi e totalmente dipendenti nei fatti.



Lost e le serie tv come fenomeno di massa

Vent'anni fa, il 22 settembre del 2004, un aeroplano cadde dal cielo e il mondo delle serie TV cambiò per sempre.

“Lost" è da considerarsi ad oggi una delle più importanti serie televisive di sempre a livello mondiale, capace di ottenere numeri impressionanti tanto da elevare il serial come genere, come mercato e come fenomeno di massa.

Il Boeing 815 della compagnia australiana Oceanic si schianta su un’isola disabitata e i sopravvissuti sono costretti a vivere in un ambiente ostile, in attesa che qualcuno li venga a recuperare.

Le sei stagioni di "Lost", sin dai primi episodi, si dimostrano essere un intrigante racconto corale fatto appositamente per cogliere di sorpresa, giocare sui generi, sulla narrazione e i suoi tempi.

Gli autori riescono a creare interesse per ogni singolo dettaglio.

Anche un semplice oggetto trovato in tasca da un personaggio dopo l’incidente creerà curiosità sul perché si trova lì.

Fin dalla prima stagione, "Lost" ci presenta un gruppo enorme di protagonisti, riunendo una compagnia estremamente variegata.

I personaggi sono assolutamente realistici e ognuno di essi ha una sua storia raccontata attraverso flashback, divenuti elementi caratterizzanti di questo lavoro, con i quali gli ideatori ci fanno entrare nei panni dei personaggi.

Così facendo vengono instaurati giochi di linee temporali molto suggestivi che permettono ai produttori di fare uno scavo psicologico, caratteriale e narrativo ricco di sfaccettature.

Ognuno di essi ha un legame tutto suo con l’isola, che è anch’essa un personaggio a sé stante e offre un suo particolare simbolismo.

Per questi e per tanti altri motivi, "Lost" si è affermato come un classico moderno della televisione.

Uno show che è stato una pietra miliare per la serialità.

Un amalgama di storie complesse, ricche di elementi letterari, artistici, filosofici e spirituali.


                                                  OC


L'importanza dei piccoli gesti

I piccoli gesti nella vita quotidiana stanno scomparendo. Tutti curvi sul proprio smartphone, alienati dal mondo circostante e senza empatia verso il prossimo. Basti osservare i condomini, sino a una trentina di anni fa ci si conosceva tutti, si festeggiavano assieme eventi, ora non ci si conosce neppure tra vicini di casa.

Stanno scomparendo le piccole cose, come un sorriso, uno sguardo, un gesto gentile, aspetti fondamentali nella vita di un essere umano che vuol ancora definirsi tale. 

Il prestare attenzione ai dettagli quotidiani è propedeutico al vivere il momento presente, a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé. Essere empatici verso il prossimo porta ad esplorare nuove esperienze. Imparare a osservare e apprezzare ciò che ci circonda aiuta a riconoscere la bellezza della vita, anche nell'ordinario. 

Percepire lo scorrere dell'esistenza sta diventando sempre più utopico nella vita odierna, tecnologica e asettica. Tutti immersi in una bolla, tra i propri pensieri e una notifica di whatsapp mentre gli anni scorrono veloci.




La distopia di Demolition Man

"Demolition Man", film del 1993 dell’italiano Marco Brambilla, con Sylvester Stallone e Wesley Snipes, è una pellicola che va riscoperta.

Dietro l’apparenza di un film d'azione, ci troviamo di fronte a ben altro.

L’opera presenta un futuro dominato dalla tecnologia dove la sorveglianza e l'automazione sono propedeutiche all’eliminazione della privacy e allo sviluppo dell’intelligenza artificiale.

All’interno della trama troviamo lo sviluppo della cultura della cancellazione (cancel culture) in un'epoca di crescente sorveglianza e controllo sociale. La società nel film ha difatti adottato un sistema di valori estremamente rigido, dove ogni forma di linguaggio o comportamento considerato offensivo è severamente punita. Il rimando agli attuali dibattiti sulla libertà di espressione, il politically correct e la cancel culture è presto fatto.

Nel film si immagina una società futura dove la violenza viene totalmente eliminata, a costo di una forte repressione della libertà personale; il tutto induce ad una riflessione attualissima su quanto si è disposti a sacrificare in nome della “sicurezza”.

Mentre la società futuristica ha eliminato dunque la violenza fisica, il film si chiede se sia possibile veramente estirpare comportamenti violenti dalla natura umana.

Demolition Man presenta peraltro diverse tecnologie futuristiche, come i veicoli a guida autonoma e la realtà virtuale invitando a considerare le conseguenze di una crescente dipendenza dalla tecnologia e il potere che essa detiene sulle nostre vite.

Un film da riscoprire.




Accordi USA-Russia?

Sul ruolo internazionale della Federazione Russa e in particolare sulla questione del conflitto russo-ucraino, con il protrarsi indefinito dello scontro, circola sempre di più il sospetto che dietro tale guerra vi siano da parte orientale propositi poco chiari e comunque diversi da quelli dichiarati. Tesi che sembra essere particolarmente accreditata presso coloro hanno in antipatia tanto la Federazione Russa quanto il blocco atlantico, sarebbe quella secondo cui esisterebbe una sorta di accordo segreto - o perlomeno una sorta di tacita volontà comune - dei due fronti per affossare l'Unione Europea, che sarebbe l'autentico obbiettivo dell'operazione in corso.

A parer nostro il protrarsi del conflitto avrebbe come unica ragione la volontà della Federazione Russa di non dare alcun pretesto alla Nato per entrare dichiaratamente in guerra, ponderando e dosando attentamente ogni azione militare affinché una eventuale escalation non possa esserle attribuita come diretta responsabilità, cosa che fino ad adesso le è riuscita piuttosto bene anche in virtù dell'enorme patrimonio di risorse umane e materiali di cui dispone, il quale le permette di ben sopportare una guerra di posizione che sta dissanguando la controparte.

A prescindere dalle simpatie o meno che si hanno nei confrondi della leadership russa, di cui abbiamo un'opinione piuttosto distaccata e realistica, e a prescindere dall'innegabile valore del sacrificio del popolo ucraino, mandato al macello per una causa che solo pretestuosamente è la loro, ma che altro non è che parte dell'ultima battaglia del globalismo morente, c'è da dire che l'idea di un'alleanza Nato-Cremlino appare quanto mai poco credibile, in virtù del fatto che la Federazione Russa avrebbe invece un enorme vantaggio da una integrazione dell'Europa in chiave euroasiatica - ossia multipolare - piuttosto che dalla sua demolizione controllata, su modello delle relazioni internazionali che attualmente sta strutturando con i paesi non allineati o ostili. D'altra parte, l'impero anglosassone, da quasi un secolo, ha sempre coltivato palesemente l'interesse per un'Europa suddita e colonizzata da dissanguare, sfruttare e controllare secondo le proprie esigenze del momento, in virtù di una velleità d'egemonia programmatica e mai smentita.

Per questo, lo ripetiamo, al di là dei gusti personali, ciò che sarebbe utile chiedersi prima di schierarsi a favore di una parte - o di condannarle entrambe - è quale modello di equilibrio internazionale e quale architettura di potere garantirebbero meglio, prima ancora di qualsiasi discorso di natura ideologica, gli autentici interessi europei, o perlomeno l'esistenza autonoma e neutrale delle entità politiche che compongono l'Europa.




Kultur e Zivilisation

L'idea di nazione è agli antipodi dell'idea di popolo. In una nazione a definire l'identità è un confine e un riconoscimento di natura legale e burocratica. È infatti possibile discutere i requisiti di nazionalità e modificarne le condizioni legali con un atto politico arbitrario. L'appartenenza a un popolo, al contrario, non può essere definita convenzionalmente, ma è una condizione antropologica primaria, costituita organicamente dalla condivisione di una lingua e una cultura, una storia, un retaggio etnico e geografico, l'intuizione e il presagio di un destino comune.

In un popolo si può essere accolti, certo, ma se non vi si appartiene per nascita o adozione - con tutto ciò che comporta quest'ultimo termine - si sarà sempre un ospite. Differentemente, la nazionalità può essere acquisita a condizioni contingenti che di volta in volta possono variare a seconda del governo e del periodo storico.

Si tratta dell'eterno dilemma metapolitico tra Kultur e Zivilisation, che chi si considera nazionalista e critica il convenzionalismo sociale dimostra di non aver compreso. Nessun pensiero autenticamente identitario può definirsi nazionalista, perchè l'identità autentica non risiede in un accordo siglato in nome del patto sociale, ma nelle profonde regioni dello spirito che si fa comunità di sangue, radici e intenzione.




La nascita della trilogia di Sergio Leone

Esattamente sessant’anni fa fu presentato “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone.

Ambientato in Messico ma realizzato in Spagna ed interpretato da un divo di telefilm western americani completamente sconosciuto in Italia (Clint Eastwood) e da attori nostrani sotto pseudonimi (l’immenso Gian Maria Volonté venne battezzato John Wells) il film di Leone non piacque all’inizio ai critici e uscì senza clamori pubblicitari.

Eppure il film in questione apparve fin dall’inizio come un punto di rottura all’interno del panorama cinematografico.

Fu il pubblico a tributare il giusto successo ad una pellicola entrata prepotentemente nell’immaginario comune.

Un’autentica sorpresa, un prodotto “outsider” della settima arte.

Il successo del film fu strepitoso e fu determinato da semplici fattori: marcato realismo, azione allo stato puro, una violenza aspra e selvaggia.

E poi c'era l’eroe, un eroe con nuove caratteristiche. L’iconico Clint Eastwood che non era il classico eroe “senza macchia e senza paura” ma un misterioso pistolero che compare dal nulla e nel nulla sparisce.

Quasi capitato per caso in un ambiente polveroso ai confini del mondo.

Un eroe fatto della stessa pasta dei suoi avversari.

“Il western era ormai arrivato alla fine degli anni ‘50 ad un tal punto di romanticismo che aveva perso la sua autentica fisionomia”.

Così disse Leone nel commentare il suo capolavoro ed in effetti “Per un pugno di dollari” rappresentò una novità assoluta decodificando gli stilemi di un genere che aveva ormai esaurito la sua spinta propulsiva.

Il western fu per il regista romano, solo il veicolo per mettere in mostra il suo talento e raccontare delle fiabe crude.

Tra primi piani spinti, poche parole, scarsi dialoghi e occhiate furtive prese forma un classico che non tramonta mai e che diede vita ad un genere, il cosiddetto spaghetti western, che ancora oggi viene venerato e studiato in tutto il mondo.

Il resto lo fece la colonna sonora immortale del maestro Morricone, vecchio compagno di scuola a Trastevere dello stesso Leone.

Morricone inventa un nuovo stile e diventa lui stesso insieme alle sue note, presenza fissa e inscindibile della storia cinematografica dello stesso Sergio.

Un connubio di immagini e musiche che si staglia eterno e irraggiungibile sulle vette del cinema mondiale.




Feticismo tecnologico

Il termine "pornografia" comunemente indica il genere di intrattenimento che esibisce atti sessuali di vario genere allo scopo di eccitare eroticamente il fruitore. L'aggettivo "pornografico" viene poi utilizzato per indicare, metaforicamente, l'esposizione di qualcosa che viene considerato osceno, deplorevole, sporco, qualcosa che non dovrebbe essere mostrato per non scandalizzare.

Sorprenderà molti sapere che l'etimologia del termine si ricollega al greco antico, ossia ai termini πόρνη (pòrne), che significa prostituta, e γραφή (graphè), che vuol dire disegno, scritto, documento. Etimologicamente, dunque, pornografia significa scrivere riguardo a prostitute o rappresentare prostitute. L'aspetto di commercio dell'atto sessuale è originariamente centrale nell'etimo di pornografia, aspetto perlopiù non considerato visto che oggi l'accento è posto sul genere di contenuto piuttosto che sull'aspetto mercantile.

È significativo osservare come solo nell'età del mercato globale la pornografia sia potuta divenire genere di consumo di massa. Essa è infatti una forma di intrattenimento particolarmente congeniale alla società e all'uomo contemporaneo sotto più aspetti. Innanzitutto è funzionale alla riduzione dell'essere umano alla pura dimensione istintiva e animale. L'atto sessuale vi è rappresentato come pura fisiologia e visto come semplice appagamento libidico, astraendo la sessualità da ogni contesto semantico che rimandi a una sua dimensione non puramente orizzontale e istantanea.

Inoltre è presente una chiara componente regressiva e perversa che incoraggia a forme di sessualità sempre meno umane e più bestiali, o addirittura artificiali e meccaniche. Si nota nel tempo un progressivo alzare dell'asticella della sensibilità e del gusto in direzione di pratiche sessuali che fino a poco tempo fa erano considerate patologiche e devianti. Circola inoltre oggi una sinistra tendenza alla libido per l'inanimato, sia esso l'oggetto, l'animazione a tema pornografico o lo spazio virtuale gestito dall'IA. La pornografia, insomma, si apre al postumano, in una sorta di feticismo tecnologico che probabilmente sarà la forma di sessualità più congeniale al postmoderno terminale. 

Inutile poi soffermarsi sul fatto che la prostituzione, cuore del concetto di pornografia, sia oggi più che mai il motore sociale per eccellenza: nella società del capitale e dei consumi, tutto e tutti hanno un prezzo, al punto che, paradossalmente, se la pornografia è ritrarre chi si prostituisce, allora qualsiasi rappresentazione di un mondo che ha come solo e unico fondamento il mercato può essere definita pornografica.

Suggeriamo dunque che la pornografia, fuori di qualsiasi considerazione morale, potrebbe essere accolta come una efficace chiave interpretativa sociale e antropologica dell'occidente terminale.




Amore e morte

Amore e morte, Eros e Thanatos, sono due archetipi che universalmente sono considerati indissolubili, due aspetti complementari della radice di ciò che consideriamo esistenza. Senza entrare nel merito degli aspetti metafisici, simbolici, culturali di tale connubio, possiamo dire che da sempre l'uomo considera morte e amore le più fondamentali esperienze di trascendenza possibili, ossia di oltrepassamento dell'individualità limitata e di ingresso in una dimensione altra e preclusa alla coscienza ordinaria. Due forme affini e integrative di esperienza del sacro, insomma. Nella nostra epoca amore e morte sono presenti nella tipica forma parodistica della postmodernità. Innanzitutto come spettacolo, ossia come immagine di cui ci si nutre in quanto oggetto insignificante di consumo. Secondariamente come simulacro narrativo, ossia come racconto di realtà inesistenti, che però interagiscono con la realtà concreta e diurna influenzando in maniera palese gusti ed opinioni. Infine nel processo di inversione e capovolgimento, che nel caso specifico significa trasformare due possibilità di autotrascendimento in esperienze che incatenano e condannano all'immanenza e alla bassezza. Non serve ricordare a cosa siano ridotti l'amore e la morte nella narrazione mediatica popolare, che poi è quella che esprime al meglio la maieutica del potere. Interminabili sequele di cronache di insignificanti storielle da rotocalco che hanno la controparte in morbose narrazioni di morti violente o fatali, spettacolarizzate ad uso e consumo degli appetiti del tipico spettatore televisivo, anestetizzato e insensibile a qualsiasi stimolo che non sia puramente genitale o viscerale. Per non parlare del modo in cui l'intrattenimento pseudo-artistico (musica, cinema, letteratura), nelle sue espressioni indirizzate ai consumi di massa, prende ad oggetto tali temi in forme stereotipate, meschine e palesemente caricaturali. Difficile non intravvedere in tali manifestazioni una sorta di volontà eterodiretta, per quanto occulta e subcosciente, tendente a svuotare e banalizzare nell'immaginario comune due tra le più importanti vie che conducono l'uomo oltre se stesso, in direzione delle sue possibilità più alte e nobili.




Purchè non sia in Occidente..

Se è vero che la morte è il grande rimosso del nostro tempo, lo è sempre in quanto ci riguarda direttamente, come nostra morte o morte della nostra civiltà. In realtà la pseudo-cultura contemporanea è profondamente tanatofila. Siamo ossessionati dalla morte e dal sangue, ma a due condizioni: che riguardino sempre l'altro (un altro uomo, un'altra civiltà) e che la morte o il fatto di sangue vengano esposti come già accaduti e distanti (mai come agonia o sofferenza qui e ora, e sempre mediati da una foto, un filmato o un racconto). La morte deve essere altrove, non ci deve riguardare, non dobbiamo sentirne l'odore o l'incombenza: allora essa è morbosamente attraente, uno spettacolo che vale la pena di essere visto e gustato. In tutto ciò si consuma un enorme esorcismo collettivo delle coscienze, un cerimoniale catartico che ha lo scopo di allontanare l'idea della nostra morte relegandola alla dimensione di una possibilità esaurita che non ci riguarda mai, che si rinnova continuamente solo per scagliare o scaricare ansia e paura in direzione di un altro soggetto o di un altro luogo, il più remoto e lontano da noi possibile. La mancanza di empatia nei confronti della morte altrui, dovuta alla sua reiterata esposizione mediatica e narrativa, tuttavia, è un formidabile strumento di legittimazione della violenza politica. Il potere può uccidere, purché eserciti tale potere altrove, in luoghi che non ci riguardano, su persone in cui non possiamo immedesimarci. In tal caso la guerra, l'omicidio collettivo per eccellenza, diventa un tremendo e fascinoso spettacolo che ci viene dato in pasto già digerito da media e informazione, e che non fa paura, ma anzi, di cui chiediamo dosi sempre maggiori per ovviarne l'inevitabile assuefazione. Incapaci di morire, ma assetati della morte altrui, legittimiamo annoiati il grande spettacolo delle nazioni assassine, lasciando i signori della guerra indisturbati nella loro opera di sterminio. Purchè non sia in Occidente, si intende, altrimenti il sangue di un uomo ha ben altro sapore.



Educare alla morte

Il terrore pandemico e il terrore nucleare sono due volti della stessa paura, due strumenti nella mano della medesima volontà tirannica. Entrambi rappresentano nell'immaginario collettivo la minaccia invisibile, che non si può afferrare e perciò trattenere. Sono il male a cui non è possibile sottrarsi, che sempre incombe e che una volta scatenato non può essere arrestato.

Il loro successo come strumento di ricatto e oppressione politica sta proprio nel mettere l'uomo Occidentale di fronte al suo più grande rimosso: la morte. Sia essa quella individuale o quella della propria civiltà, la morte è la possibilità impossibile comunemente espulsa dall'ambito della coscienza vigile, evocata dal potere appositamente perchè di fronte a tale prospettiva l'uomo contemporaneo risulta totalmente inerme e indifeso, pronto a qualsiasi cedimento pur di sottrarvisi.

Esiste tuttavia un antidoto a tale terrore sempre attuale ed efficace. Una sana educazione alla morte e alla sua dignitosa e nobile sopportazione, come incombenza inevitabile e senso ultimo dell'esistenza. L'idea, da coltivare e vivere, è che la morte sia la fondamentale e autentica esperienza di trascendenza dell'uomo, e che di fronte al confronto costante ed anticipante del morire l'Altro e l'Altrove siano sempre presenti nelle nostre vite, spingendoci oltre le nostre possibilità terrestri, rendendo disponibili risorse e arsenali non solo umani e individuali.

L'educazione alla morte è oggi un atto politico rivoluzionario. Di fronte a un uomo che non teme la morte, nessuna potenza del mondo è efficace.




Elémire Zolla e lo stupore infantile

Elémire Zolla, filosofo e scrittore italiano, è stato un autore di grande spessore.

Sempre critico verso la superficialità e il materialismo della società a lui contemporanea, fu esploratore delle profondità delle esperienze umane e della capacità di meravigliarsi di fronte al mondo.

La sua visione della vita andava oltre il mero utilitarismo, vedeva l’esistenza come un viaggio di scoperta e di contemplazione.

Zolla enfatizzava l'importanza dell'introspezione e della connessione con il mistero dell'esistenza, incoraggiava a riscoprire valori autentici e a vivere in armonia con la natura e con se stessi.

Lo stato di primordiale di stupore per il mondo lo identificava in una fase della prima infanzia.

Nel testo "lo stupore infantile", si riferisce proprio a questo, ad una condizione di meraviglia che caratterizza l'esperienza dei bambini. Questa forma di stupore rappresenta una capacità di percepire il mondo con limpidezza e curiosità, senza pregiudizi o schemi predefiniti.

Zolla sostiene che i bambini vivono in uno stato di continua scoperta, trovando bellezza e significato in ciò che li circonda.

Questo stupore è spesso perduto negli adulti, che tendono a razionalizzare e a dare per scontato ciò di cui fanno quotidiana esperienza.

Tornare ad esso significa accedere alla «conoscenza senza dualità», a una «filosofia spinta al di là delle parole».

Riscoprire e valorizzare questo stupore, per tornare ad una vita più autentica, favorendo una maggiore comprensione di sé e del mondo.

 



Federico Faggin, tra Scienza e Spiritualità

Federico Faggin è un uomo di scienza, ma quella vera, sincera, onesta, non quella dogmatica e ottusa.

Faggin nei testi “Irriducibile” e “Oltre l’invisibile”, di cui consigliamo la lettura, non arriva a conclusioni definitive, ma accetta il mistero, ha sete di ricerca della Verità e ha grandi intuizioni.

Per il fisico italiano vi è interconnessione tra mente e materia, la realtà non sarebbe solo un insieme di oggetti fisici, ma includerebbe anche dimensioni soggettive e spirituali. Egli è convinto che la coscienza umana non si possa ridurre a processi neurologici, ha invece un ruolo attivo nella creazione della realtà.

Il suo approccio è quello di chi tenta di trascendere la mera materialità, cercando di esplorare le dimensioni più profonde dell'esperienza umana attraverso una visione olistica che integra scienza, filosofia e spiritualità.

Il suo pensiero ricorda per certi versi quello di Werner Heisenberg, soprattutto in relazione alla natura della realtà e al ruolo della coscienza nella scienza.

Heisenberg, noto per il principio di indeterminazione, suggerì che l'osservazione influisce sul comportamento delle particelle subatomiche. Faggin crede che la coscienza non sia solo un prodotto del cervello, ma può influenzare la realtà, portando a una visione simile dell'interazione tra osservatore e osservato.

In generale entrambi hanno messo in discussione la visione materialista della scienza e l’idea che la fisica possa spiegare completamente la realtà, opponendosi così ad una visione riduzionista.

Faggin può essere annoverato, come lo fu Heisenberg, tra la schiera di quegli scienziati capaci di esplorare la complessità del reale oltre le spiegazioni puramente materialiste e meccanicistiche.




"I Buddenbrook" di Thomas Mann

 "I Buddenbrook" è un romanzo di Thomas Mann pubblicato nel 1901.

È il racconto della decadenza di una famiglia borghese tedesca nel corso di diverse generazioni.

Mann analizzò come i valori e le aspirazioni della classe borghese stessero cambiando nel tempo riflettendo sull'evoluzione della società tedesca alla fine del XIX secolo con i suoi cambiamenti economici, sociali e culturali.

Mann osservò come la modernizzazione e l'industrializzazione avessero trasformato la società, contribuendo a un aumento del materialismo.

Per l’autore tedesco il materialismo avrebbe condotto alla decadenza culturale e alla perdita di significato nella vita.

Ne "I Buddenbrook" Mann illustrò proprio come l'aspirazione al mero successo materiale e al benessere economico potessero portare a una crisi di valori e alla perdita di identità.

È un opera che offrì una profonda riflessione sulla condizione umana e sulle trasformazioni della società dell’epoca. I personaggi del libro affrontavano difatti le loro inclinazioni e le pressioni familiari, interrogandosi su quale fosse il vero scopo dell’esistenza non trovando un equilibrio tra la ricerca della bellezza e le esigenze della vita quotidiana della società in cui vivevano. 

Mann si interrogò sul progresso ed i suoi eventuali benefici e pensò che vi fosse la necessità di un ritorno ad vita più autentica che trascendesse il materialismo attraverso l'arte, la bellezza e la spiritualità, visti come antidoti al consumismo e al materialismo dilagante.

A più di cento anni dall’uscita del libro, considerando questi nostri tempi, possiamo dire che le preoccupazioni di Mann erano assolutamente fondate.




La moda del "Ghosting"

Tra le nuove generazioni, ma non solo, è diventato un vanto il cosiddetto "ghosting". "L'ho ghostato!" affermano fieri i ragazzi quando spariscono.

Di cosa si tratta sostanzialmente? Di interrompere improvvisamente le relazioni con qualcuno, amico o partner che sia, da un momento all'altro, all'improvviso, senza spiegazioni. È un fenomeno molto indicativo dei nostri tempi.

Questo comportamento disinvolto e indifferente nei confronti del prossimo è preoccupante. Ormai in tanti considerano le relazioni in modo talmente superficiale da non sentire più alcuna necessità di avere empatia verso le persone con cui si interagisce. Inoltre questo atteggiamento è diventato anche un modo per mostrarsi meno vulnerabili e più "duri". In realtà dietro tutto ciò si nascondono insicurezze e immaturità emotiva. Vi è l'incapacità di affrontare i propri sentimenti o quelli dell'altra persona e si sceglie così di allontanarsi piuttosto che affrontare una conversazione difficile. Si teme il confronto e, per evitare conflitti, si sceglie di scomparire piuttosto che spiegare perché si vuole interrompere la relazione. Le conversazioni digitali ovviamente aiutano in tal senso, nel contesto delle relazioni online difatti questo "ghosting" è diventato frequente anche perché è più facile interrompere le comunicazioni senza dover affrontare l'altra persona di persona.

Riteniamo questo fenomeno disgustoso ed inumano e il fatto che sia addirittura diventato "di moda" è indegno per un essere umano che vuol ancora definirsi tale. Bisogna insegnare alle nuove generazioni ad affrontare sempre le situazioni, a guardare negli occhi il prossimo, ad essere dignitosi e limpidi. Chiarire, chiarire sempre, esprimersi e confrontarsi, dirsi chiaramente il perché non si ritiene utile proseguire un rapporto. 

"Ghostare", ovvero fuggire immaturamente come dei ladri, non è da furbi o da forti, ma solamente da persone vigliacche, incapaci di affrontare la vita.




TIK TOK

Anni fa nacque Tik Tok, un nuovo social network che in pochi anni quasi soppiantò tutti gli altri.

Inizialmente tale fenomeno venne minimizzato, si diceva fosse solo uno strumento passeggero per ragazzini, nel tempo però ha raggiunto una incredibile quantità di pubblico di ogni età.

Con Tik Tok i social network sono diventati ancora più deleteri, si tratta difatti di uno strumento dove è possibile creare brevissimi video con un meccanismo tale per cui l'utente medio passa la propria giornata a "scrollare" su e giù tra milioni di video di ogni genere, ingurgitando continuamente qualsiasi tipo di contenuto senza fermarsi a riflettere su nulla.

Questo dito perennemente in cerca di uno stimolo nuovo, nessuno spazio per il ragionamento, tutto deve essere diretto, cinico e veloce perché si deve poi subito passare al contenuto successivo.

Qui non è questione delle solite etichette come "boomer" per banalizzare la questione, fermiamoci un attimo e osserviamo questo social network frequentatissimo, in primis dai giovani. È un luogo oggettivamente mostruoso, dove le masse si riprendono continuamente mentre canticchiano, ballano, fanno smorfie in un tripudio di ego, smarrimento e banalità.

Qualcuno potrà obiettare che bisogna usare anche questi strumenti e le loro modalità per comunicare con le nuove generazioni, va bene, però davvero stiamo raschiando il fondo del barile.  Il vecchio Facebook in confronto è un luogo di elevata cultura filosofica.

Una insegnante ci ha scritto:

<< Da insegnante vi dirò forse una cosa ovvia: i ragazzi sono diventati dipendenti da tiktok anche nel campo della cultura. Una spiegazione più lunga di 3 minuti, o magari lasciata a metà per stimolarli a concludere da soli, ragionando sul problema, li manda nel pallone facendoli perfino innervosire. Devi spiegare tutto per filo e per segno dal principio alla fine in un tempo compatibile con la loro micro capacità di attenzione. E occorre trovare sempre nuovi modi per “stimolarli” perché se si annoiano spengono il cervello e iniziano a scrollare video, di nascosto sotto il banco. Sono consapevole di avere una enorme occasione per provare a salvarli da questo baratro in cui rischiano di precipitare, ma ammetto che spesso mi scoraggio. >>

Riflettiamo.



La ricerca di Ingmar Bergman

 

Tra i Maestri della settima arte, uno dei più profondi è stato certamente lo svedese Ingmar Bergman.

Alcuni lo definirono il regista più cattolico tra i laici ed il più laico tra i cattolici forse perché riuscì, guardando attraverso la macchina da presa, l’essenza ma anche l’assenza di Dio parlando sia dei suoi effetti ma anche del suo silenzio. Forse perché figlio di un severo pastore protestante, esplicò nella sua ricerca, figlia di un’infelicità adolescenziale, la radice della sua “nevrosi” metafisica, religiosa ed esistenziale. Il suo cinema, i suoi numerosi film restano fondamentalmente una ricerca di amore, una ricerca di una risposta.

Cinquant’anni di cinema e teatro testimoniano la sua agognata impresa artistica che sembra dipanarsi sotto l’ala protettiva e formatrice di Strindberg e Kierkegaard. Con questi numi tutelari probabilmente inconsapevoli, il regista svedese pone a sé e a tutti le domande filosofiche più ataviche e difficili che attanagliano dell’uomo moderno.

La sua poetica inizia fin dagli anni ’40 del secolo scorso con “Crisi” e termina nel 1983 con “Fanny e Alexsander”. Due film che pongono la questione del conflitto (interno o generazionale) come tema centrale. In mezzo a questa distanza temporale, una miriade di capolavori assoluti che mostrano i problemi su cui occorre riflettere e da cui è difficile trovare una via di fuga o tantomeno una risposta. Dalla relatività dell’amore (“Monica e il desiderio”, “Sorrisi di una notte d’estate”, “A proposito di tutte queste signore”) a tutti gli altri temi affrontati in una lunga carriera.

Gli elementi chiave del cinema di Bergman sono pochi ma basilari: la fotografia, la recitazione, i colori, l’uso superbo del bianco e nero e la complicità degli attori straordinari di cui si è avvalso durante la sua carriera.

Del suo cinema che vinse ogni cosa possibile (Oscar, Leoni vari, Orsi e Palme…) sono spesso protagoniste le donne. Ingrid Thulin, Liv Ulman, Bibi Anderson sono muse diafane e appartenenti al mondo onirico. Quello dell’impalpabile. Donne in attesa, donne innamorate, donne irrisolte e scontente, riflesso di una complicata vita sentimentale.

Misantropo ed isolato come tutti i maggiori e migliori autori intellettuali di quest’epoca, Bergman riuscì ad esplorare appunto l’inconscio ed il subconscio, il tempo e le sue stagioni. Capace di analizzare le emozioni più sottili, inquadrando “l’interiorità” del personaggio che filma. Usando la macchina da presa come uno scienziato usa il microscopio, Bergman a pieno diritto si può definire come uno scienziato dell’anima o come il pastore del dubbio esistenziale. Circoscrivendo o ampliando il senso del tempo. Quello misero e piccolo dell’uomo o quello enorme ed inesplicabile del divino.

Vasta la sua cinematografia, tra i tanti consigliamo “Il posto delle fragole”, “Il settimo sigillo”, “Persona”, “Come in uno specchio”, “Sussurri e grida”, “La fontana della vergine”, “Luci di inverno”, “Il silenzio”.

Per ognuno di questi film si potrebbero scrivere dei tomi.

Bergman, colui il quale ha saputo scavare a fondo nell’animo umano attraverso la settima arte. Pochi autori hanno saputo penetrare come lui nel magma delle pulsioni umane.

Un autore che riuscì a rivelare l’essenza pulsante, cruda e nuda dell’uomo spoglio di ogni orpello. Illuminando anche le ombre e portando alla luce ogni sentimento, ogni luce ed ogni miseria.

Un gigante.


                                                 OC

Figli, pane e compromessi

Il non fare figli o il farli sempre più tardi non è solo una questione culturale, di immaturità, di menefreghismo. È anche una questione sociale e economica molto concreta.

Nei paesi cosiddetti molto sviluppati fare figli sembra diventato un privilegio.

Fa figli tendenzialmente chi può permetterselo e garantire alla prole il meglio.

Il limite è poi indicare come soluzioni aiuti dallo stato per colmare la disuguaglianza che si è creata. È cercare una soluzione dentro la stessa cornice che ha reso la famiglia un privilegio.

Anche chi vorrebbe tutelare la vita e la famiglia come valori spesso presenta modelli di famiglia "borghesi" dove brave persone con buoni titoli di studio, buona posizione sociale, fanno più figli a cui possono garantire scuole paritarie, corsi extra, le migliori università così che possano ripetere il percorso dei genitori.

Il buon padre porta i soldi a casa. Si accetta la società e il mondo del lavoro così come sono, disumani e competitivi perché "la famiglia va mantenuta", quindi non si deve dare fastidio a nessuno per non rovinare la carriera.

Le persone perbene studiano e accumulano titoli, non mettono in discussione gli indottrinamenti, che non sono solo il gender, ma per esempio anche l'economia e lo scientismo.

Si studia e si fa il lavoro che conviene, non si seguono vocazioni strane, come la mantieni una famiglia poi?

Ci sono molti giovani che osservano questo e lo trovano tremendamente falso. Sentono di essere cresciuti a pane e compromessi. Di essere stati schiavi del dogma "studia, trovati un lavoro, muori di quel lavoro".

E non sono giovani menefreghisti, che non vogliono fare famiglia o non si vogliono impegnare. Non vogliono essere schiavi del "produci, consuma, crepa". Dove anche gli esseri umani sono merce e i figli una prestazione da mettere in mostra.

È ora di mettere in discussione le fondamenta di questa società. Di parlare di tornare ad una società in cui è la fisiologia a dettare il passo e non il profitto.

In cui tornare ad una prossimità umana e ad una dimensione di comunione.