Il Problema (contro il quale unirsi)

Tenerli sotto controllo non era difficile. Perfino quando in mezzo a loro serpeggiava il malcontento (il che, talvolta, pure accadeva), questo scontento non aveva sbocchi perché privi com’erano di una visione generale dei fatti, finivano per convogliarlo su rivendicazioni assolutamente secondarie. Non riuscivano mai ad avere consapevolezza dei problemi più grandi. George Orwell, 1984

Il neoliberismo, che è la base economica del moderno capitalismo assoluto (speculativo-finanziario), va necessariamente compreso per inquadrare le attuali dinamiche socio-politico-economiche e poiché è la scaturigine del cosiddetto Pensiero Unico (che sostiene, precipuamente, il primato dell'economia sulla politica).

In parole povere si tratta della dottrina economica (cui corrisponde, ovviamente, un'inscindibile ideologia politica) all'origine di tutti i nostri problemi e, semplificando, altro non è che la coronazione di un progetto di restaurazione del potere da parte della "classe dominante" risalente già agli anni trenta del novecento (fondamentale il colloquio Walter Lippmann) ma iniziato ad attuarsi negli anni settanta (dal memorandum di Powell); è la reazione delle élite che tanto avevano perso in termini di potere e di ricchezza nell'età contemporanea e soprattutto nei trenta gloriosi successivi al secondo dopoguerra quando le costituzioni "socialiste" - avversate recentemente da JP Morgan - associate alle politiche economiche keynesiane avevano portato benessere ai popoli e forza alle democrazie (tanto che nello studio Crisi della Democrazia del 1975 commissionato dalla Trilaterale - della quale fecero poi parte Draghi, Prodi, Monti, Letta - si parlava della necessità di apatia e spoliticizzazione delle masse e di indebolimento del sindacato a causa di un pericoloso "eccesso di democrazia" da risolvere anche con l'introduzione di tecnocrazie).

Quindi, partendo dalle teorie di Von Hayek e con la Scuola di Chicago di Friedman, andò imponendosi in campo accademico questo nuovo pensiero (grazie, tra le tante, alla influente Mount Pelerin Society fondata già nel 1947 da Hayek con l'intento di aggregare varie personalità del mondo intellettuale al fine di ridiscutere la teoria classica di Adam Smith). Essi contestarono il compromesso keynesiano del liberismo espansivo con intervento statale (l'embedded liberalism della piena occupazione e della redistribuzione della ricchezza) e suggerirono di passare alla deregulation, a politiche di tagli alla spesa sociale, alle privatizzazioni (degli utili e socializzazione delle perdite), alla finanziarizzazione dell'economia, al monetarismo, all'austerità, alla deificazione del Mercato e quindi alla definitiva sottomissione dello Stato e della Politica agli interessi economici dei potentati privati. Il tutto andò in porto grazie alla diffusione a reti unificate del nuovo credo tramite le "categorie previane" del circo mediatico, del clero giornalistico e accademico ("colonizzato") e del ceto intellettuale (che, con la sintassi di Bourdieu, è da sempre il gruppo dominato della classe dominante).

La manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini e delle opinioni della massa è un elemento importante nella società democratica. I regolatori occulti di questo meccanismo sociale costituiscono un governo invisibile che è il vero governo del nostro paese. Uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare ci governano, modellano la nostra mente, formano il nostro gusto, suggeriscono le nostre idee. Edward Bernays, Propaganda

Si partì dal "test pilota" dopo il golpe di Pinochet in Cile del '73, poi, nei primi '80, coi governi occidentali di Thatcher, Regan, Mitterrand e Kohl, quindi con la diffusa imposizione del Washington Consensus (da parte del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale) ai paesi del Terzo Mondo in crisi, per arrivare (passando, in Italia, per il divorzio Tesoro-Banca d'Italia) ai capolavori degli arbitrari parametri di Maastricht (fulcro dell'ordoliberismo) e della moneta "unica" europea a cambio fisso con banca centrale indipendente (e, sostanzialmente, privata). Fin da allora la distribuzione di ricchezza ebbe un'inversione di tendenza e andò concentrandosi sempre più nelle mani di quella che è di fatto un'oligarchia finanziaria che non fa che portare avanti programmi a proprio vantaggio e a detrimento dei popoli (vedasi dati oggettivi sulla sperequazione crescente).

Ciò che si è riassunto in poche righe va contestualizzato all'epoca ed è "solo" la lotta di classe dopo la lotta di classe (Gallino) ovvero la ribellione delle élite (Lash); è l'operato di un gruppo, dell'1%, che fa i propri interessi a spese di un altro, quello del 99% (come è lecito, pur se non etico). Il problema è stata la mancata risposta delle "classi subalterne" e dei loro rappresentanti (politici e sindacali) che non hanno saputo interpretare e comprendere i fatti e tendono a non vederli o capirli tuttora (molti ingenuamente, alcuni in malafede, sia a sinistra che a destra fino all'inservibilità della storica dicotomia).

Bisogna liberarsi del "giogo del debito" e dei mantra che abbiamo introiettato: quelli del there is no alternative (Thatcher), dell'ineluttabile fine della storia (Fukuyama) e del "abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità"; in realtà tutto è frutto di scelte politiche ed economiche deliberate e pianificate, il sistema socio-economico nel quale viviamo non è un fatto naturale e irriformabile e, in quanto tale, non è necessario subirlo, basta pensare e agire altrimenti (poiché, parafrasando Einstein, non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l'ha generato). Purtroppo però le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti (Marx).

Per giungere a un cambiamento è necessario arrivare a una "massa critica" di persone consapevoli che comprendano che è in atto una "guerra soft" (la mai estinta contrapposizione hegeliana servo-signore), che non cedano al sempiterno divide et impera e si compattino riconoscendo il nemico (nell'accezione politica schmittiana del termine) da combattere (che personalmente ho identificato, appunto, nel neoliberismo e nelle sue ricadute politiche e sociali).

Il governo dei manganelli e dei plotoni di esecuzione, della carestia artificiale, dell'imprigionamento in massa e della deportazione di massa, non solo è inumano, ma è palesemente inefficiente, e in un'epoca di tecnologia avanzata l'inefficienza è un peccato mortale. Uno Stato totalitario davvero efficiente sarebbe quello in cui l'onnipotente potere esecutivo dei capi politici e il loro corpo manageriale controllano una popolazione di schiavi che non devono essere costretti ad esserlo con la forza perché amano la loro schiavitù. Aldous Huxley, Il Mondo Nuovo

Dall'iniquo sistema economico vigente scaturisce l'onnipervasivo e catechizzante Pensiero Unico nel quale si innervano tutte le esiziali logiche sociali hobbesiane della competizione (bellum omnium contra omnes, homo homini lupus, mors tua vita mea), del do ut des mercatista, del narcisismo individualista, dell'egoismo, dell'edonismo, del consumismo e della spietatezza di cui è malata la nostra società nichilistica egocentrata; le suddette nefaste logiche fanno di noi degli "schiavi perfetti" poiché intessono quel velo di Maya (Schopenhauer) che ci rende incapaci di vedere le nostre pastoie e, quindi, impossibilitati a liberarcene.

All'interno di quel coagulo di interessi economici e di valori culturali e morali (il blocco storico di gramsciana memoria) appare chiaro come il pensiero economico egemone abbia influito cambiando la società che, come propugnava la Thatcher, davvero non esiste più, esistono solo gli individui: non più una comunità di animali sociali (Aristotele) ma una massa di homines oeconomici, di "imprenditori di sé", di monadi senza finestre (Leibniz), la cosiddetta modernità liquida (Bauman) dell'insocievole socievolezza (Kant); prodromici furono i movimenti sessantottini e successivamente, grazie al neoliberismo (e alla sua sovrastruttura: il politicamente corretto) l'attenzione è stata sempre più focalizzata sui sacrosanti ma "cosmetici" diritti individuali civili a spese, però, di quelli collettivi sociali.

Perciò, dunque, occorre una rivoluzione culturale che può partire solo da chi ha una propria coscienza infelice (Hegel) rifuggendo dalla crematistica e ritornando all'equilibrio e quindi ai concetti di misura e limite come ci insegnano gli antichi greci (è indispensabile rimettere contestualmente al centro l'Uomo e l'economia reale e, quindi, attuare la Costituzione del 1948).

Rimane un unico ostacolo che Platone conosceva fin da 2400 anni fa: l'eventuale "liberatore" verrà dapprima deriso e finanche ammazzato da quelli in "catene"; è davvero eloquente e attuale il mito della caverna in cui Platone descrive come una realtà mediata e manipolata venga invece percepita come "verità" dagli sventurati protagonisti che, poiché nati in cattività, non possono immaginare un'esteriorità rispetto all'antro nel quale sono imprigionati e quindi, non sapendosi schiavi ingannati, tantomeno ambire alla libertà.

Le folle non hanno mai avuto sete di verità. Dinanzi alle evidenze che a loro dispiacciono, si voltano da un'altra parte, preferendo deificare l'errore, se questo le seduce. Chi sa illuderle, può facilmente diventare loro padrone, chi tenta di disilluderle è sempre loro vittima. 

Gustave Le Bon, Psicologia delle folle

Integrazione, 15 novembre 2021

Se con la ragione neoliberale si è sostanzialmente passati dal governare la bestia selvatica (Hegel) del mercato a governare per il mercato (Foucault), negli ultimi 20 anni (soprattutto) il metodo di governo prediletto è stato quello emergenziale (terrorismo-finanza-debito-pandemia-clima): si sono sfruttate le crisi per imporre e accelerare cambiamenti – coincidenti, secondo i rapporti di forza, con gli interessi di determinati gruppi, con il rafforzamento del dominio e del controllo e con la compressione dei diritti sociali – che difficilmente, in periodi normali, sarebbero stati accettati di buon grado dalle popolazioni (la shock economy descritta dalla Klein).

L'origine di questa ennesima regressione sta sempre nel “germe” neoliberale, nella sua ultima evoluzione, nella volontà del Potere (comunque difficile da valutare “in medias res”) di superare le liberaldemocrazie per un modello globale tecnocratico-autoritaristico a controllo panottico.

Soltanto una crisi – reale o percepita – produce un vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica, le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano […] finché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile.

Milton Friedman, Capitalismo e Libertà (1962)

E.G.



Dostoevskij profeta della post-modernità - H.De Lubac

La statura di Dostoevskij si ingigantisce con il passare degli anni […].
Egli assume la figura di un profeta, e ciò non per aver predetto questo o quell’avvenimento accaduto dopo […].
Più profondamente ha per così dire prevenute certe forme nuove di pensiero e di vita interiore che per opera sua si impongono all’uomo ed entrano nel suo patrimonio […].
Un profeta, sì: perché non soltanto ha svelato all’uomo i suoi abissi, ma gliene ha anche in qualche modo aperti dei nuovi, dandogli come una nuova dimensione; perché così egli ha prefigurato, cioè annunciato, realizzandolo, un certo stato nuovo dell’umanità; perché in lui si è concentrata la crisi del nostro mondo moderno.
L’uomo che ha perso il legame ontologico con Dio, è diventato preda dei demoni (da qui il titolo del romanzo di Dostoevskij, la più completa fenomenologia dell’ateismo).
Dostoevskij è un romanziere, ma scopre che l’uomo non può organizzare la terra senza Dio; quando ci prova, non fa altro che organizzarla contro l’uomo, come si è visto soprattutto nel corso del XX secolo ma che egli ha anticipato in modo sorprendente.
In Dostoevskij troviamo una triplice tipologia dell’uomo ateo: l’uomo-dio, la “torre di Babele” e il “palazzo di cristallo”. 
  
Dostoevskij e Nietzsche a confronto

Come non essere colpiti dal giudizio simile che entrambi hanno pronunciato sul loro secolo? La stessa critica del razionalismo e dell’umanesimo occidentale; la stessa condanna dell’ideologia del progresso, la stessa insofferenza per il regno scientista e per le prospettive stoltamente idilliache che in molti lo prolungano, lo stesso sdegno per una civiltà tutta superficiale di cui essi fan saltare la vernice, lo stesso presentimento della catastrofe che ben presto la inghiottirà […].
L’uno e l’altro annunciano la rivincita degli elementi irrazionali che il mondo moderno reprime senza per altro rinunciare ad estirparli. Si sente in loro una volontà di distruzione, e il martello iconoclasta del pensatore tedesco ha un compito analogo alle immaginazioni apocalittiche del visionario russo […].
In loro due l’umanità cerca di evadere dalla prigione in cui una cultura ristretta l’ha rinchiusa […].
Nel nostro tempo, Nietzsche, maledicendolo, vede un’eredità del Vangelo, mentre Dostoevskij, che pure non maledice di meno questo tempo, vi scorge il risultato di un rinnegamento del Vangelo.
È l’ideale spirituale dell’uomo che si eleva al di sopra di ogni legge. Esso conduce inevitabilmente al delitto.
 
La Torre di Babele
 
La vicenda di Raskolnikov in Delitto e castigo è esemplare: egli uccide la vecchia usuraia persuaso di aver oltrepassato i naturali limiti dell’ umano, consegnando la sua persona, il suo essere “oltre-uomo”, a un livello puramente ideale; non a caso il pentimento subentra proprio nel momento in cui Raskolnikov recupera la dimensione dell’umano, quella della vita.
Secondo Dostoevskij l’ateismo, prima ancora di essere un’offesa a Dio, è un crimine contro la vita. L’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio per cui non tutto è lecito; non può uccidere un suo simile senza commettere un suicidio spirituale e procedere così alla propria disumanizzazione.
Questo ideale propone di far scendere i cieli sulla terra, per creare un nuovo paradiso, nato dalle mani dell’uomo; un paradiso materiale, fatto di benessere, felicità (utopia liberal-capitalista) e di uguaglianza (utopia socialista), ma dove mancherà la libertà.
Lo stesso Dostoevskij ha creduto nel potere liberatorio della rivoluzione: membro del circolo socialista di Petrasevskij, fu arrestato e condannato a morte, pena che in seguito venne commutata in quattro anni di lavori forzati. Egli non ha né interessi né sentimenti né affetti personali, nulla che gli appartenga. Tutto è sopraffatto da un esclusivo interesse, un solo pensiero, una sola passione: la rivoluzione.
La critica di Dostoevskij non colpisce solo il socialismo ma attacca ogni teoria del progresso; sacrificare una persona in questo istante per il beneficio di un’astratta umanità del domani, è il più grande crimine che l’uomo possa compiere.
Pur essendo qualcosa di astratto, l’ideale risulta essere più forte e, in un certo senso più vero, della realtà:
«Questa Torre di Babele, supposto che un giorno si innalzi, che alla fine essa offra una dimora stabile, in nome di che cosa oggi mi si può costringere a seppellirmi nelle sue fondamenta? Ogni generazione vale come un’altra, e la città futura non potrebbe mai interessarmi, come invece mi interessa un Regno eterno». 
  
Il Grande Inquisitore
 
Una volta che l’uomo si sia liberato di Dio, sarà poi libero di fatto? Per Dostoevskij i sistemi sociali che si sviluppano rifiutando le loro basi cristiane, diventano fatalmente sistemi di violenza e di schiavitù.
È il tema che attraversa la Leggenda del grande Inquisitore, che pone in antitesi libertà e felicità:
«Tu hai concessa la libertà agli uomini, invece di confiscarla: avevi dunque dimenticato che, alla libertà di scegliere tra bene e male, l’uomo preferisce la pace, fosse pure la pace della morte? […] Noi abbiamo corretto la tua opera. Gli uomini si sono rallegrati di essere di nuovo condotti come un branco. Noi ci siamo dichiarati i padroni della terra».
La grave preoccupazione di scegliere è loro risparmiata: non hanno più né da pensare né da volere.
 
Il “Palazzo di Cristallo”
 
Il “palazzo di cristallo” spesso fa lega con la “torre di Babele”. Dostoevskij ci presenta un esempio in Rakitin, il seminarista amico di Alioscia, impomatato di scienza e di mondanità, giovane ambizioso, pieno di pretese, la cui vita monastica non è altro che una tappa per la carriera politica.
La critica è posta sulle labbra di Mitia, il primo dei fratelli Karamazov. Egli riceve la visita di Rakitin in carcere, dove attende il giudizio, accusato di aver ucciso suo padre. Rakitin gli confida l’idea di scrivere un articolo su di lui, per provare con la scienza che non è affatto colpevole, che egli è una vittima dell’ambiente e dell’eredità. Mitia riferisce la cosa ad Alioscia:
 
« – Se si prende l’insieme, io rimpiango Dio; ecco! – Che vuoi dire? – Figurati che nella testa, cioè nel cervello, ci sono dei nervi… Questi nervi hanno delle fibre, e appena vibrano […]. Il pensiero viene in seguito, perché io ho delle fibre, e niente affatto perché ho un’anima e sono creato a immagine di Dio: che sciocchezza! Michele mi spiegava ciò, anche ieri, ciò mi esaltava. Che bella cosa è la scienza! Alioscia! L’uomo si trasforma, io lo comprendo… tuttavia rimpiango Dio. – È già qualcosa, disse Alioscia. – Che io rimpianga Dio? La chimica, fratello, la chimica: mille scuse, Vostra Reverenza, scostatevi un po’, passa la chimica! Rakitin non ama più Dio»
 
L’uomo è schiavo della scienza e della ragione
  
Per Dostoevskij l’ateismo contemporaneo si è costruito un palazzo di cristallo in cui tutto è luce, e fuori del quale esso ha deciso che non c’è nulla. Questo palazzo è l’universo della ragione, così come hanno finito per costruirlo la scienza e la filosofia moderne.
Dostoevskij non attacca né la scienza né la filosofia: egli se la ride solo dell’ uomo che è diventato il loro schiavo.
Egli contesta la tesi secondo cui “l’uomo non è che un tasto di piano sotto le dita della natura”. Niente caso, niente libertà! Se dunque si vuole assicurare la felicità degli uomini, “non c’è da fare altro che conoscere bene le leggi della natura: tutte le azioni umane saranno allora calcolate.
L’autore russo respinge inoltre la pretesa razionalista che vuole valutare ambiti che non sono suoi, rinchiudendo l’uomo “in quella regione incantata dove regnano le leggi e i principi”. L’evidenza razionale è quella della vita in superficie, ma l’ uomo del sottosuolo conosce un altro regno. 
   
Fonte: tratto da “il dramma dell'umanesimo ateo”, H.De Lubac (Morcelliana)

La distinzione tra popolo e massa - B.Hamvas

Quella mentalità che l'uomo storico, soprattutto l'uomo moderno, chiama scientifica, si è sforzata di capire i grandi fatti dell'esistenza per mezzo dell'intelletto e dell'Io individuale, non con l'intuizione immediata dell'uomo universale. Avendo preso l'avvio da un punto di vista rovesciato, era inevitabile che giungesse a un risultato parimenti rovesciato. Così si è formata la concezione secondo cui l'origine dell'esistenza è in basso; così si è formato il pensiero del progresso, o dello sviluppo, dal basso verso l'alto.

(...)

Non c'è confusione più grande che in quella scienza che è stata per lo più abbandonata all'Io della ragione dell'Io individuale: la sociologia. Nella vita della comunità ogni aspetto vive in analogia esatta con la vita interiore dell'uomo, perchè ogni aspetto è una corrispondenza puntuale del mondo psicologico. Ogni fenomeno può essere compreso solo alla luce della metafisica. La scienza invece, vede la comunità umana come il risultato di un lungo sviluppo, la comunità come un prodotto dei cosiddetti elementi vitali: all'inizio c'era il selvaggio isolato, poi venne la famiglia, da più famiglie si formò la tribù, dalla tribù la nazione e così via: fino ad arrivare al genere umano. Come se nell'organismo umano prima fossero nate le cellule, ciascuna separatamente dalle altre, per poi associarsi in gruppi di cellule e sviluppare gli organi, per assestarsi finalmente in un qualche ordine e dare realtà all'essere vivente.

La tradizione dell'umanità primordiale sapeva che la comunità è un organismo vivente e che nel momento della sua origine, la quale ha luogo non dal basso, dalla natura materiale, ma dall'alto, dal pensiero della divinità creatrice, dall'idea – essa è integra e compiuta esattamente come al momento della sua massima crescita. La comunità è comunità in ogni momento: una nei molti e molteplice nell'uno; quell'organismo vivente, quella comunità, quella collettività primordiale che è realizzazione dell'idea di comunità nella natura materiale, è il popolo.

Il popolo non può essere definito, perchè non è un concetto. Non è la lingua comune a fare il popolo: anche la lingua comune è prodotta dal popolo. Non è il destino comune a fare il popolo: anche il destino comune è prodotto del popolo. Non è la razza a fare il popolo: la razza è il segno biologico della vita comune del popolo. Non è la coabitazione a fare il popolo: la coabitazione è conseguenza necessaria della vita del popolo. Non sono gli elementi esteriori a fare il popolo: è il popolo stesso a precedere ogni elemento esteriore e a costituire la premessa di tutto il resto. Il popolo è archetipo dell'esistenza della comunità primaria. Il popolo è la collettività primordiale.

Coloro i quali hanno avuto qualche nozione del mondo arcaico, soprattutto coloro i quali hanno conosciuto la tradizione, anche se solo nei suoi aspetti frammentari, ma ancora di più coloro i quali hanno respinto le conclusioni della scienza moderna e si sono tranquillamente affidati alle loro intuizioni hanno visto lucidamente che il popolo non è un risultato tardivo del cosiddetto sviluppo, ma un fatto vitale primario.

(...)

“L'esistenza del popolo non solo non è spiegabile con la natura materiale; l'esistenza del popolo si contrappone a tutto ciò che ha una natura materiale o ha avuto origine da quest'ultima”.

Il popolo è la forma dell'esistenza universale della comunità: come c'è l'uomo individuale e c'è l'uomo universale, così c'è anche la comunità naturale e la comunità universale. Il popolo dunque è forma di esistenza universale, cioè spirituale. L'esistenza del popolo è sempre in ogni caso caratterizzata dal consolidamento del risultato. Molti uomini messi insieme non sono ancora un popolo; popolo è soltanto quell'autentica comunità in cui l'attività dell'uomo può potenziarsi e si potenzia. In termini metafisici, quindi esatti: il popolo è quell'autentica comunità in cui si rafforza l'intensità dell'esistenza del singolo, solo ed unicamente perchè assieme agli altri egli si trova ad un grado di esistenza che è incommensurabilmente più intenso dell'esistenza individuale: più luminoso, più elevato, più spirituale, più primario. Un individuo umano non può e non potrà mai produrre una lingua, un mito, un' arte, una morale. La lingua, il mito, la morale sono produzioni del popolo: fioritura e irraggiamento dell'intensità dell'esistenza comune. E' proprio ciò a distinguere il popolo dalla pura e semplice massa umana. La pura e semplice moltitudine, la massa, equivale alla degradazione dell'esistenza individuale dell'uomo, mentre il popolo, la comunità primordiale spirituale e d'origine trascendente, equivale all'elevazione dell'esistenza individuale dell'uomo. Ciò che vive nella massa, sotto il profilo intellettuale e sotto quello sentimentale vive nell'attività e nella conoscenza di quest'ultima, vive in uno stato decaduto nel valore assoluto della sua vita. Chi invece vive nel popolo, sia sotto il profilo intellettuale sia sotto quello sentimentale vive nell'attività e nella conoscenza di esso, vive in uno stato elevato nel valore assoluto della sua vita. Manifestazione della sua esistenza elevata sono la lingua, gli usi e i costumi, il mito, il rito, l'arte, la morale. La massa è mera moltitudine numerica, non è autentica comunità; è un aggregato di individui che solo accidentalmente parlano una lingua ed abitano in un luogo, aggregato eterogeneo e materiale. La vera comunità, il popolo, che è creato e tenuto unito da una forza soprannaturale, è unità di un essere omogeneo.

E' ovvio che l'uomo storico e quindi anche la scienza non abbiano esperienza della realtà popolare, perchè sul limitare dell'età storica i popoli sono diventati masse ed è venuta a mancare la possibilità trascendente dell'esistenza del popolo. Perciò non sono sorti né potevano sorgere nuovi miti; il rito è pian piano diventato esteriorità, poi ipocrisia; le lingue non si sono più approfondite e non si sono più spiritualizzate, ma al contrario si sono impoverite e inaridite. Il popolo si è scomposto e anche il livello dell'intensità dell'esistenza si è abbassato. La comunità è diventata una massa pura e semplice, nella quale la vita del singolo uomo, anziché aprirsi ed elevarsi, si è chiusa e sprofondata.

Fonte: tratto da Scientia Sacra vol II, B.Hamvas (Edizioni all'insegna del veltro)

La “salutare sferzata” di Nietzsche ai cristiani - H.De Lubac

Nel cristianesimo Nietzsche ha intravisto più che un ideale falso, un ideale svigorito e decaduto […]. Egli ce l’ha con i cristiani del nostro tempo, con noi stessi. Il suo sferzante disprezzo ha di mira le nostre mediocrità, le nostre ipocrisie. Esso prende di mira le nostre debolezze ammantate di bei nomi. Ricordandoci la gioiosa e forte austerità del “cristianesimo primitivo”, svergogna il “nostro cristianesimo attuale”, talvolta effettivamente “dolciastro e nebuloso”.
Gli si può dare completamente torto? Dobbiamo, contro di lui, prendere le difese di tutto ciò che “oggi porta il nome di cristiano”? Quando egli per esempio esclama, parlando di noi: “Bisognerebbe che essi mi cantassero dei canti migliori, perché io imparassi a credere al loro Salvatore! Bisognerebbe che i suoi discepoli avessero più aria da gente salvata!”, come oseremo indignarci? […].  Gli infedeli che ci stanno accanto ogni giorno osservano sulle nostre fronti l’irraggiare di quella gioia che, venti secoli fa, rapiva gli spiriti eletti del mondo pagano? Abbiamo noi cuori di uomini risuscitati con il Cristo? Siamo noi in mezzo al secolo XX i testimoni delle Beatitudini?»
Nietzsche impone ai cristiani una severa autocritica
«Preso nel suo insieme, il nostro cristianesimo è diventato insipido, nonostante tanti sforzi meravigliosi per restituirgli vita e freschezza, esso è snervato, sclerotizzato. Cade nel formalismo e nell’abitudine. Così come noi lo pratichiamo, come anzitutto lo pensiamo, è una religione debole, inefficace: religione di cerimonie e di devozioni, di ornamenti e di consolazioni volgari, talvolta perfino senza sincerità, senza presa reale sull’attività umana. Religione che sta fuori della vita, e che mette noi stessi fuori di essa.
Ecco ciò che è diventato nelle nostre mani il Vangelo: ecco come è finita questa immensa speranza che si era levata sul mondo […]. L’insofferenza a ogni critica, l’impotenza a ogni riforma, la paura dell’intelligenza non ne sono forse segni evidenti? Cristianesimo clericale, cristianesimo formalista, cristianesimo spento e indurito?» 
Ritornare alle sorgenti del cristianesimo
«Quello di cui abbiamo bisogno non è un cristianesimo più virile, più energico, o più eroico o più forte; invece abbiamo bisogno di vivere il nostro cristianesimo più virilmente, più efficacemente, più fortemente, più eroicamente se è necessario, ma di viverlo così come è.
Non c’è nulla da cambiare, da aggiungere (questo però non vuol dire che non si debba approfondirlo senza posa); nulla c’è da adattare alla moda corrente.
Bisogna riportarlo a se stesso, nelle nostre anime […].
Dobbiamo ritrovare lo spirito del cristianesimo. Per questo, dobbiamo ritemprarci alle sue sorgenti, e anzitutto nel vangelo. Così come la Chiesa continuamente ce lo presenza, questo Vangelo ci basta. Solo che, sempre nuovo, esso deve essere sempre ritrovato.
I migliori tra quelli che ci criticano, sanno qualche volta apprezzarlo meglio di noi. Essi non gli rimproverano le sue pretese debolezze; rimproverano a noi si non saper sfruttare abbastanza la sua forza» 

Fonte: tratto da "Il dramma dell'umanesimo ateo" di H.De Lubac (ed. Morcelliana)