Black Metal, una tensione verso la trascendenza

Nel 2006 uscì per Settimo Sigillo uno stimolante saggio di Luca Leonello Rimbotti dal titolo "Rock duro anti-sistema. Heavy metal, tradizione e ribellione", il quale , seppur rivedibile dal punto di vista documentale, è da segnalare soprattutto per la tesi sociologica che lo sostiene, la quale getta una luce tutt'altro che scontata su un fenomeno culturale di massa (e in particolare su alcune sue correnti meno popolari e più controverse) che i più liquidano essenzialmente come espressione di superficialità giovanile (o cronica immaturità, quando si protrae nel tempo), mera contestazione stereotipata o semplice cattivo gusto.
  
Portiamo l'attenzione su questo testo perché recentemente, con dei cari amici che come noi hanno trascorso l'adolescenza e la tarda adolescenza all'interno di tale ambiente - stiamo parlando degli anni '90 -, ci si è interrogati sul senso di quella permanenza, e come a partire da tale cultura, apparentemente così nichilista e dissacrante, sia stato possibile giungere poi a cercare e riscoprire orizzonti di senso apparentemente antitetici, come il recupero delle nostre radici europee, la nostra spiritualità, il senso dell'identità e del sacro, la ricerca della trascendenza e delle fondamenta permanenti dell'etica e del politico. Abbiamo constatato come, seppur non scontato, tale percorso non fosse poi così raro, riguardando anche altre nostre conoscenze, e che le risposte che nel tempo eravamo giunti a darci indipendentemente convergevano essenzialmente con la tesi sostenuta nel libro. Comune era anche il disagio che provavamo di fronte a tale passato, perché nonostante ad entrambi il percorso apparisse lineare e assolutamente consequenziale, percepivamo la difficoltà di trasmettere quell'esperienza di senso - e di traslazione di senso - a coloro che non l'avessero vissuta direttamente.
In particolare, ci eravamo orientati verso le correnti più estreme del genere, soprattutto dal punto di vista concettuale, che allora appartenevano ancora a una dimensione underground non ancora addomesticata ed emersa. Gli anni '90 furono per l'extreme-metal un grande laboratorio di estetiche e tematiche che essenzialmente le decadi successive avrebbero compendiato ininterrottamente, spesso banalizzandone e neutralizzandone la carica eversiva, paradossalmente canonizzando forme ed espressioni nate invece con un genuino intento di rottura. Gli anni '90 furono essenzialmente l'epoca del black metal nord-europeo, probabilmente l'ultima grande sottocultura giovanile che abbia avuto un autentico impatto sociale, a causa soprattutto delle attenzioni mediatiche ricevute grazie agli eventi di cronaca nera che ne accompagnarono gli esordi, e che portarono molti tra sociologi, religiosi e autorità a interrogarsi su come interpretare l'urgenza che tale movimento esprimeva. Diamo per scontato che chiunque legga sappia cos'è il black metal e abbia perlomeno un'idea delle sue origini e delle correnti tematiche che lo caratterizzano. Per quanto riguarda il primo punto esiste un'ampia letteratura che chiunque sia interessato a conoscere le origini del fenomeno può facilmente reperire; per quanto riguarda il secondo punto, invece, ci limitiamo a dire molto sinteticamente e a rischio di un'eccessiva semplificazione, che a partire da una cornice che potremmo definire come "satanismo medievale", ossia un pittoresco immaginario fatto di demoni, evocazioni diaboliche e sabba di streghe, con una decisa presa di posizione dissacrante e anti-cristiana, il repertorio del black metal si è progressivamente arricchito di suggestioni pagane e neo-pagane, ultra-nichiliste o superoministe, fino ad accorpare anche elementi di natura politica, segnatamente di ultra-destra o iper-reazionari. Una particolare attenzione la ricevette sin dalle origini l'opera di Tolkien, seppure declinata in direzione invertita e pertanto incompatibile con gli intenti dell'autore; tale elemento, credo, non sia secondario ai fini della nostra riflessione, visto che una analoga fascinazione è stata abbondantemente vissuta (e spesso consumata) nel ventennio precedente dai movimenti con tendenze spirituali all'interno dell'estrema destra, cosa questa che in qualche in modo denota tensioni ideali comuni e non di rado esiti affini nelle vicende biografiche di chi condivise quegli ambienti così distinti, i quali solo raramente - e spesso in modo paradossale - finirono per incontrarsi e convergere.

Se pensiamo a quale visione del mondo la società in cui vivevamo ci invitava ad aderire passivamente, comprendiamo senza difficoltà perché istintivamente nell'adolescenza ci orientammo verso alternative tanto chiassose. Di fatto, la cultura di massa che si basava essenzialmente su una ricetta di distrazioni ed anestetici, propedeutici a una partecipazione attiva/passiva alla società dei consumi, di fatto non poteva appagare una certa inquietudine tipica di soggetti che l'indottrinamento standard, il quale passava attraverso famiglia, scuola e varie associazioni del tempo libero, non aveva mai persuaso in  modo troppo efficace. Tali soggetti, che non consideriamo necessariamente più intelligenti o lungimiranti del giovane medio, ma che ci limiteremo a definire semplicemente "cortocircuitati", non trovando appagamento nel repertorio di autorappresentazioni che venivano loro suggerite nel catalogo della cultura mainstream, venivano facilmente cooptati dai vari movimenti presenti nell'underground delle culture giovanili, i quali  supplivano a tale carenza con un ampia gamma di surrogati. A indirizzare il giovane outsider nella propria scelta identitaria erano fattori spesso contingenti, come frequentazioni comuni o prossimità a particolari centri logistici, ma non di rado era una autentica tensione ideale verso ciò che si riteneva meritevole del proprio tempo e della propria attenzione.
Ci chiediamo ora: come non essere anti-cristiani quando l'unico volto del cristianesimo che si conosceva allora era quello disfatto della sua deriva sociale, frutto putrido del Concilio, fatto di perbenismo da parrocchia, centri estivi e cerimonie leziose a cui pure il prete si annoiava? Non era ancora la stagione degli arcobaleni, ma i colori erano già quelli, e nei nostri ricordi d'infanzia c'erano soprattutto cartelloni color pastello, pieni di fiori e di scritte stucchevoli, con un Cristo di spalle che camminava verso il tramonto tenendo bambini per mano. Ci chiediamo quanti si siano persi in direzione di quel tramonto, perché la stretta non era abbastanza forte.

Non si priva impunemente una generazione intera della guerra, anche se si tenta di allevare eunuchi. Una buona porzione non sarà accondiscendente, perché la necessità di combattere è insita nell'uomo. La guerra esiste perché il mondo non è un paradiso; una buona ragione per combattere la si troverà sempre. Se esiste un'etica, esiste il conflitto: per cercare di inibire l'innato istinto che nell'uomo chiama a combattere per ciò che egli ritiene giusto e desiderabile, si è dovuto prima di tutto rimuovere l'idea di qualsiasi assoluto. Le generazioni precedenti alla nostra erano ancora capaci di pensare il cambiamento in vista di valori che ritenevano assoluti: a partire dalla nostra, invece, questo è di fatto divenuto impossibile. La perdita della passione politica e della militanza che contraddistinsero le nostra generazione e quelle successive è appunto dovuta all'aver amaramente sperimentato il fallimento delle grandi ideologie e lo scacco della politica che muove dalla base. Le generazioni precedenti alla nostra surrogavano la guerra nella militanza politica: per la nostra, invece, la violenza ideale è un grande rimosso, e il bisogno di militanza è stato surrogato in vari modi, più o meno efficaci. Alcuni scelsero ad esempio lo stadio; altri, scelsero la musica.

Non a caso la metafora bellica è un luogo classico della poetica extreme-metal. Anche l'idea di élite, di far parte di un gruppo appartato e distinto che lotta per la propria difesa o supremazia, lo è. Ma lo è pure l'idea anti-cristiana (di quel cristianesimo della banalità e della debolezza di cui parlavamo sopra), a cui si contrappone una sorta di misticismo senza oggetto, o di mistica invertita, che desidera, prega o invoca maschere e fantasmi, tra mitologia e letteratura. Nessuno che abbia realmente vissuto all'interno della cultura black metal negherà che esso fosse (per alcune sacche di resistenza lo è ancora) una parodia, o un surrogato, di religione: un termine frequentemente utilizzato per definirlo è appunto quello di "culto", non raramente "fede". Altre due parole sono frequentemente utilizzate per caratterizzarlo, termini che tradiscono un profondo anelito alla trascendenza e al sacro: "puro" e "vero". Crediamo ma sarebbe qui troppo lungo argomentarlo e ci limitiamo semplicemente a fornirne la suggestione, che il black metal, nella sua forma genuina ed autentica, ossia quella coltivata nell'underground delle origini, e custodita ancora al di fuori dell'industria musicale da pochi fedeli, andrebbe studiato oltre che come fenomeno artistico, anche nella sua valenza di movimento neo-spiritualista.
E veniamo così alla tesi di Luca Leonello Rimbotti, a cui all'inizio abbiamo accennato. Riferendosi genericamente all'heavy metal scrive:
 
"Questa musica veicola idee, disposizioni, attitudini, simbolismi, ritualità, mitemi, tipologie, che, pur nella loro superficialità scenica, spesso a sua volta inquinata da astuzie commerciali, vanno incontestabilmente nella direzione di un recupero di sparsi ma consistenti brandelli della Tradizione europea". E ancora: "In questa musica potente rivive l'Eroe, rinasce la Saga, si rianima il Mito, si rivendicano l'Onore, la Fedeltà, la Fede, si celebrano il Destino, il Mistero e il mondo Arcano della Magia (...)".

Concordiamo pienamente con quanto scrive, e crediamo che il black metal abbia massimizzato e incarnato queste istanze in maniera esemplare. Siamo stati salvati da un appiattimento omologante proprio dall'aver rinvenuto in quella cultura un orizzonte critico e una provocazione capaci di impedire la rassegnazione a quella sconfitta della lotta per il senso a cui invece abbiamo visto molti coetanei soccombere. Praticamente una generazione intera. Crediamo inoltre che in noi abbia preparato il campo, con la corrosione di certi luoghi comuni e assuefazioni ideologiche, a nuove prospettive intellettuali e spirituali verso cui ci saremmo incamminati negli anni successivi. In tutta la sua paradossalità,  sono convinto che nella nostra formazione sia stata un fenomeno positivo a cui dovere riconoscenza.
Crediamo tuttavia che come per alcuni fu medicina, per altri fu veleno, secondo la tradizionale ambivalenza del termine greco pharmakon. Come scrisse un saggio esoterista dei primi del '900: "Non è raccomandabile confondere i simboli, perché in tal modo si confondono facilmente anche le forze che stanno dietro di essi". Le vicende di sangue che accompagnarono il periodo classico del genere lo testimoniano a monito perenne: non si evocano impunemente certe forze, risiedano esse negli inferi o nel subcosciente, se non si ha la certezza di poterle dominare. Beninteso, la sfida non è per tutti.



Il signor Raab di Fassbinder, simbolo della postmodernità

Germania, fine degli anni '60: le industrie sono in netta ripresa, la piccola e media borghesia tedesca si rafforza sempre più ed avanza indisturbata, la sconfitta della guerra  è oramai alle spalle, la società si avvia verso una progressiva finanziarizzazione, speculazioni e corruzione divengono fenomeni integranti del processo di ricostruzione tedesco, iniziato a metà degli anni cinquanta.
Fassbinder ed altri registi coetanei tra cui Werner Herzog e Wim Wenders, consapevoli di ciò che stava accadendo, diventano inevitabilmente i protagonisti di una critica radicale al modello capitalista.
Un archetipo che opera in un rovesciamento di prospettiva copernicana, in un’ epoca in cui le leggi economiche prendono il sopravvento e non sono più subordinate alle esigenze e agli scopi della comunità.

E così nacque il cosiddetto “Nuovo Cinema Tedesco”, gli autori citati iniziarono a produrre parecchi film a basso costo ispirati a Bunuel, Brecht e sulla scia della Nouvelle Vague francese.
In particolare R.W. Fassbinder, che nel 1968 si distinse con il film “Warum luft Herr R. Amok?”.
Una semplice storia che ritrae l'anemica vita quotidiana del signor Raab, un professionista con un lavoro dignitoso, una bella moglie ed un figlio come tanti.
Un uomo normale insomma, distaccato e senza particolari eccessi, lavora, accompagna sporadicamente la moglie a far compere o a visitare le amiche, passa le serate in casa con la famiglia guardando la televisione, esce con i colleghi, cerca di fare carriera, aiuta il figlio a fare i compiti e va a parlare con la sua insegnante.
Le sue relazioni sono piatte, senza slanci ed affetti ed egli non fa altro che galleggiare in questo suo finto equilibrio partecipando da spettatore alle cene che la moglie organizza durante il weekend.
Raab pian piano diventa sempre più apatico, inerte, demotivato, fiacco e quasi incapace di comunicare, ripetendo sempre gli stessi gesti meccanizzati.
Un'unica scintilla vitale la sprigiona, quando un amico di vecchia data viene a trovarlo ed insieme rievocano, impavidi, la loro infanzia tra gli sguardi perplessi della moglie.
Fino a che un giorno, durante una banale conversazione della consorte con la vicina di casa, il signor R. prende un candelabro e con un colpo alla testa uccide prima la vicina, e poi la moglie ed il figlio.
Il tutto con la solita imperturbabilità. Il mattino dopo va al lavoro, ma invece di recarsi alla sua postazione si chiude in bagno e si impicca.
Le motivazioni sono troppo chiare per essere spiegate: la sua non è nè ribellione nè follia, ma solamente la presa di coscienza di un contesto che reprime ogni impulso spontaneo e regolamenta ogni fase dell'esistenza, in un programma di annichilimento sistematico dell'individuo.

Con un impianto semidocumetaristico, il primo film a colori di Fassbinder è un' agghiacciante affresco della società borghese occidentale.
La regia del cineasta tedesco trasuda assoluta impersonalità nel fotografare l' ordinarietà della vita di un mesto impiegato industriale.
La regia è volutamente approssimativa, ogni sequenza è difatti risolta con un' unica ripresa a mano che passa da un personaggio all' altro, tra luci naturali tendenti a colori smorti, che accentuano così il senso di claustrofobia.
La vacuità e il decorativismo che descrivono il suo stile di vita sono continuamente amplificati dall'ambiente in cui il personaggio vive e si muove e dagli oggetti di cui si circonda.
Egli sguazza nell’ anonimato, solissimo in questa festa degli oggetti, che a loro volta sono impotenti nel dare un senso alla sua vita.
Gli attori si muovono in modo schematico scontrandosi, con il naturalismo della scenografia da un lato e con quello dell' inerte eloquio dall'altro.

Raab, assoggettato indissolubilmente ad abitudini e regole conferite, è incapace di formulare i termini di una rivolta, di un riscatto qualsiasi nei confronti della società, più percepisce di essere defraudato e più si inaspriscono in lui bramosie ed illusioni.
Coglie l'impossibilità nell' esprimersi in un’ epoca estenuata in cui ogni sogno di avvenire sembra delirio o impostura. In lui vi è l’assenza di qualsiasi sentimento che non sia insofferenza verso se stesso, in uno scivolamento lento e inesorabile, in uno stato di insensibilità in cui non pare esserci via d’uscita.
Il protagonista sembra così aderire a un destino tragico, anche le relazioni amorose sono rappresentate come esempi lampanti di rapporti di produzione fatti di convenienze forzate e incomunicabilità.

Fassbinder cercò di trasmettere l’impotenza di coloro che colgono la decadenza, che non riescono a combatterla, ma neppure ad incoraggiarla facendola sviluppare in modo che si esaurisca, permettendone l'avvento di altre forme.

D'altronde a torto ci immaginiamo la figura del Signor R. come qualcuno che abdica, si ritira e si tiene in disparte rassegnato alle sue miserie e alla sua condizione di relitto, ma se lo osserviamo bene scopriremo in lui un ambizioso, un deluso, un aggressivo, un amareggiato ed i suoi incubi sono sempre connessi ad una matrice culturale borghese, ad un sadico gioco al massacro che trascinando l'altro nel baratro è in realtà prima di tutto un suicidio.


Le pericolose ideologie di Kinsey e Money

Facciamo subito una premessa fondamentale: nessuno vuole ASSOLUTAMENTE accusare il mondo lgbt o i singoli membri o le singole associazioni di fare propaganda per la sessualità minorile. Su questo bisogna veramente essere molto chiari. Tuttavia è necessario comprendere come ci sia un legame indubbio tra l'idea di uno sdoganamento della sessualità infantile fin dalla più tenera età, e quella che possiamo chiamare ideologia di genere.
Da questo punto di vista è assolutamente necessario comprendere innanzitutto cos'è il gender. 
Quando qualcuno dice “il gender non esiste”, in realtà mente sapendo di mentire. Ma, in qualche modo, esprime un fondo di verità perché non esiste un’ideologia gender caratterizzata da un libro sacro e dei punti di riferimento. Esiste più che altro una tendenza, che possiamo identificare come ideologia gender, una tendenza che nasce negli Stati Uniti a partire dalla rivoluzione sessuale degli anni 50 – 60 che afferma l'inesistenza di fatto della dicotomia sessuale maschio/femmina e l'esistenza invece, in realtà, di una sorta di ventaglio di possibilità che vanno dal maschile al femminile “etero” fino all'omosessualità, passando per un'infinita serie di passaggi intermedi, una sorta di ventaglio della sessualità.
Questa idea la ritroviamo, prima ancora che si parli di ideologia di genere o di gender, così come poi era inteso nei decenni successivi, già con Alfred Kinsey che è stato il grande promotore della rivoluzione sessuale negli Stati Uniti, un uomo estremamente legato ai poteri forti.
La sua opera è stata sponsorizzata e pubblicata col beneplacito della fondazione Rockefeller negli Stati Uniti, negli anni 50. All'interno della sua opera, che costituisce in qualche misura la miccia che fa detonare la rivoluzione sessuale, prima negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo occidentale, troviamo un chiaro riferimento a quelle che poi saranno le basi del gender: l'idea che sia possibile passare attraverso una scala – che poi è stata proprio chiamata “scala Kinsey” – da un livello di eterosessualità a un livello di totale omosessualità. Questi concetti secondo Kinsey sarebbero in realtà caratteristiche tipiche solo di pochi individui: cioè i veri “eterosessuali” e i veri “omosessuali” sarebbero pochissimi, mentre la stragrande maggioranza della popolazione ondeggerebbe, trasmigrerebbe attraverso queste due categorie in un'indefinita quantità di sfumature. Tra queste sfumature troviamo pure quella che viene chiamata “pedofilia”, pedofilia che Alfred Kinsey considera a tutti i livelli un orientamento sessuale normale, un orientamento sessuale con cui fare i conti. Tra l’altro nella sua ricerca si trova anche la famosa tabella HR2749 – tabella che ha poi suscitato tutta una serie di polemiche e di strascichi legali, per ovvi motivi – in cui vengono riportati i dati riguardanti il tempo e la frequenza di orgasmi di infanti e bambini. Kinsey aggiunge nel suo rapporto, proprio a proposito della cosiddetta pedofilia:

 “…Se una bambina non fosse condizionata dall’educazione, non è certo che approcci sessuali del genere di quelli determinati in questi episodi (cioè contatti sessuali con adulti) la turberebbero… è difficile infatti capire per quale ragione una bambina, a meno che non sia condizionata dall'educazione, dovrebbe turbarsi quando le vengono toccati i genitali oppure turbarsi vedendo i genitali di altre persone o nell’avere contatti sessuali ancora più specifici…”.

Questo è in qualche modo l'inizio dell’ideologia gender: alla base dell'ideologia gender c’è questa idea quasi endemica che una liberazione sessuale a 360° e fin dalla più tenera età possa portare una sorta di beatitudine collettiva universale.
Una visione quasi messianica che viene ripresa solo qualche anno dopo da John Money.
John Money è un professore, uno psicologo neozelandese poi trapiantato negli Stati Uniti; tra l'altro è anche discusso per le sue attività di chirurgo e per i vari episodi di bambini a cui è stato cambiato sesso (c’è l’episodio abbastanza famoso, su cui adesso non ci soffermiamo, di Brenda Reimer nato David Reimer, un episodio disgraziato che poi terminerà con il suicidio del bambino sottoposto a questa operazione). Ma ancora più importante è il ruolo di John Money nella nascita della vera e propria ideologia gender così come la possiamo comprendere oggi: è con Money che nasce anche l'espressione “identità di genere” a differenza di “identità sessuale” che era stata l'espressione con cui fino a quel momento era stata identificata la differenza, la dicotomia tra i sessi. 
Oltre a questa idea, a questo concetto di identità di genere che riprende e in qualche modo estremizza quello che già aveva affermato Kinsey – per cui la sessualità è una costruzione culturale e sociale che chiunque potrebbe cambiare nel corso della sua vita – Money sdogana ampiamente quelle che, come dice lui, fino a quel momento erano state chiamate parafilie o perversioni, tra le quali anche la pedofilia. In una prefazione a un libro di un suo amico, un certo Theo Sanford che scrive “Boys and their contact with men” (“I ragazzi – ma in questo caso sarebbe più i “bambini”, i “preadolescenti” – e i loro contatti con gli uomini, con gli adulti”), Money scrive:

“… la pedofilia e l’efebofilia non sono una scelta volontaria, più di quanto non lo sia il fatto di essere mancini o daltonici… non esiste un metodo conosciuto di trattamento attraverso cui essi possono essere modificati effettivamente e in via definitiva … le punizioni sono inutili: bisogna semplicemente accettare il fatto che esistono e poi, con un illuminismo ottimale, formulare una politica sul da farsi…”.

Ricordiamoci che siamo alle soglie degli anni 60, del “vietato vietare”, ma questa è l'ideologia di riferimento che poi andrà a formare i movimenti cosiddetti di “liberazione sessuale”, tra cui soprattutto il movimento femminista (che parte proprio dal presupposto per il quale le categorie “maschile” e “femminile” sono dei costrutti sociali … e quindi vanno de–strutturati) e poi soprattutto il movimento omosessualista.
Sul discorso del collegamento tra movimento omosessualista e pedofilia, ci sarebbe molto da dire, a livello storico. C’è stata sicuramente, indubbiamente una collaborazione fino a un certo punto, possiamo dire fino alla metà degli anni 90, al 1994, anno in cui l’ILGA (che è l’organizzazione internazionale dei gruppi omosessualisti, quelli che oggi si chiamano lgbt) ospita al suo interno anche associazioni come il NAMBLA (North American Men Boy Love Association – associazione nord americana dell'amore tra ragazzi e adulti).
In queste manifestazioni non dobbiamo vedere degli episodi casuali: è nel DNA dell’ideologia gender, come abbiamo dimostrato, l'idea che la sessualizzazione precoce – come diceva John Money: “eight too late” (“a otto anni è già troppo tardi”) – possa portare a una liberazione dell'uomo. Questo tipo di concetto lo ritroviamo anche in uno dei pensatori omosessualisti più famosi in Italia: è Mario Mieli, a cui è dedicato il più importante circolo di cultura omosessuale, il “Circolo di cultura omosessuale – Mario Mieli”, che si trova a Roma.
Mieli era un attore di teatro, morto suicida intorno ai trent’anni, un personaggio abbastanza in vista negli anni 70 nella Milano della contestazione, autore di un libro pubblicato dalle edizioni Feltrinelli dal titolo “Elementi di critica omosessuale”, in cui in qualche modo si riprende in chiave omosessualista un certo marxismo – freudianesimo che era molto di moda negli anni 70. Mieli riparte da una prospettiva strettamente omosessuale, da una critica omosessuale della società. È qui che troviamo una frase che peraltro ormai è diventata piuttosto famosa, ma che è difficile da comprendere al di fuori dell’impalcatura ideologica dell'omosessualismo militante, dell’ideologia gender. È un passaggio tratto appunto da “Elementi di critica omosessuale” pubblicato in Italia da Feltrinelli.
Scrive Mario Mieli: 

“… Noi, checche rivoluzionarie, sappiamo vedere nel bambino non tanto l’Edipo o il futuro Edipo, bensì l’uomo potenzialmente libero…”. 
Qui, naturalmente, si riprendono delle categorie freudiane: Edipo è il represso, il frustrato, colui che desidera la madre; in questo caso, naturalmente, l’Edipo è colui che viene castrato dall'educazione e in particolar modo dalla famiglia, ma l’omosessualità e l'omosessualismo potranno liberarlo, secondo Mario Mieli.
Perché, scrive Mario Mieli: 

“… Noi, sì, possiamo amare i bambini, possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di eros, possiamo cogliere a viso e braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l'amore con loro… per questo la pederastia è tanto duramente condannata: perché essa rivolge messaggi amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza, edu–castra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica…”.

Questo è un concetto che si trova alla base dell'ideologia gender.
L’ideologia gender non è semplicemente una giustificazione dell'agenda omosessualista o femminista: l'ideologia di genere è una visione del mondo, è una weltanschauung opposta a quella tradizionale. Nell'agenda gender non ci sono solo i matrimoni omo, non ci sono solamente le adozioni o l’utero in affitto ma, in prospettiva, c'è quella che appunto veniva predicata come una sessualizzazione a 360° della società, a partire fin dall'età dell’infanzia.

Questo NON SIGNIFICA naturalmente accusare le associazioni omosessuali di connivenza con la pedofilia, né di pratica della pedofilia ma – questo sì sicuramente – avere nel proprio DNA ideologico questo tipo di basi: è storicamente e culturalmente innegabile.




Fluffer

A suscitare pena non sono tanto le celebrità che difendono e giustificano lo status quo, siano esse appartenenti al clero massmediatico dell’infotainment o alle schiere di virologi da salotto, all’esercito degli opinionisti onnipresenti, dei giornalisti totalmente asserviti al potere o delle stelline dell’industria pseudoculturale del divertimento di massa, quanto piuttosto i loro sostenitori o i loro follower, come usa dire oggi.

Quando si leggono i post di questi bramini fautori del politicamente corretto, della litania dei sacrifici inevitabili e dell’irreversibilità di certe scelte, cediamo spesso alla insalubre abitudine di scorrere i commenti sotto, un po’ per osservazione sociologica e un po’, ammetto, per macabra e morbosa curiosità.

Questi festanti e schiumanti adoratori, che fanno quadrato attorno ai loro idoli difendendoli da ogni critica e ribadendo con livore ogni loro posizione, ricordano la grottesca figura dei fluffer, quegli uomini e quelle donne che, nell’industria pornografica antecedente all’avvento dei farmaci per il vigore sessuale, dietro le quinte avevano il compito di mantenere gli attori eccitati tra una una scena e l’altra o in attesa che il regista trovasse l’inquadratura giusta.

Tuttavia, se almeno i fluffer, pur non godendo ovviamente della fama, dei compensi o dell’orgasmo liberatorio degli attori, ricevevano comunque una paga in cambio della loro peculiare attività, gli odierni ed entusiasti seguaci dei social, non solo dal loro titillare e conservare ben turgido ed eretto l’Ego di questi personaggi tramite messaggi di consenso, incitamento e approvazione, non ricavano alcun vantaggio concreto e materiale ma, addirittura, si fanno tragicamente complici, in un capolavoro di masochismo digitale, sindrome di Stoccolma e identificazione proiettiva, della perpetuazione ad libitum proprio del medesimo sistema che mutila ogni giorno sempre più le loro esistenze.

 



La redenzione di Abel Ferrara attraverso Harvey Keitel


"Cristo è il motivo ultimo per cui faccio questo mestiere...Credo che ciò che Cristo rappresenta è qualcosa in cui credere ed è qualcosa per la vita". (A.Ferrara)


Il cattivo tenente di Abel Ferrara ha inizio in una calma mattinata di New York.
Il tenente accompagna i suoi due figli a scuola, tra loro non vi è dialogo, la poca comunicazione che si crea nell'auto durante il tragitto è brusca e rude, egli  accetta a stento di essere salutato con un bacio, ed una volta rimasto solo inizia a sniffare cocaina.

Un uomo senza etica civile, privo di speranze, immerso nelle droghe, nei soldi, nelle scommesse e nel sesso animale ed esibizionista, non fa altro che vivere nell'attesa di nuovi rifornimenti di droghe.
Le attività normali da professionista e padre di famiglia sono per lui una coercizione inaccettabile.
Ma la possibilità di redenzione è dietro l'angolo, una suora viene stuprata da due uomini, il tenente decide così di occuparsi del caso per far giustizia, ma la religiosa non vuole rivelare i nomi degli aggressori.
Per amore di Dio ella decide di perdonarli, scatta allora qualcosa all'interno del protagonista e la sua parabola discendente diviene così un tentativo salvifico.
Un miraggio in chiesa lo porta a confrontarsi con Cristo, ed è proprio in questo incontro che risiede il fulcro del film.
Il protagonista, con l'ego affievolito, diviene consapevole dei propri limiti umani e prende coscienza delle sue debolezze e dei suoi fallimenti.
Ma il Cristo offeso è silente, immobile di fronte ai mugugni, ai lamenti e alle sue richieste d'aiuto. Che la futilità dell'esistenza abbia colpito perfino Dio? Che la malattia dell'inessenziale abbia intaccato l'essenza?

Un immenso Harvey Keitel è il protagonista della pellicola, assolutamente enorme nel ruolo dell' uomo estenuato sia fisicamente che spiritualmente, coinvolto a 360° nel degrado metropolitano, vissuto con tutte le contraddizioni e i paradossi della sua epoca.
Il suo corpo possente e sofferente diviene una rustica icona di immoralità, un vero e proprio simbolo di annichilimento.
Egli si dispera, ringhia, sempre più animalesco, sempre più irascibile, cercando di destreggiarsi come può tra i sotterranei malavitosi della città, pedinato dall'impietoso sguardo di Abel Ferrara in regia (che concede a Keitel praticamente più dell' 80% delle inquadrature del film), impeccabile nell' esplorare tutte le sfaccettature della sua personalità svelandone le ossessioni e la conseguente traiettoria decadente.
Il tenente diviene il simbolo della solitudine dell'uomo nelle metropoli contemporanee, che ricerca emozioni sempre nuove annientandosi in ogni maniera possibile.

Il regista americano crea un ineccepibile noir dalle tinte fosche, la cui regola fondamentale pare esser l'eccesso: partendo dalla locandina che ritrae Keitel in un nudo integrale, passando per le perversioni sessuali del protagonista, sino ad arrivare alle crude riprese delle iniezioni di sostanze stupefacenti.
Abel Ferrara mette in scena la disperazione, resa con immagini scarne e buie, e lo fa con ritmi lentissimi, ma con una tensione psichica di altissimo livello.
La sua direzione filmica è come sempre caratterizzata da ambientazioni e scenografie cupissime, ed a livello stilistico il film ricorda sicuramente il primo Scorsese, quello di Mean Streets, di Chi Sta Bussando Alla Mia Porta e di Taxi Driver, ma per alcuni aspetti anche il primo Cassavetes.
C'è da dire però, che rispetto ai sopracitati qui la regia è ancor più turpe, sgradevole, scarna e radicale, oltre che blasfema.
Il sonoro è spesso caratterizzato da suoni ambientali, fruscii vari e rumori di tv e radio accese, straniante inoltre un pezzo come Pledging My Love, nel contesto della pellicola.

Un film denso, un tunnel tenebroso, struggente e dall'aria irrespirabile.
Folle e lucido allo stesso tempo, è un intenso viaggio interiore, che rende bene l'improvvisa esigenza del Sacro, in un mondo in cui la religione è ormai sempre più ridotta in pillole e nozioni fantascientifiche.
Un vero e proprio inno iniziatico all'insegna dell'autodistruzione, in una sporca New York, ove il silenzio pare essere l'unico suono sopportabile, e dove il rapporto tra uomo e Dio risulta controverso.
Il disordine della coscienza non fa che aprire nel protagonista voragini su voragini, facendolo sentire un' enigma soprattutto per se stesso e portandolo così ad un percorso del tutto insolito per giungere in contatto con il divino.
Harvey Keitel, grazie all'irruenza del suo corpo non fa altro che caricare il personaggio autobiografico di Ferrara, di un' energia bestiale e viscerale in grado di travolgere qualunque cosa.
Con impeto e desolazione, la sua interpretazione fa percepire sensazioni dubbie, ovvero si crede in Dio solamente per evitare il monologo tormentoso della solitudine? Possibile che Dio sia solamente un errore del cuore, così come il mondo un abbaglio della mente? Forse, ma d'altronde lui è l'unico pronto ad ascoltarci di fronte ai nostri scoramenti.
Quando si rimane completamente soli, Dio è in agguato, pronto a infiltrarsi nel nostri più fragili oblii interiori.
Benché l'idea assolutamente inintelligibile del giudizio universale sia un' aperta provocazione per l'intelletto razionale, essa serve tuttavia a definire il nostro nulla. Ma perché egli dovrebbe continuare a esistere anche davanti a prove inconfutabili della sua inesistenza?
Tutto depone per lui e contro di lui allo stesso tempo, poiché tutto ciò che lo smentisce, allo stesso tempo lo convalida.

"E' uno dei più grandi film che siano mai stati fatti sulla redenzione...Fino a che punto si è disposti a scendere per trovarla...Avrei voluto che L'ultima tentazione di Cristo gli somigliasse."  (Martin Scorsese)





Lo specchio dei social network

I social, come qualsiasi altro strumento, non hanno caratteristiche intrinseche che prescindano dall'uso che qualcuno ne fa. Essendo dei contenitori, dipendono da come e con cosa uno li riempie. Certo, chi li ha progettati poteva avere ben precisi e non sempre espliciti scopi, diversi dall'interesse del fruitore ultimo; eppure anche in questo caso rientriamo nell'orizzonte della strumentalità, laddove la strumentalizzazione ne è una possibilità. In ogni caso, chi utilizza i social dovrebbe essere consapevole che nel medesimo momento in cui sono strumento di informazione e condivisione in direzione del mondo esterno, l'utilizzatore diviene visibile a quel mondo che, grazie proprio a tale esposizione, ottiene un potere su di lui. Non è comunque questa l'obiezione che più frequentemente viene mossa al mondo dei social. In genere ci si lamenta del fatto che esprimano conformismo, mediocrità e le tendenze più meschine, basse o riprovevoli del genere umano. A questo si associa la critica che siano inadatti a trasmettere contenuti di tipo culturale o a favorire un dialogo fecondo e costruttivo, privilegiando costitutivamente gli aspetti più frivoli e commerciali dell'industria dell'intrattenimento o lo sfoggio del peggior narcisismo auto-idolatrante.

Vi sveliamo un segreto. Se il paesaggio che i social descrivono è orrido e desolante, è perché ci siamo circondati delle persone sbagliate. Oppure, in alternativa, perché guardandoci allo specchio non ci piacciamo. Vi è inoltre la possibilità che non si abbia nulla da dire, noi e il prossimo che ci siamo scelti, e i social ce lo ricordino amplificando il nostro vuoto pneumatico, che fa da contrappunto all'insaziabile ansia di dire qualcosa per essere ascoltati, anche se si è privi di un messaggio. In alternativa, ci si può risparmiare molte frustrazioni se si è consapevoli dei limiti e delle potenzialità dello strumento che si utilizza. Non si abbatte una montagna con un martello, ma con esso si pianta un chiodo. Se ci si limita a piantare chiodi, se ne possono piantare di ottimi, al netto delle strumentalizzazioni e del costante e inevitabile rumore di fondo che sempre ci accompagna nella nostra quotidianità mediatica.

Perché diciamo questo? Perché le critiche del tipo "facebook è uno strumento funzionale al sistema e proporre in una tale piattaforma contenuti antisistema è paradossale", oppure "parlare di filosofia, religione, e spirito sui social è fuoriluogo", o anche "l'anticonformismo su facebook fa ridere", sono sostanzialmente baggianate. I social siamo noi. Ci rivelano per quello che siamo, anche se ci nascondiamo. Se abbiamo un messaggio, e sappiamo portarlo a chi è capace di ascoltarlo - nei modi in cui è possibile comunicarlo mediante lo strumento che ce ne offre la possibilità - quello che abbiamo da dire arriva: ne abbiamo evidenza tutti i giorni. Può darsi, invece, che si scopra di non aver nulla da dire, o che non siamo in grado di dirlo, e su questo i social sono impietosi, così come lo sono nell'immagine dell'umanità di cui abbiamo scelto di circondarci. Ma questo, di certo, non è colpa di nessuna piattaforma.



Julius Evola, uno studioso strumentalizzato

Su Julius Evola è stato scritto di tutto e di più, sicuramente non si aggiungerà nulla di nuovo qui, né tantomeno si ha la pretesa di spiegare le sue opere in poche righe.
Un aspetto che però a mio avviso si deve continuare a sottolineare è la non comprensione e l’utilizzo politicizzato che si fa dei suoi testi.
Qualcuno giustamente lo ha definito “il maestro che non aveva discepoli”.

Partirei da una risposta che lo studioso romano diede a Gianfranco De Turris in un’ intervista:

“Oggi vi sono gli evolomani. Fenomeni del genere sono inevitabili, ma devo assolutamente oppormi all’affermazione che delle idee da me difese si siano impossessate destre squallide e culturalmente vili le quali di me avrebbero fatto un loro araldo.”

Ed è proprio questo il punto, ovvero l’utilizzo che si fa tutt’ora delle opere di Evola come scudo culturale in certi ambienti del neofascismo.
Quello che è fondamentale da comprendere è che non si può leggere Evola se prima non si riesce a capire il contesto sovratemporale in cui si muove il suo pensiero, altrimenti diviene poi molto semplice cadere in visioni semplicistiche.

E’ bene sottolineare che Evola in democrazia non ha mai preso parte a nessun partito politico, non ha mai dato il voto a nessuna elezione, si è rifiutato di prendere una laurea già conseguita per disprezzo dei titoli accademici, non si è mai sposato e ha sempre avuto uno stile di vita coerente con quanto professato.
A Franco Freda in merito alla creazione di nuovi movimenti politici Evola fece presente che:

“Non credo tuttavia di poter andar incontro al Suo desiderio; le esperienze fatte mi consigliano a non affiancarmi ormai a nessuna formazione che anche consequenzialmente partecipi ad una lotta politica.
Il mio punto di vista, oggi, è quello di cui il mio ultimo libro, Cavalcare la tigre"

Tuttavia, come sappiamo, il nome di Evola è da sempre accostato al fascismo, e si sa che qualunque nome venga avvicinato ad esso diviene un mostro tentacolare da distruggere ancor prima di conoscerne il nome.

Ne “Il cammino del cinabro”, Evola racconta molto bene i suoi rapporti col Fascismo e con Mussolini.
Molti intellettuali di allora salirono sul carro fascista, per poi, una volta caduto il regime, scenderci come nulla fosse.
A differenza loro, Evola ebbe rapporti controversi ed a causa della sua grande onestà e passione fu l’unico in grado di discutere il fascismo a livello di contenuti e non con la retorica.
Egli vide nel fascismo un' espressione della classe media, un fiacco tradizionalismo cattolicheggiante, borghese e conformista.
Affermò:

“Il fascismo è sorto dal basso, da esigenze confuse e da forze brute scatenate dalla guerra europea, si è alimentato di compromessi e di piccole ambizioni”.

I suoi rapporti col fascismo, che in fin dei conti non lo vide di buon occhio, furono in ogni caso controversi e necessiterebbero di analisi approfondite, partendo dai suoi scritti nelle riviste di regime, ma soprattutto prendendo come riferimento la sua limpida autobiografia.
Oggi le nuove destre partitocratiche e borghesi lo annoverano spesso tra i propri riferimenti, e allora credo sia lecito chiedersi cosa abbiano capito costoro della complessità dell’opera di Julius Evola.

Uno degli argomenti più scottanti con cui ci si fa scudo attraverso Julius Evola è il razzismo.
Ma prima di entrare nel merito del problema razziale, è di dovere almeno una brevissima introduzione su ciò di cui si occupò Evola nella sua vita.

Evola studiò la morfologia delle civiltà ampliando le prospettive per tentare di far comprendere a fondo la vera natura del mondo moderno, la derivazione reale della sua crisi,  studiandone dettagliatamente i problemi su più domini.
Evola fu uno studioso completo, dalle correnti artistiche giovanili come il Futurismo e il Dadaismo, egli divenne prima filosofo, attraversando il pensiero di Nietzsche e molti grandi pensatori, per poi elevarsi verso altre sfere, dedicando la sua esistenza allo studio della Tradizione.
Oltre alle sue opere più famose come “Rivolta Contro Il Mondo Moderno”“Gli Uomini e Le Rovine” e “Cavalcare La Tigre”, nella sua vita toccò praticamente tutto, basta solamente citare alcuni titoli dei suoi libri per farsi una idea.
“Metafisica Del Sesso” è uno studio a trecentosessanta gradi sulla sessualità, “Maschera e Volto Dello Spiritualismo Contemporaneo”  è un’ opera tutt’ora attualissima in cui venivano denunciate le nuove correnti neospiritualistiche e psichiche, “La Dottrina Del Risveglio” è un saggio sul Buddhismo delle Origini (che ebbe il crisma del più illustre centro di studi buddhistici), “Lo Yoga Della Potenza” è uno studio sul Tantrismo e lo Shaktismo, “La Tradizione Ermetica”  è un’opera sull’ermetismo alchemico, “Il mistero del Graal”  è un testo sulla regalità.
E non sono tutti, insomma Evola si accostò a diversi ambiti e discipline e lo fece con grande dedizione, pur mostrando dei limiti.
I libri più scomodi , che contribuirono ad affibiargli l’etichetta di “fascista e razzista”, credo però che siano stati quelli sulla questione razziale ed ebraica.
In particolare “Sintesi Della Dottrina Della Razza” e “Il Mito Del Sangue” sui quali ci sarebbe da dire molto.
Ai tempi in cui il regime fascista propagandava il banale “manifesto della razza”, Evola contrappose opere sul medesimo argomento di tutt'altro spessore.
Nel 1937 Evola con “Il Mito Del Sangue” cominciò a studiare seriamente l’argomento partendo dalle visioni del De Gobineau e cercando di comprendere a fondo la derivazione del problema.
Ogni popolo per Evola ha una forza formatrice dall' interno, e le diversità costituiscono la perfetta armonia dell’universo, solo nel molteplice, nel diverso, vi è armonia.
Lo studioso romano non parlò mai di razzismo biologico, riporto un passaggio:

“l’uomo in quanto tale non si riduce a determinarsi con elementi biologici, istintivi, ereditari e naturalistici: se tutto ciò ha una parte trascurata da uno spiritualismo sospetto, esagerata da un miope positivismo, pure sta di fatto che l’uomo si distingue dall'animale in quanto partecipa a un elemento soprannaturale, superbiologico, solo in funzione del quale egli può essere libero e se stesso. Tra l’uno e l’altro elemento intermedio sta l’anima. La distinzione nell'essere umano di tre principi diversi (corpo, anima, spirito) è fondamentale per la veduta tradizionale: questa tripartizione si ritrova in tutti gli insegnamenti tradizionali. A essa corrisponde per esempio la trinità romana di mens, anima, corpus, e quella greca di nous, psychè, soma. La prima componente, il corpo individua il fenomeno biologico, la seconda componente l’anima viene definita in termini di sensibilità vitale, mentre la terza componente lo spirito designa la qualità superazionale e superindividuale che non può essere confusa con l’intelletto astratto di cui parlano i pensatori moderni. In via analogica, la triade umana corpo-anima-spirito corrisponde a quella cosmica  terra-luna-sole.”

Inoltre riferendosi a Hitler e al mito della razza superiore, Evola affermava:

“E’ il mito quale lo può concepire un dilettante che si accontenta di formule vaghe da usare come semplici strumenti politici”       
       
Anche il modo in cui Evola considerò il problema ebraico era assai diverso dalle posizioni de “La Difesa Della razza” e degli altri documenti del regime.
Evola dimostrò come l’azione “corrosiva”,di cui tanto si parlava ai tempi,era svolta da elementi ebraici secolarizzati, staccatisi dall’antica tradizione. Anzi, contro la tradizione ebraica, Evola aveva ben poco da eccepire, lo si può notare anche solo dal fatto che egli spesso nei suoi libri citi la Kabbalah, antichi testi sapienziali e autori ebrei  (come ad esempio Michelstaedter).
Non parlò mai di razza antropologica in riferimento agli ebrei ma di un miscuglio tenuto insieme da alcune caratteristiche spirituali. In “Tre aspetti del problema Ebraico” egli fu molto chiaro sull'argomento.

Tutto questo per dire, onde evitare fraintendimenti, che non esiste alcun testo di Evola che possa essere letto senza un’adeguata preparazione, davvero in troppi negli anni hanno interpretato in maniera limitata o mal compreso e politicizzato i suoi scritti.
E' evidente che la divulgazione a tappeto dei suoi testi ha inevitabilmente prodotto delle risultanti preoccupanti.
C’è chi si è chiuso in una torre d’avorio con snobismo aristocratico credendo di essere l’unico depositario di grandi verità. O chi, causa l’ “anarchia” Evoliana nel non inserirsi in alcuna tradizione ortodossa, ha amalgamato i suoi studi con quelli di personaggi come Crowley e Kremmerz facendo una bella frittata.

Certo, qualcuno ora potrà controbattere che “gli alberi si valutano dai frutti” ed anche questo è vero.
Se in tanti hanno frainteso il pensiero di Evola qualche responsabilità lo studioso romano deve pur avercela.
Ed effettivamente è così, Evola ha percorso tanti sentieri ed in vecchiaia molti di essi li ha riconosciuti come fallaci (basti pensare ad un'opera come Imperialismo Pagano, rivalutata in negativo dall'autore).
Era un uomo, non un profeta, ha intuito molti scenari in anticipo, ha fatto ottime analisi ma allo stesso tempo anche tanti errori.

Il fatto che in molti lo abbiano scambiato per un guru infallibile non è però certo colpa del Barone la cui spinta verso la conoscenza fu comunque autentica e profonda.



L'ansia postmoderna

Non si possono dare voti alla storia del post marxismo, liquefatto in deserti ombrosi fasciati e moltiplicati per mille fino a spezzare l'autismo di wall street, facendolo uscire tumefatto agonico pezzo di marmo-porpora in un altrove artaudiano: oltre la Parola c'è il cinismo del Suono, percezione sonora (Ligeti) che appartiene alla memoria bergsoniana: meta-linguaggi e amoralità robotica che fendono i nostri sorrisi: ricordi purulenti-verminosi che non ci appartengono più: sfocate esplosioni di violenza inconscia che impediscono la consequenzialità dell'azione. Luigi Nono, Stanley Kubrick e l'egresso terminale ballardiano sparato dritto in un 3000 tecnocratico ultracapitalista che è già odierno.
Poiché il denaro è il centro del nostro sistema, economico e sociale, noi abbiamo dovuto adattare il nostro passo al suo.
Basta entrare nell' ufficetto di qualsiasi piccolo broker, accerchiato da monitor, altoparlanti, telefoni, fax, lo sguardo fisso sullo schermo gigante e multicolore della Reuter che, attraverso un megacalcolatore, lo tiene collegato in modo permanente con 20.000 case finanziarie con tutte le grandi Borse del mondo, per capire a quali stress, a quali fibrillazioni, a quali sollecitazioni da Formula Uno sia sottoposto un uomo che lavora con il denaro in fibra ottica. Solo un po' meno evidenti ed esasperati sono gli stress, le fibrillazioni, le sollecitazioni che ritmano l'esistenza di tutti coloro che vivono all'interno dell'odierna economia monetaria. Ciò spiega anche l'apparente paradosso, che è esperienza comune e quotidiana, per cui l'uomo moderno, che proprio allo scopo di risparmiare tempo dispone di mezzi velocissimi per muoversi e comunicare (automobili, aerei, telefoni, web, fax), non ha mai tempo, è in perpetuo affanno, con gli occhi costantemente fissi all'orologio.
Sono i ritmi cui ci obbliga la logica del denaro che è lo spirito del denaro (guadagno sistemico) a prenderci il tempo.
Il mito della moltiplicazione del denaro, della crescita ad infinitum, non muore mai e, dopo un po', si è pronti a ricominciare.
Chi ha instaurato nella nostra civiltà questi principi "liberal-internazionalisti" sono gli stessi che hanno instaurato l'idea di villaggio globale, idee che sono alla radice della nostra estinzione.




La natura della musica industrial ed il politicamente corretto

A cosa serve una cultura industriale che non sappia sopportare contraddizioni, esibire lo scandalo, mostrare ciò che nessuno mostra, suscitare quelle sensazioni ed evocare quei fantasmi che la cultura ufficiale rigetta?

Attenzione: non dico condividere, dico sopportare, esibire, documentare, in senso extra-morale e fuori (per quanto umanamente possibile) da qualsiasi forma di filtro, mediazione o opinione personale.

Spesso assistiamo a reazioni isteriche e scomposte di molti "esponenti" di questo ambiente a qualsiasi discostamento da una sensibilità media e condivisa. Più volte è capitato di vedere eventi boicottati per la sola presenza di artisti "sgraditi". Ciò denota la riduzione della musica industriale a puro fenomeno estetico a scapito della sua portata culturale genuina, che è appunto essere strumento di rottura, e ripeto contraddizione; in altre parole, soglia di rischio e criticità della sensibilità canonica. È una deriva seria, perché quando le culture alternative o antagoniste non sono più in grado di sopportare il pensiero "altro" e la sua dimensione scandalosa, si risolvono in vuoto formalismo.

Nel secolo scorso, quando la musica industriale era considerata cosa seria, forse perché ancora vicina alle origini e quindi lungi dall'aver scaricato le pulsioni che avevano dato origine al movimento, certe prese di posizione non si vedevano. Non perché ognuno aderisse indiscriminatamente a qualsiasi idea, ma perché si riteneva che l'industrial potesse recare al suo interno il seme della differenza, anche il più fastidioso, senza doverne rendere conto a nessuno. Il suo ruolo era di essere luogo di shock culturale, di provocazione, di decostruzione dei codici del linguaggio, dell'informazione e del comportamento.

A che serve una cultura industriale educata, normalizzata, che richieda patentini ideologici per autorizzare l'agibilità artistica? Chi può arrogarsi, inoltre, il diritto di essere "padrone del discorso" laddove l'impegno è la messa in discussione dei pilastri del discorso stesso?