Skinner e il comportamentismo: tra riduzionismo e distopia.

B. F. Skinner (1904 - 1990) fu con ogni probabilità il più importante e influente rappresentante del Comportamentismo, un indirizzo psicologico che ritiene essere il comportamento visibile e registrabile l'unico dato analiticamente rilevante e utile all'analisi psicologica. 

Alcune espressioni riduzionistiche del Comportamentismo, a cui molti passi sembrano affiliare lo stesso Skinner, giungono a negare l'esistenza di una dimensione interiore dell'essere umano, riducendo quest'ultima a una pura strategia ermeneutica dell'individuo utile per interpretare, comprendere ed esprimere il suo medesimo comportamento: l'uomo, secondo questa visione, sarebbe riducibile ai suoi semplici atti, da cui emergerebbe come unità e coscienza solo in quanto fenomeno di superficie di un espediente cognitivo utile alla riflessione. 

Non è questa la sede per evidenziare paradossalità e ricorsività di forme di riduzionismo analoghe, ben note ad esempio all'ambito delle neuroscienze: quello che conta rilevare è che Skinner, più che interessato all'ontologia, appare essenzialmente alla ricerca di un modello umano che possa essere interamente risolto in laboratorio e nella prassi sperimentale. Da questo punto di vista, il soggetto di Skinner, ridotto all'insieme dei suoi atti, risulta essere omogeneo alla teoria comportamentista basata sul sistema di stimolo e risposta, e perfettamente adeguato alla prassi del condizionamento operante, esemplificato nelle ben nota "Skinner box".
L'aspetto tuttavia più caratteristico e originale dell'opera di Skinner fu la sua proposta di applicare il condizionamento operante all'ambito della società, in modo da costruire un perfetto sistema di controllo volto a eliminare tensioni e contrasti sociali e a rendere il vivere comunitario interamente progettabile. Questo sarebbe stato possibile, secondo Skinner, solo a patto di abbandonare o ripensare alcuni concetti ormai inadeguati alla sfida della sopravvivenza della civiltà occidentale, quali l'idea di libertà o di dignità dell'individuo: solo rinunciandovi, e attraverso una costante attività pedagogica, si sarebbe potuto creare una società perfettamente armonica e pianificabile, capace di competere con civiltà più giovani, vitali e dinamiche, quali quelle dei paesi in via di sviluppo. 

Un'utopia / distopia che qualcuno definì felicemente un esempio di "fascismo senza lacrime"; sogno / incubo ricorrente di molta letteratura del '900, che in Skinner assunse inquietantemente la dignità di programma scientifico.



De-spiritualizzazione

Tra i processi di de-spiritualizzazione che coinvolgono l’antropologia contemporanea quello della secolarizzazione delle domande esistenziali di senso è la più preoccupante. Da quando il nichilismo della società tecnologica post moderna, reduce della fine del sacro intesa in termini religiosi quanto etici, ha ridimensionato lo spazio interiore dell’uomo, le ansie costitutive dell’essere umano sono state adeguate al mondo scientifico e clinico in cui ci troviamo, nel quale non c’è posto se non per la nuda vita spoglia della dimensione dell’oltre.

Così, l’anelito all’ignoto e la tensione verso il trascendente sono stati sostituiti dalla paura concreta e reificata del mondo, dall’ossessione per la malattia e per il corporeo, le quali si tramutano in un atteggiamento di preoccupazione angosciante e estenuante per l’esistenza stessa.

Il mondo medicalizzato che assume le sembianze di una clinica, supportato dalle spinte tecnico-scientifiche, esautora l’individuo dallo sforzo dello scavo interiore per portare in superficie gli interrogativi spirituali, i quali invece meritano una riflessione approfondita che deve rimanere sempre viva. Le spinte della coscienza vengono progressivamente depotenziate per essere sostituite da un’ansia generalizzata rivolta indistintamente alla vita stessa.

Non è ammesso l’approfondimento della dimensione escatologica, superata dalla modernità e lascito di un mondo mitico-spirituale caduto in rovina. Le persone possono tuttavia riversare questa fondamentale funzione antropologica e psicologica sul fronte emotivo, giacché le emozioni appaiono più facili da sperimentare interiormente. La paura e la speranza si percepiscono in maniera intensa e su queste si possono fondare comportamenti e atteggiamenti di massa svincolati dall’attenta analisi della ragione: è il compimento perfetto della società patologica per eccellenza, nella quale i sentimenti vengono liberati sregolatamente senza essere passati prima dal vaglio della razionalità. Le energie psichiche e intellettuali dedicate alla dimensione dei destini ultimi, che spinge l’uomo alla ricerca del senso, sono state sottratte ad essa e rivolte alla creazione di uno spazio privato e irrazionale dove regnano le paranoie, le ansie e le preoccupazioni. Lo sfruttamento di tali istanze intime da parte delle istituzioni e dei media consente di assicurarsi un controllo totale sugli individui, che si lasceranno manovrare dall’esterno pur di porre fine al senso di precarietà e instabilità in cui sono costretti a vivere.

La vita viene vissuta nella paura totalizzante generata da ciò che sfugge al controllo umano ed è su tale paura ansiogena e pervasiva che i sistemi politici fobocratici istaurano il loro consenso, alimentandola costantemente. I popoli vengono stimolati all’ansia di modo che si rifugino nel proprio personale mondo emotivo in cerca della pace interiore, perdendo contatto con la realtà fattuale e non riuscendo più ad analizzare lucidamente i fatti. Si crescono giovani problematici, ansiosi e paranoici, sempre bisognosi di aiuto e di consolazione, che come bambini indifesi non abbiano né la forza per sopportare il doloroso senso di spaesamento e privazione che svuota incessantemente le loro esistenze né il coraggio di sognare le basi di un nuovo mondo.

Alla spiegazione causale e razionale degli eventi si sostituisce la fede cieca nelle narrazioni dominanti e di conseguenza nelle bizzarre soluzioni proposte alle problematiche sociali, che acquietano momentaneamente gli animi tormentati di impauriti inetti. Per far fronte ai vuoti lasciati dalla carenza di spiritualità, la società dell’ansia riempe le cavità interiori con racconti emozionanti, carichi di passioni contrastanti, che sembrano, solo in apparenza, restituire un po’ di quella profondità spirituale dimenticata, che anche l’uomo moderno continua a ricercare nonostante non si proponga gli strumenti mentali per rifondarla e coltivarla.

Regole e tabù bellico-pandemici per fronteggiare la mancanza di valori etici; ossessione, paura e speranza al posto della ricerca spirituale dell’oltre.

Il vuoto lasciato dalla de-spiritualizzazione dell’uomo colmato con l’ansia. 




"Fahrenheit 451" di Ray Bradbury

Sconvolgente, visionario, potente e coraggioso, "Fahrenheit 451" di Ray Bradbury non è soltanto una pietra miliare nel panorama della "fantascienza", ma un vero e proprio "avvertimento", un monito per il presente, un testo che affonda le sue radici nella realtà e nelle deformazioni del quotidiano. Scritto nel 1953, in piena guerra fredda, il romanzo è ambientato in un ipotetico futuro dove si cercano, per bruciarli, gli ultimi libri scampati ad una distruzione programmata e sistematica, conservati illegalmente. Il protagonista, Guy Montag, pompiere di professione, ha proprio questo compito: invece di domare le fiamme, appicca incendi funzionali alla distruzione dei testi "proibiti". L'incontro con Clarisse ed il vecchio professore Faber farà vacillare le sue certezze e muterà per sempre il corso della sua esistenza. La denuncia del clima da caccia alle streghe dell'epoca del senatore Mc Carthy, la presa di posizione netta contro la rinuncia aprioristica al libero pensiero, nei confronti dell'interferenza soffocante dello Stato nella sfera privata del singolo e della censura, la difesa della cultura e della letteratura, rendono lo scritto dell'autore statunitense vivo, pulsante, particolarmente attuale ed aderente al nostro periodo storico. Una sorgente d'acqua cristallina da cui attingere a piene mani, che mette in guardia contro il condizionamento psicologico delle masse e l'incapacità di ribellarsi ad un governo che annienta, con violenza, ogni forma di dissenso, che ingabbia l'uomo in schemi precostituiti, inibendo spirito critico e violentando la sua natura. Tagliente ed angosciante, ma nel contempo carica di speranza e redenzione, l'opera di Bradbury è profetica, emozionante, da leggere tutta d'un fiato. È un invito al lettore ad agire prima che lo scenario distopico descritto nelle sue pagine si concretizzi per cristallizzarsi, inesorabilmente, nella cruda realtà.

"Un libro è una pistola carica"


"Il campo dei Santi" di Jean Raspail

Caratterizzato da una prosa raffinata, potente e dai ritmi serrati, " Il campo dei Santi" di Jean Raspail, pubblicato nel 1973 e tradotto in Italia nel 1998, è molto di più di un romanzo fantapolitico. Il testo, vero e proprio "grido disperato" dell'autore, rappresenta infatti una dettagliata analisi dei tempi moderni, un lucido ed inquietante ritratto dello stato comatoso in cui versa al giorno d'oggi l'Occidente, alla mercé di folli politiche d'immigrazione, divorato da falsi sentimenti di solidarietà ed accoglienza, incapace di difendersi e di preservare intatte le proprie radici, attanagliato nella morsa del globalismo più sfrenato. Il libro, aspramente criticato all'epoca e tacciato di "razzismo" da accademici e studiosi dei fenomeni migratori, demolisce con lucidità ed assoluta lungimiranza i miti buonisti dell'accoglienza a tutti i costi, dell'inclusione "violenta", dell'integrazione forzata, anticipando temi al giorno d'oggi attualissimi e molto dibattuti. 

La folla di paria indiani, guidata dal "coprofago" e  partita da Calcutta in condizioni assurde e disumane, l'atteggiamento remissivo delle autorità politiche, religiose e dell'opinione pubblica dinnanzi all'avanzare dell'armata dell' "ultima chance" sino all'approdo sulle coste francesi, il lavoro mellifluo di una stampa corrotta e schiava di assurdi cliché, rappresentano alla perfezione la crisi di valori che caratterizza la società moderna, l'arrendevolezza di una civiltà che ha scelto il suicidio assistito anziché la lotta per la sua  sopravvivenza, incarnata dal vecchio abitante della montagna che non vuole cedere la sua casa all'invasore. "Scorretto" e mai banale, " Il campo dei Santi" è un bagno di realtà, una lettura imprescindibile per chi ha a cuore identità, cultura e tradizioni. Per chi vuole addentrarsi in tematiche scomode, forti, scevro da buoni sentimenti preconfezionati e melensa retorica.




Guerra

Ogni guerra non è mai giustificata, ripetono le solite voci mai esauste. Sarà poi vero?

Per fare chiarezza, bisognerebbe innanzitutto interrogarsi sui rapporti che intercorrono tra guerra e giustizia. Per dire che nessuna guerra è giusta o giustificabile, dovremmo impegnarci innanzitutto a riconoscere il principio che la violenza, a cui chi pronuncia questa espressione in genere riduce il fenomeno guerra, non è mai equa. Principio evidentemente falso, o perlomeno perpetuamente disatteso, visto che il sistema penale, il quale è sempre espressione di violenza e coercizione, è parte integrante del modo in cui amministriamo ordinariamente la giustizia. Ricordiamo inoltre che all'attacco si risponde normalmente con la difesa, cosa che perlomeno rende giustificata la guerra difensiva, a meno che non si ritenga doveroso il lasciarsi sopraffare da qualsiasi prepotente. Ma se la difesa è giustificabile, è giustificabile, almeno in linea di principio, anche la guerra che previene un realistico rischio di offesa. Questo senza entrare nel merito di casi specifici, e con la stessa generalità del principio che sopra si critica.

Si potrebbe allora obbiettare che ingiusto non è difendersi, ma dare inizio a un conflitto. Fermo restando che, come ricordato, la guerra che previene l'offesa è una forma di difesa nonostante sia di fatto l'inizio delle ostilità, sembra che qui si perda di vista l'essenziale, ossia che la guerra non è un fenomeno irrelato o privo di un contesto che lo precede. La guerra non è mai l'inizio, ma, secondo la tesi classica di Von Clausewitz, è il proseguimento della politica con altri mezzi. Vorremmo ricordare che polemos, in greco, indica il demone della guerra, in primis la guerra civile. La politica, pertanto, si configura come la gestione di una dimensione originaria di conflitto – prima che tra nazioni, tra singoli cittadini – che si attua attraverso la mediazione di forze ed esigenze contrapposte. Quando tale mediazione ha successo, si realizza quello stato di equilibrio che definiamo pace. Tuttavia, quando tale mediazione non è possibile tramite un compromesso o il riconoscimento dell'autorità che lo impone, laddove l'equilibrio si sia rotto e le forze in contrasto siano divenute incompossibili, ecco che il demone polemos, evocato dal fallimento della diplomazia, sorge per istituire una nuova forma d'ordine.

Da questo deduciamo che la guerra non è mai l'origine del conflitto: il principio è il fallimento o il rifiuto della politica. Dobbiamo inoltre tenere presente che la pace non è la condizione originaria, né la norma storica, ma un'eccezione frutto d'arte; un manufatto esposto al rischio di fatiscenza e degrado. La guerra, dunque, è da sempre un tragico fattore di equilibrio; tragico, appunto, nel suo tendere al sommo “bene”, la pace, mediante il sommo “male”, la violenza. Essa è fulgida rivelazione del fondamento ostile della società; non sorprende, pertanto, che in quanto manifestazione del vero, essa sia stata riconosciuta, da epoche più realistiche della nostra, anche espressione di bellezza. Chi nel '900, in modo ridicolo e inverosimile, immaginò la fine della storia, dovette infatti spingersi a teorizzare l'estinguersi di ogni conflitto. A dispetto di qualsiasi atteggiamento irenistico, moralisticheggiante e sentimentale – quindi in definitiva antimetafisico – i nostri padri, che combattevano con ethos e rispetto, prima che del nemico, del polemos stesso, erano consapevoli che la guerra era inalienabile dalla vicenda umana, proprio perché la pace ne rappresentava la risoluzione finale. Ogni provvisorio accordo, erano consapevoli quegli uomini, non è che figura evanescente dell'ultima e definitiva pace, che non è possibilità umana realizzare, ma esclusivo appannaggio divino.



Le grandi teorie del complotto e la secolarizzazione

L'espressione “teoria del complotto” rimanda nell'immaginario comune a un insieme di congetture volte a spiegare vicende storiche o scenari politici, presenti o passati, ricorrendo a presunte responsabilità occulte di agenti terzi, i quali, dietro ai fatti e alle dinamiche visibili, perseguirebbero finalità private e distinte da quelle apparenti o dichiarate. Peculiari delle teorie del complotto sarebbero l'indimostrabilità, l'interesse fazioso, la ricorsività logica, l'assenza di qualsiasi soddisfacente criterio storico o scientifico.

Sarebbe banale ricordare il consueto utilizzo strumentale e ideologico che si fa di tale espressione, a cui spesso si ricorre per screditare quelle tesi particolarmente scomode che denunciano interessi invisibili dietro quelli manifesti, siano essi reali o meno. Altrettanto inutile sarebbe ricordare come la storia si sia occasionalmente rivelata teatro di scenari analoghi a quelli descritti dai cosiddetti “complottisti”, con esiti sorprendenti e talvolta superiori a quelli dell'immaginazione. Infine, è superfluo ribadire che, nonostante le precedenti premesse, gran parte di tali teorie presentino effettivamente i limiti che vengono loro imputati, ossia siano frutto di fantasia, quando non deliberati strumenti di depistaggio o distrazione dell'opinione pubblica.

Piuttosto che ridurre la questione del proliferare di tali elaborazioni a fenomeni di sottocultura o disinformazione, crediamo sia utile chiedersi a quali pressanti quesiti elusi simili modelli di spiegazione causale rispondano, al punto da divenire fenomeni di massa.

Innanzitutto è evidente che tali teorie assecondino il bisogno di una percezione della realtà stratificata, che restituisca una sorta di profondità mitica a un orizzonte quotidiano appiattitosi sulla cronaca e la narrazione orizzontali. Le grandi teorie del complotto immaginano un mondo ancora contrassegnato da nette linee di demarcazione tra il bene e il male, dove l'agente cospiratore, nelle sue varie incarnazioni, è figura del demoniaco, soprattutto nel suo ruolo occulto di eterno nemico dell'umanità. Il cospiratore è il detentore di un potere superiore a quello delle potenze visibili: un novello e tenebroso arconte che trattiene le cellule di coscienza dormiente nell'ignoranza e nella menzogna. E' facilmente riscontrabile uno schema tipicamente gnostico nel percorso che conduce alla salvazione: è la conoscenza delle dinamiche occulte che permette all'esiguo gruppo dei risvegliati di sollevarsi e guadagnare l'agognata libertà e sventare la catastrofe finale. Spesso nella narrazione ricorre una figura profetica, ossia colui che per primo ha avuto accesso alla verità e l'ha condivisa, nonché quella di un salvatore messianico, il quale è destinato a guidare la rivolta dei risvegliati e condurre l'umanità alla vittoria. In generale, l'idea centrale è che il mondo dei fenomeni storici e politici galleggi su un sostrato causale noumenico di natura malvagia ed egoistica, se non addirittura satanica, che è possibile dissipare solo attraverso una conoscenza che è appannaggio di pochi, la quale si acquisisce per superiorità innata o per una sorta di iniziazione profana.

In sostanza, il modello delle teorie cospirative più radicali ha caratteristiche pseudo-religiose e neospiritualiste. Si tratta dell'ennesima irruzione della naturale tensione umana alla trascendenza in seno a una società secolarizzata che non dispone più di dispositivi culturali adeguati alla sua soddisfazione. Questo spiega come la frequente irrazionalità di tali dottrine non costituisca agli occhi dell'adepto una loro valida messa in discussione, essendone il movente extra-razionale. Rende ragione inoltre del fanatismo di cui sono oggetto, direttamente proporzionale al rimosso a cui rispondono. Chiarisce infine che non possono essere realmente confutate su un piano logico/argomentativo, ma solo sostituite con valide alternative culturali e spirituali, sempre più rare nel repertorio del nostro tempo.



Il mito efficientista

Quest’epoca sta condannando il principio di causalità all’irrilevanza.

Questo è il frutto del prevalere, in ogni campo, della statistica, fiorita rigogliosamente da alcuni decenni grazie alla capacità dei computer di immagazzinare miliardi di dati, di confrontarli, incrociarli e ottenerne statistiche mastodontiche. E più grande è la mole dei dati di cui si dispone, più veridico sarà il risultato del calcolo statistico.

Ma perché questo fenomeno condanna all’irrilevanza il principio di causalità?

Se al fenomeno A consegue il fenomeno B in una percentuale di casi giudicata sufficiente (statisticamente significativa, si dice), questo basta a collegare i due fenomeni, anche qualora non si riesca a stabilire logicamente un nesso di causalità fra A e B.

Questa impostazione mi pare si stia imponendo in una serie di campi, non ultima la medicina, ove la evidence based medicine, che della statistica fa il suo strumento d’indagine principale, non cerca nessi causali, ma rapporti di probabilità fra fenomeni, senza porsi il problema della causalità, ovvero del come due eventi siano logicamente collegati – secondo un nesso causalità appunto.

Porsi il problema del perché, del come, in una parola del nesso causale che legherebbe A a B (e di eventuali altri fattori che possono interferire, rendendolo più o meno efficace) viene visto, bene che vada, come ricerca puramente speculativa e dunque come perdita di tempo. Se un numero, una probabilità contempla già la causalità biologica, ed in esso siano implicitamente contemplati anche i possibili fattori favorenti o e quelli al contrario interferenti perché perdere tempo a cercare meccanismi causali, logicamente plausibili? C’è già il dato statistico che lega i due fenomeni secondo una percentuale di probabilità indiscutibile, e tanto basta, almeno sul piano operativo, a trarne le debite conseguenze.

Ovviamente si possono affinare i calcoli statistici all’infinito: si sa, ad esempio che dall’evento A segue il problema B nel 90 % dei casi; ma il nostro paziente soffre di una ben determinata malattia e in questi casi dall’evento A segue B solo nel 76 % dei casi: quella malattia interferisce dunque in qualche modo in quella concatenazione di eventi che da A porta a B, rendendola più improbabile (chissà perché? E chissà come avviene tale interferenza? Ma questo non interessa!); inoltre quel paziente ha il gene Z, e in pazienti che presentino quell’allele Z da A segue B addirittura nel 99% dei casi, perché quel gene, al contrario, favorisce la catena di eventi che da A porta a B  (di nuovo: il perché, il come e con quale meccanismo ciò avvenga non interessa): facciamo ora quattro calcoli rigorosamente statistici, teniamo conto del dato generale, della malattia di quel paziente e del fatto che il paziente presenta l’allele Z e sapremo che in quel preciso paziente da A seguirà B con una probabilità del 89%!

Ecco, a cosa ci serve, a questo punto capire come e perché?

Tutto questo può agevolmente essere trasporto anche in campi totalmente diversi da quello medico: se nell’ambito del marketing si vede che statisticamente gli acquisti di macchine sono più frequenti il mercoledì pomeriggio, questo basta per indirizzare il mercato in modo da fare meglio affari, indipendentemente dalla causa di questo fenomeno: inutile perdervi tempo a pensarci, affrettiamoci a vendere più macchine il mercoledì pomeriggio.

Ovviamente questa impostazione è possibile da quando disponiamo di elaboratori capaci di immagazzinare miliardi di dati, di collegarli e farci quasi istantaneamente complicatissimi calcoli statistici.

In quest’ottica possiamo interpretare il principio di causalità come un brillante strumento che permetteva di cortocircuitare questi complicati calcoli: un cervello incapace di memorizzare, confrontare e elaborare milioni di dati non poteva che stabilire, dopo qualche osservazione empirica, un nesso di causalità fra due fenomeni che, se appariva logicamente plausibile, veniva dato per acquisito e permetteva di interrompere l’osservazione e rivolgere la mente ad altro.

Ovviamente l’errore è, in questi casi dietro l’angolo, e nessi causali sbagliati ne sono stati formulati tanti. Molto più sicuro, e dunque efficiente, stabilire un nesso consequenziale (in senso puramente temporale) fra fenomeni osservati miliardi di volte, stabilire una percentuale di probabilità che all’evento A consegua l’evento B piuttosto che scoprire dubbi nessi causali.

Ovviamente con questa visione verrebbe a cadere la distinzione fra certezza e probabilità: ogni consequenzialità sarebbe corredata da un grado di probabilità (un oggetto lasciato andare cade a terra: probabilità 99,99 periodico %; Tizio beve acqua e spegne la sete, probabilità 99 %; Caio calcia la palla e fa gol, probabilità 15 % ecc). Probabilità calcolate per ogni singolo individuo tramite il profilo tracciato dal suo PC che ne riflette perfettamente azioni, successi, risultati, qualità, difetti ecc.

Ma saputo che il fenomeno A segue con estrema probabilità l’evento B, e riorganizzatisi di conseguenza, cosa ci serve sapere se da A segua SEMPRE B, ovvero se ci sia un effettivo nesso causale o meno? Certo, ci saranno casi in cui da A non seguirà B (il calcolo è sulle probabilità, non sulle certezze), ma questo non scuote le fondamenta di questa nuova impalcatura mentale: da sempre alcuni sporadici insuccessi sono considerati effetti collaterali inevitabili di qualsiasi teoria o sistema, ovvero un prezzo equo da pagare per il buon funzionamento globale di un sistema efficiente. E soprattutto, a cosa servirà sapere PERCHE’ ad A segua B?

Insomma, oggi con i computer potenti, il principio di causalità è condannato all’irrilevanza.

Mi sembra fra l’altro che questa impostazione ricalchi perfettamente quella di Hume, secondo il quale anche se due fenomeni si accompagnano costantemente l’uno all’altro, non potremo mai sapere se sono legati effettivamente reciprocamente da un nesso di causalità. Potremo solo dire: finora ho sempre visto che da A segue B, ma non posso prevederlo con certezza anche per il futuro.

Ecco dunque una nuova declinazione della vittoria dell’empirismo inglese sul razionalismo continentale.

Come questo cambierà il cervello degli uomini ed i suoi meccanismi ragionativi è ovviamente difficile da prevedere, anche se già emerge qualche allarmante fenomeno: gli studenti di medicina accolgono di solito con indifferenza le spiegazioni fisiopatologiche – ovvero quelle spiegazioni che permettono di capire come da A, evento iniziale della malattia, si passi a B e poi a C fino a giungere, secondo una catena di nessi causali, ai sintomi e segni della malattia - mentre imparano con entusiasmo i risultati degli ultimi lavori scientifici che documentano alcuni fenomeni esclusivamente si base statistica, senza domandarsi minimamente il perché di quei fenomeni.

Certamente perderemo la capacità speculativo-filosofica, e chissà quanto altro con essa. E certamente il ragionamento in quanto tale perderà il suo fascino: basterà praticamente sapere che A comporta quasi sempre B e ci si regolerà di conseguenza. E con la categoria della causalità cadranno magari anche altre categorie kantiane.

Il mondo votato al mito efficientista non necessiterà più di considerazioni sul perché.

Il perché diventerà una domanda obsoleta, vana e forse considerata retrograda.



Tornare alla vita

Il volto dei nostri figli sta svanendo. Le loro grida di gioia sono soffocate, i loro sorrisi nascosti da un'insalubre pezza, la loro vitalità mortificata dallo spettro di un morbo in perenne recrudescenza, dal terrore dell'isolamento, dall'impossibilità di avere una vita sociale appagante, da una propaganda martellante che li ha resi, in questi mesi, meri veicoli di contagio, pericolosi replicanti di virus.

Il volto dei nostri anziani sta svanendo. Sotto una maschera che ne altera le fattezze e ne inasprisce le rughe, mettendo a tacere esperienza e vissuto, si cela la paura di un'esistenza mutilata che sta evaporando, di una salute che diventa ogni giorno ricatto ed abbandono, travolti dal silenzio, dal timore di finire in ospedale e non vedere più i propri cari, incastonati nel cristallo di un universo fatto di stravolgimento e distanze.

Il nostro volto sta svanendo. Nella morsa di una routine fatta di gesti meccanici e consuetudini malsane, con il corpo ridotto a merce in scadenza ed un lasciapassare da rinnovare per poter vivere, costretti e compressi in una quotidianità ribaltata, in un mondo che stentiamo a riconoscere, in uno spirito d'adattamento che ha il sapore della sconfitta, i colori spenti del tetro tramonto che si è abbattuto sulla nostra civiltà.

Guardiamoci allo specchio. Questi non siamo noi, questo non può essere il nostro presente. Non è quello per cui abbiamo lottato, passato notti insonni, sudato, sgomitato, studiato, lavorato, amato, rischiato. È la nostra anima che dobbiamo ritrovare, è il nostro cuore insanguinato che deve tornare a pulsare con rinnovato vigore. È scoccata, inesorabile, l'ora di tornare alla vita.

"Ma c'è un modo solo per non morire mai e quel modo è vivere davvero".



Post-moderno e post-democrazia

All'ordine democratico seguirà quello post-democratico, così come all'orizzonte moderno ha fatto seguito quello post-moderno. Entrambi, al medesimo tempo, realizzazione e fallimento della realtà che superano. L'antinomia appare dunque la cifra dei nostri tempi.

L'alba della modernità fu la fiducia ingenua e indiscriminata nelle facoltà orizzontali dell'uomo e nella razionalità immanente alla natura e alla storia. Questa visione programmatica andava a contrapporsi, ideologicamente, a un astratto mondo di superstizione e oscurantismo con cui, in misura più o meno assoluta, venivano identificate tutte le epoche precedenti. All'immobilismo delle culture tradizionali, il cui sforzo era teso a custodire e tramandare il proprio deposito nel tentativo di sottrarlo al tempo e alla corruzione, la modernità contrappose il mito del progresso, secondo cui la vicenda umana percorre un cammino lineare ascendente, la storia appunto, che mira a compiersi gradualmente nel tempo.

Il post-moderno, ossia l'orizzonte in cui, cinicamente, ogni certezza dilaga, sostituita da un relativismo radicale e dalla consapevolezza della provvisorietà di ogni orizzonte di senso, non fu semplicemente l'esito della delusione scaturita dal venir meno del moderno alle sue promesse: fu piuttosto il suo reale compimento secondo i propri medesimi presupposti. Il moderno, infatti, prometteva un mondo svincolato da principi trascendenti; un Eden profano eretto sulla razionalità, compreso dalla scienza e realizzato dalla tecnica.

Un mondo interamente umano, tuttavia, non poteva che ereditare la tara principale dell'umanità stessa, ossia l'assenza di un centro. Le civiltà tradizionali riconoscevano all'uomo il ruolo pontificale di mediatore tra terra e cielo, tra eternità e tempo. Il mondo a cui l'uomo moderno abdicava altro non era che il luogo in cui tale mandato era solidamente realizzato nel costante volgersi al principio. Perso tale riferimento, la razionalità si rivelò incapace di produrne uno alternativo dotato della solidità necessaria a reggere un ordine stabile di verità. L'esito fu di generare, da una parte, una scienza acefala, orientata produttivamente e dagli esiti potenzialmente inumani, e dall'altra una forma di nichilismo radicale e disperato, da cui l'ottimismo moderno fu sopraffatto e atterrito.

La democrazia nacque da esigenze affini a quelle moderne. Essa mosse dall'ottimistica volontà di superare il dispotismo tradizionale, ossia l'idea di un potere conferito dall'alto secondo principi considerati immutabili, in quanto conformi ad una verità trascendente. In tal modo si intese affermare, nell'ambito politico, il primato dell'uomo concreto e storico, svincolato dal suo mandato metafisico. A fronte di un sistema concreto di dignità e virtù, che definivano l'ordine gerarchico tradizionale, si preferì l'astrazione giuridica ed economica, espressione della nuova esigenza di razionalizzazione della società.

Per come la si intravede, non sorprende che la post-democrazia appaia oggi, similmente al post-moderno, come la negazione e, al medesimo tempo, la realizzazione della realtà che la precede. Essa, infatti, si realizzerà progressivamente mantenendo intatte le strutture democratiche, svuotate di ogni residuo di eticità, in vista del dispiegamento della pura esigenza razionale. Dominio, controllo e ottimizzazione: l'umano sacrificherà se stesso all'inumano nel tentativo disperato di affermarsi. Post-moderno e post-democrazia si riveleranno allora, nel loro compimento, come il volto tragico e trionfante del medesimo fallimento storico.

 

Intervista per Metapolitics

"In questa Conversazione si ripercorrono i dieci anni di Weltanschauung Italia in occasione dell'uscita del libro che raccoglie il meglio della sua attività."


LINK INTERVISTA:

https://www.youtube.com/watch?v=FO4zTHFP774



Treni di ieri, treni di oggi

Che brutti i treni aperti di oggi, mentre com’erano belli i treni di un tempo, suddivisi in scompartimenti da sei viaggiatori ciascuno. Ovviamente è stata – come dubitarne? – un’esigenza funzionale a dettare questa trasformazione del treno, ovvero quella di ospitare più viaggiatori per ogni singolo viaggio ottenendo così il duplice scopo di fare più cassa e di venire incontro alla massificazione della società e permettere a più persone di viaggiare.

E che nel mondo di oggi si viaggi molto di più rispetto ad un tempo è evidente: basti pensare agli innumerevoli pendolari che prendono il treno per andare al lavoro, alle numerose persone che viaggiano per affari o per vacanza (diventata, con la vita stressante di oggi, una necessità) o ancora a tutti coloro che, per soddisfare sempre l’esigenza di questo nostro mondo moderno, internazionalizzato, globalizzato e capitalista, si sono trasferiti lontano dai propri cari per lavoro e che per andare a trovare la loro famiglia d’origine sono costretti a viaggiare..

Tutte situazioni oggi molto più frequenti di un tempo.

Ma come sono diventati brutti i viaggi in questi treni anonimi e massificati. Della poesia del viaggio non è rimasto neanche un lontano ricordo. Mentre come erano signorili i viaggi nei treni a scompartimenti.

Insomma, da quando il viaggio da facoltativo è diventato necessario si sono persi gli standards estetici, come d’altra parte sempre avviene in questi casi.

Inoltre un tempo i viaggiatori formavano nello scompartimento, volente o nolente, una piccola seppur effimera comunità, del tutto indipendentemente dal fatto che si socializzasse o meno: ricordo ancora, a distanza di trenta o quaranta anni, alcuni compagni dei viaggi fatti in treni a scompartimenti con i quali non ho scambiato neanche una parola, mentre non ricordo un solo compagno di viaggio da quando si viaggia nei treni aperti.

E quante emozioni tacitamente condivise con questi sconosciuti compagni di viaggio incontrati casualmente negli stretti corridoi che delimitavano gli scompartimenti: quelli che in piedi stavano a guardare in silenzio, dai finestrini, il rapido scorrere di paesaggi sempre diversi, magari fumando (allora non c’era la caccia alle streghe nei confronti dei fumatori come oggi e nei corridoi era permesso fumare). Come non riconoscere in essi fratelli nello spirito, adepti clandestini di una strana e quasi segreta setta, quella dei cultori della nostalgia? Quanta poesia condivisa con questi amici di qualche ora, compagni di quel breve – brevissimo – tratto di vita.

Con alcuni di essi, anche i più timidi ci si ritrovavano a chiacchierare.

Insomma, anche in quest’ambito la società, e chi la governa, ci vuole far diventare tutti degli individui singoli che non fanno comunità. Ovviamente non è questo il fine dei treni aperti, che come detto, è solo quello di permettere il viaggio a più persone, ma vedi caso l’isolamento, l’atomizzazione del viaggiatore ne è evidente effetto collaterale: e in questa società tutto quello che si fa per rendere più funzionale, più efficace ed efficiente un servizio o una istituzione, in fin dei conti ci porta a essere, collateralmente ma inevitabilmente, individui singoli e isolati.

E questo perché la società è costruita secondo questi parametri, e tutto quello che questa società organizza, inventa e produce soffre di questa specie di peccato originale.

Il seme che ha dato vita all’albero si ritrova, immutato, in ogni frutto dell’albero stesso; e in questo seme è nascosto il comandamento supremo di questa società: separa!

Ma perché ci vogliono separati, isolati, soli? Perché il fine ultimo è quello renderci succubi, acefali, consumisti e lavoratori, ovviamente per farli guadagnare di più ed accrescere il loro potere.

Ma per ottenere questo ci devono prima ridurre tutti ad essere, appunto, individui singoli, monadi senza contatti, frammenti senza relazioni e affetti profondi, senza radici.