L' era delle professioni - I.Illich

L'Era delle Professioni sarà ricordata come l'epoca nella quale dei politici un po' rimbambiti, in nome degli elettori, guidati da professori, affidavano ai tecnocrati il potere di legiferare sui bisogni; rinunciavano di fatto al potere di decidere in merito alle esigenze della gente diventando succubi delle oligarchie monopolistiche che imponevano gli strumenti con i quali tali esigenze dovevano essere soddisfatte. Sarà ricordata come l'Era della Scolarizzazione, in cui alle persone per un terzo della loro vita venivano imposti i bisogni di apprendimento ed erano addestrate ad accumulare ulteriori bisogni, cosicché, per gli altri due terzi della loro vita, divenivano clienti di prestigiosi «pusher» che forgiavano le loro abitudini. Sarà ricordata come l'era nella quale dedicarsi a viaggi ricreativi significava andare in giro intruppati a guardare la gente con l'aria imbambolata, e fare l'amore significava adattarsi ai ruoli sessuali indicati da sessuologi come Masters e Johnson e i loro vari allievi; l'epoca in cui le opinioni delle persone erano una replica dell'ultimo talk-show televisivo serale e alle elezioni il loro voto serviva a premiare imbonitori e venditori perché potessero fare meglio i comodi propri. (..)

Io ritengo inevitabile questo declino della nostra epoca verso un tecno-fascismo, a meno che delle forze più fresche non riescano a reagire sul serio, non limitandosi a sostenere un nuovo mistificante professionalismo pseudo radicale, bensì perorando uno scetticismo integrale verso gli esperti, specialmente nella loro presunzione di fare diagnosi e imporre prescrizioni. Dal momento che è la tecnologia ad essere chiamata in causa per il degrado ambientale, una vera critica sociale dovrebbe sostenere che gli ingegneri si dedichino allo studio della biologia.

Finché gli scandali ospedalieri verranno imputati a singoli medici avidi o a infermieri negligenti, il problema se in linea di principio un paziente possa trarre vantaggio dall'ospedalizzazione non verrà mai posto. Fintanto che è il puro e semplice profitto capitalista ad essere messo sotto accusa come causa delle disuguaglianze economiche, la standardizzazione e la concentrazione delle industrie — che è causa strutturale di ogni disuguaglianza — non verrà mai presa in considerazione ed eliminata.

Solo se comprendiamo il modo in cui la dipendenza dalle merci ha legittimato le domande, le ha trasformate in bisogni urgenti ed esasperati mentre contemporaneamente ha distrutto la capacità delle persone di provvedere da se stesse, noi potremmo evitare di avanzare verso una nuova epoca buia nella quale una autoindulgenza edonista sarà scambiata per la forma più alta di indipendenza

Soltanto se la nostra cultura, già così intensamente mercificata, verrà sistematicamente messa di fronte alla sorgente profonda di tutte le sue connaturate frustrazioni, potremo sperare di interrompere l'attuale perversione della ricerca scientifica, le sempre più forti preoccupazioni ecologiche e la stessa lotta di classe. Al momento presente queste istanze sono principalmente al servizio di una crescente schiavitù degli individui nei confronti delle merci.

Il ritorno a un'era di politica partecipativa, nella quale i bisogni siano definiti dal consenso comune, è impedito da un ostacolo tanto fragile quanto non considerato: il ruolo che élite professionali sempre nuove giocano nel legittimare quella sorta di religione mondiale che promuove la cupidigia che impoverisce. È quindi necessario che noi comprendiamo chiaramente:

 

1.    la natura della dominanza delle professioni;

2.    gli effetti dell'istituzionalizzazione del professionalismo;

3.    le caratteristiche dei cosiddetti «bisogni imputati»;

4.    le illusioni che ci hanno resi schiavi del managerialismo

       professionale.

Tratto da "Esperti di troppo" di I.Illich (Erickson editore)





Carmelo Bene e l'abuso delle masse

“Ci sono cose che devono restare inedite per le masse anche se editate. Pound o Kafka diffusi su Internet non diventano più accessibili, al contrario. Quando l’arte era ancora un fenomeno estetico, la sua destinazione era per i privati. Un Velazquez, solo un principe poteva ammirarlo. Da quando è per le plebi, l’arte è diventata decorativa, consolatoria. L’abuso d’informazione dilata l’ignoranza con l’illusione di azzerarla. Del resto anche il facile accesso alla carne ha degradato il sesso.”
  
Parole di Carmelo Bene che oggi gli si ritorcono inevitabilmente contro. Difatti le sue comparsate al Maurizio Costanzo Show negli anni novanta spopolano in rete e vengono commentate e mal interpretate dappertutto.
Consolatorio Carmelo Bene lo è diventato per molti, proprio lui che si scagliava contro la funzione consolatoria dell’arte, ma d'altronde quando un personaggio della sua levatura decide di scendere nei talk show mediatici, come ha fatto lui in vecchiaia, lanciando letteralmente “perle ai porci”, le conseguenze sono pressoché scontate.
Non che a Bene interessasse qualcosa della reazione della massa ai suoi discorsi con interessanti intuizioni teoretiche, anzi pareva divertito e spensierato in tv, chissà però cosa direbbe oggi dell’abuso che si è fatto delle sue dichiarazioni attraverso il web, in cui ognuno tenta di tirare l’acqua al proprio mulino, dandogli anche delle valenze politiche.
Al Maurizio Costanzo Show del 1994, un tale Emanuele Giglio tra il pubblico, una volta presa la parola, cominciò a farfugliare qualcosa sul discorso del “non capire” rendendosi buffo, al che Bene gli rispose: “si ma alt, quando parlo del non capire non intendo essere deficienti!”.

Ecco quello fu il primo input, il primo campanellino di allarme che mostrava l’inadeguatezza delle masse ad afferrare dei concetti al di fuori dell’ordinario.
Oggi la situazione è peggiorata, sono tanti quelli che cliccando sui suoi video su youtube, senza comprendere a fondo ciò di cui parlava, cominciano ad assumere atteggiamenti spocchiosi, nichilisti e anarchici.
La figura di Carmelo Bene è stata parecchio importante per il teatro del Novecento, in Francia filosofi scrissero centinaia di pagine per spiegarne le gesta. Attraverso il suo teatro, andava oltre i classici superando il testo scritto, egli si esprimeva per significanti.
Ha portato in vita, tramite una via occidentale (la macchina attoriale), il Tao Te Ching.
Con l’aiuto di apparecchiature elettroniche ha tentato lo scavalcamento del linguaggio tramite la manipolazione tecnica del significante. Una deformazione della phonè (il rumore) che aveva il compito di raggiungere una dimensione di abbandono della parola, scomposta e non più adatta alla comunicazione, intesa  nel senso comune del termine.
Bene sosteneva che ogni essere umano fosse composto da una pluralità di Io distinti (Lacan), interpretava la volontà di potenza Nietzschiana come il disfacimento del concetto di soggetto, pertanto si dichiarava estraneo alle sue opere artistiche, non riconoscendosi autore d’alcunché. 
Distingueva il tempo storico, il kronos dei greci, con il tempo aiòn, ovvero l’immediato, l’attimo dello stoicismo.
Momenti di non consapevolezza in cui si è estraniati da se stessi come nell’estasi mistica.
Era consapevole di essere “attraversato” da Aristotele, da Nietzsche, da Cioran, da Deleuze, da Bacon, da Derrida, da Schopenhauer, da Kafka, da Lacan, da Joyce, da Santa Teresa D’Avila, in quanto essi non erano altro che forme interiori già contenute dentro di sè ancor prima di nascere e da cui si doveva disfare.
Parlava de “l’essere detti”, poiché affermava che l’essere umano non è padrone del linguaggio, che il discorso non appartiene all’essere parlante, che siamo parlati, con tutte le conseguenze che una intuizione di questo tipo può provocare.

 “È ora di cominciare a capire, a prendere confidenza con le parole. Non dico con la Parola, non col Verbo, ma con le parole; invece il linguaggio vi fotte. Vi trafora. Vi trapassa e voi non ve ne accorgete.”

Non era interessato alla psicologia (definita “servetta”), intuiva che la trascendenza veniva ormai avvertita in termini psicologici come inconscio, come attività psichica non cosciente. 
Anche nel cinema perseguì la strada della distruzione dell’ Io attraverso la frantumazione della pellicola, annientando i modelli narrativi e devastando l’anima del cinema, ovvero il montaggio. L’ immagine filmica venne manipolata, sbeffeggiata e ricostruita completamente.

'La mia frequentazione cinematografica è ossessionata dalla necessità continua di frantumare, maltrattare il visivo, fino talvolta a bruciare e calpestare la pellicola.
M'è riuscito filmare una musicalità delle immagini che non si vedono, per di più seviziate da un montaggio frenetico.”

Insomma già queste poche e brevi considerazioni dovrebbero far perlomeno intuire la complessità delle opere e del pensiero di Carmelo Bene, assolutamente non adatto all' ingordigia delle masse, che abituate all' intellettualismo fine a se stesso, vengono soltanto danneggiate da tali esposizioni (basta leggere i commenti che si trovano sotto i video di youtube).

Ricordo che al Costanzo Show del 1995 ad un certo punto prese la parola Bruno Zevi che centrò esattamente il punto citando Oreste Del Buono:
“Abbiamo un genio in Italia e non ce lo meritiamo. Cosa ne facciamo? Un genio è inutile, ingombrante, preoccupante per la nostra stupida società. Magari dannoso. Infatti non rispetta il sacro dei luoghi comuni di destra e di sinistra. La soluzione più indicata per contenerlo questo genio, paralizzarlo, neutralizzarlo, è tributargli un grande successo, decretargli un successo veramente popolare. Questo che sta avendo stasera al Costanzo Show non è un successo veramente popolare?”
  
E’ esattamente così, per “normalizzare” un elemento di un tale calibro non si poteva far altro che trascinarlo nella dialettica dei salottini televisivi, tra il popolino composto da critici e profani.
Come dimenticare “geni” come Giordano Bruno Guerri (l’ossessionato dal fascismo), Roberto D’Agostino (oggi alle prese con l’imbarazzante Dagospia), Davico Bonino ( “il sapone”), Guido Almansi (il critico), Luigi Lunari (“il vecchio bacucco”) e tanti altri che non riuscendo a star dietro alla profondità di Bene, si autoconvincevano che questi stesse semplicemente recitando la parte dell’anticonformista.
Carmelo Bene non recitava, non cercava il consenso, non creava consolatori spettacoli teatrali nel tentativo di dare un vago perché all’esistenza attraverso i significati.
Non andava in televisione a cercare l’esibizione o a stupire con qualche invenzione studiata a tavolino per far parlare di sé.
Quando si esprimeva sul concetto di lavoro in epoca industriale, sulla scuola moderna o sulla democrazia lo faceva per davvero, poiché non “diceva” ma “parlava”.

Era parlato, attraversato da una mistica lucidità in grado di tratteggiare i tempi bui dell’ umanità contemporanea, colma di consumatori consunti, in cui il piattume della democrazia ha preso il sopravvento.