Negli ultimi decenni, l’Italia — ma non
solo — ha visto calare drasticamente la natalità. Non nascono più bambini, o
comunque ne nascono troppo pochi per garantire un ricambio generazionale. È un
dato demografico, certo, ma anche un segnale culturale profondo: l’assenza di
natalità è, in fondo, l’assenza di futuro. Quando una società smette di generare,
significa che ha smesso di credere nel domani, o che lo teme. Il futuro, da
promessa, è diventato un’incognita scomoda. Viviamo in un tempo che esalta il
“qui e ora”. Lo si dice con orgoglio: “Vivi il momento!”, “Carpe diem!”. Ma
dietro questa apparente saggezza antica si nasconde spesso una rinuncia. Il
vivere solo l’istante, il cercare costantemente il divertimento e l’esperienza
immediata, ha lentamente sostituito l’idea di responsabilità e progetto. La
responsabilità implica peso, fatica, continuità — parole che oggi suonano quasi
stonate in una cultura che misura il valore delle cose in “like” e
visualizzazioni. In un mondo che cambia troppo in fretta, l’idea stessa di
costruire qualcosa di duraturo sembra quasi un anacronismo. Ma senza progetti,
senza un orizzonte che superi la nostra stessa vita, si finisce per non creare
nulla che meriti davvero di restare. Le cattedrali gotiche, le biblioteche, le
opere d’arte e le città che ancora ci stupiscono nascevano da visioni che
guardavano oltre i secoli, da uomini e donne che non pensavano solo al loro
presente. Oggi, invece, tutto deve essere rapido, flessibile, sostituibile.
Anche le nostre creazioni — materiali e spirituali — hanno la data di scadenza
scritta sopra. L’assenza di figli è solo il riflesso più evidente di questa
mentalità. Non si fanno figli non solo per motivi economici, ma perché manca il
desiderio di trasmettere qualcosa, di lasciare una traccia. È come se ci
fossimo convinti che il mondo finisca con noi, o che tanto non valga la pena di
investire su un domani che appare incerto. Eppure, una società senza futuro non
è solo triste: è immobile. Se non proiettiamo qualcosa oltre noi stessi, se non
costruiamo pensando a chi verrà dopo, tutto si riduce a consumo e
sopravvivenza. È proprio da qui che dovremmo ripartire: dal recupero del senso
di responsabilità, della cura, del tempo lungo. Perché senza futuro — che si
tratti di un figlio, di un’idea o di un’opera — il presente smette di avere
valore, e il “vivere il momento” diventa soltanto un modo elegante per dire che
non sappiamo più dove andare.
