Bilancio 2024

Il 2024 si sta chiudendo ed è tempo del consueto bilancio di fine anno.

L'anno trascorso ha visto spostarsi in maniera significativa l'attenzione e le preoccupazioni internazionali dall'Europa al Medio Oriente, con un imponente allargamento del teatro di guerra, che dalla Striscia di Gaza ha raggiunto Giordania e Siria, coinvolgendo in maniera più o meno diretta l'Iran, autentico bersaglio delle politiche di forza filo-occidentali.

Il massacro di civili compiuto da Israele ha raggiunto ormai cifre inconcepibili, nella tiepida indifferenza della comunità internazionale, che al di là di inverosimili condanne che nessuno avrà mai il fegato di applicare, da parte di entità nebulose ininfluenti, in sostanza con il proprio silenzio ha sancito di fatto il sostegno e l'approvazione della politica di pulizia etnica israeliana.

Sempre dal Medio Oriente ci sono giunte notizie dell'incredibile e pressoché istantanea polverizzazione del regime siriano, uno dei fatti più sorprendenti degli ultimi vent'anni, evento che dimostra come la storia palese non sia altro che l'epifenomeno di trame sotterranee e invisibili, che veramente decidono la storia e che si mostrano solo negli effetti e mai nelle dinamiche efficaci. L'inspiegabile latitanza russa e iraniana sul fronte, infatti, sembrano confermare logiche e accordi che contraddicono in parte le narrazioni più accreditate. Merita una riflessione anche il rebranding dei protagonisti del nuovo governo siriano, passati da tagliagole della peggior specie a moderati e illuminati pii devoti, macchiati solo da un eccesso di zelo giovanile, tutto sommato perdonabile perché in via di redenzione.

Sul fronte europeo, invece, il 2024 ha manifestato l'evidente e soverchiante primato russo, ormai riconosciuto anche dal mainstream, con conseguente incrinarsi della compattezza delle forze che in precedenza hanno sostenuto l'Ucrai-NATO ad oltranza. Il 2024 è stato letteralmente un anno di terrore nucleare, spettro paventato in ogni occasione e con insistenza per tentare di mantenere una soglia di legittimazione e mobilitazione disperata a fronte di una sconfitta che sembra più che mai imminente.

In tutto questo marasma il governo italiano non ha mancato di confermare appoggio incondizionato a Israele e Ucraina, dimostrando ancora una volta la propria vocazione gregaria e masochista, in perfetto accordo con lo schema secondo cui i sovranisti in carriera, tanto più sono incendiari all'opposizione, tanto più sono pompieri giunti a sedersi sulla poltrona.

Sul medesimo versante, l'imminente insediamento del governo Trump non sembra in alcun modo, malgrado premesse e promesse, capace di spostare di un millimetro l'asse dell'equilibrio internazionale in direzione di una qualche forma di pacificazione o quiete anche solo transitorie. In particolare, segnaliamo che la dichiarata avversione di Trump per Iran e Cina orientano l'idea che la sua volontà di raffreddare l'Ucraina sia solo propedeutica a scaricare sull'Unione Europea gli esiti della catastrofe, per potersi ingaggiare in teatri ben più impegnativi.

Nel frattempo, mentre procede come da agenda il processo di digitalizzazione e implementazione dell'IA e delle sue applicazioni, e in Italia si cedono al colonizzatore le infrastrutture strategiche della quinta rivoluzione industriale, strane e sinistre tecnologie appaiono nei cieli statunitensi, evocando presagi apocalittici e visioni escatologiche, forse in vista di un nuovo livello dello stato di emergenza globale.

Infatti, mentre noi scommettiamo sull'emergenza nucleare come nuovo strumento di legittimazione di nuove sperimentazioni di controllo sociale, altri puntano su posticce parodie stellari del Secondo Avvento, in chiave anticristica.

Il 2025 si apre già denso di inquietudini e sinistri vaticini. Viviamo un'epoca che, come non capitava da alcuni secoli, manifesta come la filigrana della storia sia costituita da moventi tutt'altro che gretti e solidi quali la storiografia di stampo materialista ci ha illusi. Scriveva un saggio che il sacro, espulso dalla porta, rientra dalla finestra. Solo che quando vi entra da ladro, indesiderato, indossa una maschera per celare il suo volto crudele.

Buon anno.



Il massacro di Wounded Knee

Il 29 Dicembre 1890 la neve del South Dakota si tinse di rosso. Quel giorno, la storia dell'umanità registrò uno dei suoi episodi più vergognosi: il massacro di Wounded Knee.

In quelle terre gelide, un popolo già ferito cercava solo di sopravvivere. I Sioux Lakota viaggiavano in cerca di rifugio quando il destino, nelle vesti del Settimo Reggimento di Cavalleria statunitense, li raggiunse con la sua falce spietata.

Fu una carneficina premeditata, mascherata da operazione militare. Quattro squadroni circondarono oltre trecento nativi, principalmente anziani, donne e bambini. Con l'inganno della pace, li disarmarono. Con la promessa della sicurezza, li radunarono in un accampamento. Con la scusa dell'ordine, prepararono il massacro.

Ma l'orrore non si fermò qui. In un atto di indicibile crudeltà, un distaccamento dell'esercito tornò sul campo di battaglia per completare l'opera. Trovarono 51 sopravvissuti - 47 erano donne e bambini. Li giustiziarono tutti, proprio accanto a una chiesa che, con amara ironia, esponeva il messaggio "Pace in terra agli uomini di buona volontà".

Oggi, mentre i discendenti di quei carnefici occupano posizioni di potere nelle sfere più alte della società mondiale, presumendo di dettare lezioni di moralità e giustizia al resto del pianeta, il sangue versato a Wounded Knee continua a gridare vendetta.

Questi "maestri di civiltà" contemporanei, che guidano le sorti politiche ed economiche di gran parte del mondo, sono gli eredi di chi ha scritto una delle pagine più vergognose della storia con il sangue degli innocenti.

La vera tragedia non è solo nel ricordo di quel massacro, ma nel fatto che i suoi perpetratori non hanno mai veramente pagato per i loro crimini. Anzi, i loro discendenti continuano a prosperare, seduti su troni costruiti con le ossa dei popoli nativi, predicando valori che i loro antenati hanno calpestato senza pietà.




Deindustrializzazione

La massiccia campagna di acquisizioni estere delle aziende italiane rappresenta un preoccupante depauperamento del nostro tessuto industriale e produttivo. I numeri continuano ad essere allarmanti: solo nel 2024, ben 417 realtà imprenditoriali sono passate in mani straniere, per un controvalore di quasi 35 miliardi di euro. Questo trend, lungi dall'essere isolato, si inserisce in un processo decennale che ha visto quasi 3.000 aziende italiane cedute all'estero, con una perdita di patrimonio industriale valutabile in oltre 200 miliardi di euro. Quello che stiamo osservando è un sistematico indebolimento della sovranità economica nazionale. Non si tratta semplicemente di numeri su un foglio di bilancio: parliamo di "know-how", competenze specialistiche, tradizioni imprenditoriali e posti di lavoro che sono sottoposti a logiche da squali del capitalismo. Queste acquisizioni mascherano l'incapacità del sistema-paese di proteggere e valorizzare il proprio patrimonio industriale. Mentre altri paesi hanno sviluppato meccanismi di tutela delle proprie aziende strategiche, l'Italia assiste passivamente a questa emorragia di capitale produttivo. Decisioni cruciali per il futuro delle aziende vengono prese in sedi lontane, con priorità che non coincidono con gli interessi nazionali, dalla salvaguardia dell'occupazione al mantenimento delle competenze sul territorio. Servirebbe una riflessione seria sugli strumenti necessari per invertire questa tendenza, a partire dalle politiche industriali che possano favorire il consolidamento delle imprese italiane, fino a un ripensamento delle condizioni che rendono appetibili le nostre aziende per gli investitori stranieri, spesso più interessati all'acquisizione di marchi e competenze che allo sviluppo industriale del territorio. Ma questa situazione va avanti da anni e non ha mai prodotto concrete e tempestive risposte per tutelare il patrimonio industriale italiano. Quello che sanno fare i politicanti nostrani sono solamente passerelle a danni compiuti o finti proclami con i sindacati utili solo a placare gli animi. A conti fatti nulla cambia. Un paese senza più industria? Nessun problema in futuro saremo tutti influencer e tiktoker. 



Snobismo?

"Ma chi è Taylor Swift?" "Tony Effe? Mai sentito." "Mai sentiti nominare..."

Quante volte abbiamo sentito queste frasi pronunciate con un sorrisetto di superiorità? Come se non conoscere i personaggi popolari della nostra epoca sia automaticamente un segno di raffinatezza intellettuale. Come se l'ignoranza su certi deleteri fenomeni culturali sia una medaglia da esibire con orgoglio. Ma cosa c'è davvero di intelligente nel non conoscere ciò che influenza milioni di persone, che plasma la cultura contemporanea e che inevitabilmente influisce sulla società in cui viviamo? È davvero un segno di elevazione culturale? La verità è che spesso si confonde la non conoscenza con la superiorità intellettuale, ci si dimentica che la vera intelligenza sta nella capacità di osservare, analizzare e comprendere i fenomeni del proprio tempo, che ci piacciano o meno. Quando arriva il momento in cui anche i figli iniziano a seguire questi "artisti", come si potrà instaurare un dialogo costruttivo con loro? Come si potranno proporre alternative valide se non si è mai cercato di capire cosa attrae i giovani verso certi decadenti fenomeni culturali? L'intelligenza non sta nel rifiutare aprioristicamente ciò che è popolare, ma nella capacità di comprendere i fenomeni sociali nel loro contesto, analizzarli criticamente e offrire prospettive alternative basate sulla conoscenza. Non c'è nulla di cui vantarsi nel non sapere chi sia un "artista" che riempie i palazzetti o un personaggio che influenza milioni di giovani. Bisogna saper navigare tra diversi livelli culturali, comprendere i meccanismi sociali e offrire una visione critica ed informata di ciò che viene propinato. Conoscerli non significa ascoltarli ogni giorno, né tantomeno alimentarli. Informarsi per capire cosa circola, influenza le masse e i nostri figli è invece necessario.




2001: Odissea nello spazio - Un viaggio oltre i confini del cinema

Quando parliamo di "2001: Odissea nello spazio" di Stanley Kubrick, non stiamo semplicemente parlando di un film di fantascienza. Stiamo parlando di un'opera d'arte che trascende i generi, un'esperienza cinematografica che continua a sfidare le nostre percezioni a più di mezzo secolo dalla sua uscita nel 1968.

La trama, apparentemente lineare, nasconde profondità abissali. Un misterioso monolite nero viene scoperto sulla Luna, emanando un segnale verso Giove. Una missione spaziale viene organizzata per seguire questa traccia cosmica, ma si trasforma in un viaggio esistenziale quando HAL 9000, il computer di bordo, si rivolta contro l'equipaggio, lasciando il solo Dave Bowman a confrontarsi con i misteri dell'universo.

Ma questa è solo la superficie. Il vero genio di Kubrick risiede nella sua capacità di intrecciare la storia dell'evoluzione umana con domande filosofiche fondamentali. Il monolite, presenza enigmatica che appare nei momenti cruciali della nostra evoluzione, diventa un simbolo polivalente: potrebbe rappresentare la divinità, la ragione, la conoscenza suprema, o forse semplicemente l'inconoscibile che da sempre sfida l'umanità.

La famosa sequenza dell'osso che si trasforma in navicella spaziale non è solo un magistrale taglio di montaggio: è la perfetta metafora del progresso umano, un arco che si tende dall'alba della civiltà fino alle stelle. È interessante notare come Kubrick si sia allontanato dall'interpretazione più letterale presente nel racconto "La sentinella" di Arthur C. Clarke, preferendo lasciare aperte infinite possibilità di lettura.

Il finale, con le sue sequenze psichedeliche accompagnate dalle avanguardistiche composizioni di Ligeti, non offre risposte definitive. Al contrario, spalanca le porte a nuove domande. È una rappresentazione della rinascita cosmica dell'umanità? Un'allegoria della trascendenza spirituale? O forse un commento sulla nostra eterna ricerca di significato nell'vastità dell'universo?

Il valzer "Sul bel Danubio blu" di Strauss, che accompagna le danze cosmiche delle navicelle spaziali, sottolinea perfettamente questo paradosso: la maestosità dell'universo si confronta con i nostri tentativi di comprenderlo attraverso la tecnologia e l'arte. È proprio questa tensione tra il conosciuto e l'inconoscibile, tra il finito e l'infinito, che rende "2001" un'opera senza tempo.

Più che un film di fantascienza, "2001: Odissea nello spazio" è una meditazione sulla condizione umana, un'opera che continua a generare interpretazioni e dibattiti. È un monolite cinematografico che, come il suo misterioso protagonista, continua a osservare silenziosamente mentre noi tentiamo di decifrarne i significati più profondi.



La fine della filosofia nell'era della tecnica

La riflessione di Heidegger sulla dissoluzione della filosofia è fondamentale per comprendere la crisi del pensiero occidentale, trattasi di una profonda diagnosi del destino del pensiero nell'epoca della tecnica.

La diagnosi heideggeriana sulla dissoluzione della filosofia nelle scienze non è solo una critica nostalgica, bensì un invito a ripensare radicalmente il nostro rapporto con il pensiero e con la realtà. In un'epoca dominata dalla tecnica e dalla specializzazione, la sfida è quella di ritrovare una forma di pensiero capace di confrontarsi con le questioni fondamentali dell'esistenza umana, oltre la mera razionalità strumentale delle scienze particolari.

Quando Heidegger afferma che la filosofia si sta dissolvendo nelle scienze particolari, evidenzia un fenomeno fondamentale della modernità: la progressiva specializzazione e parcellizzazione del sapere. La psicologia ha ereditato lo studio dell'anima e della coscienza, la logica si è trasformata in una disciplina matematica, la politologia ha assunto il ruolo della filosofia politica classica. Questo processo di frammentazione non è casuale, ma rappresenta il compimento di una tendenza intrinseca alla metafisica occidentale: la ricerca della certezza attraverso il metodo scientifico e il calcolo.

Questo comporta conseguenze profonde, innanzitutto la perdita della visione d'insieme: mentre le scienze particolari si concentrano su aspetti specifici della realtà, viene meno quella capacità di pensare la totalità che era propria della filosofia.

In secondo luogo vi è il trionfo del pensiero calcolante: le scienze, orientate alla misurazione e alla previsione, sostituiscono il pensiero meditante della filosofia con un approccio puramente tecnico.

Infine l'oblio dell'essere: concentrandosi sugli enti particolari, le scienze perdono di vista la questione fondamentale dell'essere, che secondo Heidegger è il vero compito del pensiero.

Tuttavia Heidegger intravede una possibilità, poiché la fine della filosofia tradizionale non significa la fine del pensiero, ma può aprire la via a un nuovo inizio in cui superare l'approccio meramente tecnico-scientifico e recuperare la dimensione ontologica dimenticata.

La "fine della filosofia" diventa così non tanto un punto d'arrivo quanto un possibile nuovo inizio, a condizione di saper ascoltare ciò che, nel tramonto della metafisica tradizionale, si annuncia come compito futuro del pensiero.



Nessuna correlazione tra intelligenza e titoli di studio

Si continuano a confondere titoli con intelligenza. 

Il signor X, siccome è avvocato, in automatico è una persona intelligente, idem il signor Y che è medico. Trattasi di fallaci equivalenze automatiche. Il conseguimento di un titolo di studio, anche prestigioso, può dimostrare dedizione, disciplina e capacità di memorizzazione. Richiede impegno e costanza ma non è affatto sinonimo di intelligenza nel senso più ampio del termine. L'intelligenza è un concetto molto più complesso e multiforme che include la capacità di pensiero critico e di analisi, l'intelligenza emotiva e sociale, la creatività e il pensiero laterale, l'abilità di risolvere problemi, il buon senso e molto altro. Un medico può conoscere perfettamente l'anatomia umana e i protocolli di cura, ma questo non significa necessariamente che sia brillante in altri ambiti della vita o che abbia una particolare capacità di pensiero critico. Allo stesso modo, un avvocato può avere una memoria formidabile per leggi e precedenti, senza però possedere particolare acume. Abbiamo avuto tanti esempi nella storia di persone senza titoli di studio che hanno poi dimostrato una grande intelligenza nella vita e creato cose straordinarie in vari ambiti. Viviamo in una società che confonde questi due aspetti, creando una gerarchia sociale basata sui titoli invece che sulle effettive capacità delle persone. Questo chiaramente porta a sottovalutare individui capaci ma privi di titoli, alimentando peraltro pregiudizi e discriminazioni ingiustificate, e sopravvalutare professionisti solo in virtù del loro percorso di studi. L'educazione formale e l'intelligenza sono due dimensioni distinte, che possono sovrapporsi ma non sono necessariamente correlate. Un titolo di studio certifica la competenza in un ambito specifico, ma non è assolutamente una misura universale dell'intelligenza di una persona. Evidentemente qualcuno ha interesse ad alimentare queste leggende per creare conflitti orizzontali, l'importante è che nel nostro piccolo non si alimenti questa farsa e si valutino le persone per ciò che realmente sono e sanno fare, non per i titoli che possiedono. 



Il tempo sospeso

Viviamo in un'epoca di paradossi. Le lancette dell'orologio continuano a girare, ma il tempo sembra essersi cristallizzato in un eterno presente. Le nostre menti, intorpidite dal flusso incessante di informazioni, hanno perso la capacità di immaginare alternative, di concepire un domani diverso dall'oggi. Non è solo una questione di risorse mancanti o di progetti incompiuti. È come se lo spazio stesso dell'azione si fosse contratto fino a scomparire, lasciandoci sospesi in una bolla di impossibilità. Guardiamo il mondo attraverso uno schermo che ci restituisce sempre la stessa immagine, ripetuta all'infinito, mentre la Storia - quella vera, quella che scorre nelle vene dei popoli e plasma il destino delle nazioni - si è ritirata come marea, lasciando sulla spiaggia solo detriti di significati svuotati. L'immaginario collettivo, un tempo fucina di sogni e rivoluzioni, si è trasformato in un teatro delle ombre dove anche le parole più potenti - libertà, giustizia, cambiamento - suonano come echi lontani, quasi fossero reperti archeologici di un'era in cui gli esseri umani credevano ancora di poter essere artefici del proprio destino. Ma forse è proprio qui che si nasconde la chiave: nella capacità di riconoscere questa grande ipnosi collettiva come tale. Non serve più urlare verità alternative, la controinformazione è stata già assorbita nel grande circo mediatico. Ciò che serve è più sottile e più profondo: dobbiamo reimparare a sognare. Dobbiamo costruire nuove metafore, nuovi miti, nuove storie che possano infiltrarsi nelle crepe di questo presente apparentemente monolitico. Non basta più denunciare il falso: occorre coltivare il possibile. È un lavoro di archeologia del futuro, che richiede pazienza e immaginazione. Dobbiamo disseppellire la capacità di vedere oltre l'orizzonte dell'ovvio, di sentire il respiro della Storia anche quando sembra che l'aria si sia fatta troppo sottile per respirare. Questa è la vera contro-narrazione: non un'opposizione frontale al racconto dominante, ma la paziente tessitura di un nuovo arazzo di significati, dove i fili del passato si intrecciano con quelli di un futuro ancora da inventare. È un lavoro che richiederà generazioni, ma forse è l'unico modo per risvegliare le coscienze dall'ipnosi del presente perpetuo. Solo così, forse, potremo tornare a essere non semplici spettatori ma protagonisti attivi di quella grande avventura collettiva che chiamiamo Storia. Non è più tempo di manifestazioni di piazza o di barricate: è tempo di ricostruire, parola dopo parola, immagine dopo immagine, il muscolo atrofizzato dell'immaginazione.




Il mito della perfezione vocale

 È interessante osservare come, nel panorama musicale contemporaneo, continui a persistere il mito della perfezione vocale come criterio principale di valutazione artistica. I talent show e i concorsi musicali sembrano cristallizzati in questa visione limitata, dove l'abilità tecnica vocale diventa l'unico metro di giudizio per determinare il potenziale di un artista. Eppure, ripercorrendo la storia della musica, troviamo innumerevoli esempi che contraddicono questa logica. Da Bob Dylan a Leonard Cohen, da Lou Reed a Fabrizio De André, molti grandi artisti hanno costruito il loro successo non sulla perfezione vocale, ma sulla capacità di trasmettere emozioni, raccontare storie, innovare linguaggi. Il possesso di una voce eccezionale è certamente un dono, ma rimane uno strumento che acquista vero significato solo quando viene utilizzato per esprimere contenuti di valore. È come possedere un pennello di alta qualità: inutile se non si ha nulla da dipingere. La distinzione fondamentale sta proprio qui: un interprete tecnicamente impeccabile può emozionare con la sua esecuzione, ma un vero artista va oltre, usando la propria voce - bella o meno che sia - come mezzo per comunicare una visione, per spingere i confini della creatività, per lasciare un'impronta culturale significativa. 

La vera arte musicale nasce quando la tecnica vocale, qualunque essa sia, si mette al servizio di un progetto artistico autentico. È tempo che i talent scout inizino a cercare non solo belle voci, ma soprattutto Artisti.



Fragmenta - Dispersioni postmoderne di Weltanschauung Italia

Le riflessioni che compongono Fragmenta sono state in origine destinate alla rete, conformemente alla natura social media del progetto Weltanschauung Italia.

Siamo convinti che oggi la strategia culturale più efficace sia quella dell'infiltrazione nel digitale al fine di imporre al digitale stesso l'istanza della cultura solida, trasformando il veleno in rimedio, in una ardita alchimia militante.
Ecco il senso delle operazioni controculturali e contronarrative di questo testo, nato da mezzi liquidi per ri-affermare ontologie minerali.
Il pensiero altro, infiltratosi nelle forme e nelle logiche del postmoderno, per essere efficacemente attuale, deve assumere le sembianze della cultura dell'epoca e mimarne i linguaggi, mantenendo tuttavia intatti orientamento e vocazione.

Il testo è disponibile ora su Amazon, oppure ordinabile presso la Libreria Europa di Roma e attraverso la casa editrice Passaggio Al Bosco.

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Vite alla ribalta

Secondo Erving Goffman viviamo tutta la vita tra ribalta e retroscena: mostriamo sempre e solo una parte di noi quando siamo in presenza di altri, recitiamo un copione, indossiamo maschere.
Vi sono poi rari momenti, nel retroscena, in cui ci si rilassa e ci si può togliere le scarpe, stappare una birra, bere e ruttare in libertà.
Questa sezione della vita per alcune persone è ridotta ad uno spazio sempre più stretto. La connessione, la condivisione e l’esibizione di sé costringono a comparire ossessivamente sul palcoscenico. La separazione tra pubblico e privato scompare e rivelare indizi della propria vita privata o peggio, metterla totalmente a nudo, diventa l’imperativo di tante persone.
L’obbligo di essere trasparenti. L’obbligo di essere spettacolo.
Gran parte della società di oggi si nutre delle vite degli altri, morbosamente. Aspetta con la bava alla bocca lo spettacolo degli altri e poi si chiede come eguagliare quel genere di reificazione. Auto-rappresentarsi e poi tenere sotto controllo la propria auto-rappresentazione, tastandone il polso, osservando i ‘mi piace’, le condivisioni ed i commenti. Ci si trasforma in immagini, merci senza identità.
Baudrillard diceva che vivere nel sistema sociale è un gioco: si deve sottostare a delle regole, impersonare dei ruoli, leggere le istruzioni. Oggi tutti vogliono entrare nel gioco della spettacolarizzazione, non farlo equivale all’estinzione del Sé.
Mostrarsi sul palcoscenico, non interrompere mai (o quasi) la rappresentazione, produrre immagini di sé da far contemplare, alimenta un sistema di controllo di sé e degli altri che rafforza il biopotere.
Nella tesi 215 de “La società dello spettacolo”, Guy Debord scriveva: “Lo spettacolo è l’ideologia per eccellenza perché espone e manifesta nella sua pienezza l’essenza di ogni sistema ideologico: l’impoverimento, l’asservimento e la negazione della vita reale.”
La spettacolarizzazione è dunque arma di persuasione che si fa ideologia e assoggetta, nega la vita reale, riducendola ad una mera copia, ad un’immagine di sé pronta per essere merce. Ecco che si innesca una mutazione antropologica per effetto di tale ideologia digitale: si esiste se si appare. La propria esistenza si fa tangibile e reale solo se si manifesta sul palcoscenico, si diventa giullari di una corte virtuale, pedine di un circo in perenne mutamento.


                                                    AM

The Wicker Man: una tragedia greca

Avete amato film recenti come "The Ritual" e "Midsommar"?

Se la risposta è affermativa e avete una conoscenza filmica non profonda e capillare, sappiate che agli albori di un certo filone cinematografico che attinge alle antiche tradizioni pagane c'è una pellicola di culto che risponde al nome di "The Wicker Man".

"The Wicker Man", per chi non lo conoscesse è una storia arcana che mira a immergerci in un mondo surreale, sospeso tra allucinazione e tangibile, tra cristianesimo e paganesimo, tra civile modernità e cruento e carnale primitivismo.

Il film di Hardy è rimasto negli annali come uno dei più conturbanti e singolari film incentrati su una setta che fa uno dei suoi punti centrali, non la smaccata spettacolarità e velocità a cui ci ha ormai abituato un certo cinema mainstream. Al contrario, è costruito su un crescendo graduale, ma angosciante, denso di dettagli e suggestioni visive e sonore, in cui la rappresentazione di un paganesimo ancestrale è contraddistinta da una simbologia panica dalla grande potenza.

E non solo con la visione finale dell’Uomo di vimini, quel fantoccio antropomorfo fatto di rami e paglia che in molte civiltà vernacolari ancora oggi viene bruciato a scopo apotropaico e incarna il simulacro di una vittima sacrificale umana. Ma anche molto altro.

Sull'isola remota al largo della Scozia di nome Summerisle vive come un'enclave fuori dal mondo una comunità, distaccata dal resto, da tutto ciò che noi riteniamo normale.

Ma come ben sa chi ha la mente "aperta", la normalità è data da due fattori: Il luogo geografico dove si nasce e cresce ed il periodo storico in cui si vive.

Ecco perché cose che a noi "moderni" appaiono strane ed inquietanti, a Summerisle appaiono normali.

Come hanno modo di raccontare e dire al sergente Howie, giunto sull'isola grazie ad una lettera anonima che lo spinge ad indagare su una strana sparizione, non solo il "lord" dell'isola (uno straordinario Cristopher Lee) ma anche tutti gli abitanti del luogo.

In un conformismo religioso che rende la storia particolarmente paurosa, con l’irreprensibile atteggiamento da fervente cristiano del sergente contrapposto al paganesimo giocoso e irriverente degli abitanti dell’isola, che vivono inebriati e incoscienti la propria fede.

Il terrore che traspare dalla pellicola è vivido, di natura fisica, deriva da un rinnovato contatto tra uomo e natura.

A cui si sommano un insieme di singolari usanze, come danze di stampo medievaleggiante, pratiche orgiastiche peraltro aperte a partecipanti d’età adolescenziale, strani dogmi trasmessi ai fanciulli.

"The Wicker Man" apparve fin da subito un horror atipico che fece capire subito, con la sua aura maledetta, con il suo tono a volte grottesco e sfrontato, di essere di fronte al capostipite di un genere nonché davanti ad un'opera che avrebbe fatto la storia.

Un film a dir poco sorprendente la cui natura viene rivelata solo negli ultimi terrificanti, e molto teatrali, minuti finali.

Momenti che, non si esagera nel dirlo, evocano in tutta la loro rappresentazione viva e partecipativa, una vera e propria tragedia greca.


                                                    OC

 


Accelerazione digitale

Viviamo in una dimensione di accelerazione digitale, ma lo smartphone, il web, l'intelligenza artificiale non sono nemici dell'umanità, bensì ambienti insidiosi da integrare nella nostra esperienza umana.

Proprio come i nostri antenati hanno imparato a trasformarsi da cacciatori a agricoltori, da nomadi a sedentari, anche noi stiamo attraversando, al di là del bene e del male, una inevitabile metamorfosi antropologica.

Un post sui social, un algoritmo, una connessione globale istantanea sono manifestazioni altrettanto cosmiche dei ritmi naturali che da sempre accompagnano l'esperienza umana. Cambiano le forme, ma non la sostanza del nostro essere parte di un tutto interconnesso.

Opporsi alla tecnologia non serve, bisogna sviluppare la capacità di integrarla consapevolmente, di riconoscere in questi nuovi linguaggi digitali gli stessi archetipi che hanno da sempre mosso l'esistenza umana: la ricerca di senso, la connessione, la trasformazione.

La vera rivoluzione non sarà fuggire dalla tecnologia, ma imparare a danzare con essa, domarla, non esserne assorbiti, rimanendo radicati nella nostra umanità più profonda.




"Citizen Kane" di Orson Welles

"Citizen Kane" di Orson Welles è il film che rivoluzionò il linguaggio del cinema negli anni '40, abbattendo la narrazione tradizionale. È la storia della vita di Kane, un potente magnate dei media in grado di costruirsi un impero mediatico influente con cui manipolare l'opinione pubblica. Aldilà degli aspetti cinematografici visionari per l'epoca, la grandezza del film si può racchiudere tutta nell' ultima parola pronunciata da Kane: 'Rosebud'. 

Che cos'è 'Rosebud'? È il nome della vecchia slitta del protagonista quando era bimbo, è il simbolo dell'innocenza perduta e della felicità infantile. Kane, un uomo apparentemente potente e ricchissimo, in realtà è una persona sola e nostalgica dei suoi momenti più puri e semplici. 

La sequenza finale, dove la slitta viene gettata nel fuoco tra oggetti preziosi e inutili, è un momento di straordinaria potenza. La parola 'Rosebud' risuona come un eco del passato, svelando il profondo desiderio di un uomo che ha tutto ma ha perso ciò che conta di più. 

Citizen Kane, un'opera visionaria da non dimenticare, una grande riflessione sulla vita, sul potere e sulla ricerca della serenità.




Un ponte tra mondi

Capita spesso quando si è per strada di incrociare lo sguardo con quello di un cane: ciò che scaturisce è una scintilla di intesa. Così, mentre si cammina veloci assorbiti dalle proprie frenetiche faccende, gli occhi di un cane esprimono un bagliore di vita intensa e profonda che si coglie di sfuggita, e che per un prezioso attimo solleva dal grigiore della città.

Un cane particolare, lo xolotl, nella cultura azteca fungeva da guida verso il Mictlan, il regno degli inferi, per i propri padroni defunti. Negli anni ‘50 sarà Frida Kahlo a dedicarsi al recupero di questa razza canina in via di estinzione, con l’intenzione di rifondare le radici culturali precolombiane e conferire nuovo orgoglio al popolo messicano.

Nell’opera El abrazo de Amor del Universo, y la Tierra (México), Diego, yo, y el Sr. Xolotl, Frida Kahlo ritrae la madre terra azteca che tiene tra le braccia se stessa che a sua volta abbraccia Diego Rivera; sotto di loro, a sinistra, nella parte del quadro dedicata alla notte, è accoccolato lo xolotl, il cane nero dal pelo raso ed il muso appuntito. La somiglianza con Anubi, il dio dei morti che si occupava della pesatura del cuore e della mummificazione nell’antico Egitto, è lampante. Anche nella mitologia greca il Cerbero, il cane a tre teste, presidiava l’ingresso all’Ade. L’unica carta priva di numero dei Tarocchi di Marsiglia è Il Matto, un viaggiatore in compagnia del proprio cane di colore azzurro, che evoca il mistero e la spiritualità.

In diversi sistemi culturali la figura del cane è stata associata a quella di un intermediario, ad un ponte tra piani ontologici. Il cane è un archetipo, sosteneva Jung (che ne elencò a decine), un modello primigenio contenuto nell’inconscio collettivo, il substrato psichico dell’umanità.

Il legame tra uomo e cane è dunque ancestrale, metafisico ed in parte inconscio. 


                                                                               AM

                                  

La medicalizzazione degli studenti

Da qualche anno nelle scuole sono stati attivati sportelli di supporto psicologico. Si tratta di un ulteriore passo verso l’istituzione di un sistema di controllo sociale totale che si insinua nelle menti, effettua diagnosi cliniche ed applica etichette che definiscono l’individuo. Agli studenti è consentito assentarsi durante le lezioni mattutine per recarsi allo sportello di ascolto, dove uno psicologo avrà il compito di fare anche da ‘’mentoring per l’orientamento’’, progetto finanziato dal Pnrr per ‘’sostenere gli studenti nel loro percorso di crescita’’. Gli alunni, oltre ad essere accolti, orientati, sostenuti e ascoltati, ora vanno anche diagnosticati, etichettati, medicalizzati. In alcune scuole spetta addirittura al consiglio di classe indicare gli studenti a ‘rischio dispersione’ a cui servirebbe un salto dallo psicologo. Un tempo erano poche le persone che si rivolgevano allo psicologo, si diffidava di questa figura importata dagli Stati Uniti. Poi le serie tv e la diffusione delle facoltà di Psicologia, hanno indotto un nuovo bisogno. Il sistema capitalistico si regge sulla creazione di falsi bisogni e conseguentemente offre soluzioni a pagamento. La scuola, che non è sfuggita a questo modello economico, ormai rispecchia un’organizzazione aziendale, dove gli studenti sono utenti e perciò bisogna provvedere a soddisfarli, offrendo loro servizi. Si ottengono così due obiettivi: la normalizzazione della figura dello psicologo che, rispetto ad un tempo, non è più lo strizzacervelli che cura i matti; ed il modellamento degli studenti secondo gli standard stabiliti dal sistema. Non vai bene di matematica? Vai dallo psicologo, sicuramente sarai discalculico. Non vai bene di inglese? Sicuramente sarai dislessico. Sei irrequieto e disinteressato? Vedrai, accerteranno un disturbo dell’attenzione. Ti senti giù? Non sai a quale facoltà universitaria iscriverti? Stai collezionando insufficienze? Vai allo sportello psicologico!!! Giovani trasformati in pazienti imbranati ed incapaci di provvedere a se stessi, acconsentono inconsapevolmente a cedere parte della propria autonomia. Illich la chiamava ‘espropriazione della salute’, la gestione professionale e metodica dell’individuo sano che viene trattato da malato. Per gli studenti di oggi, quando saranno adulti, apparirà normale andare dallo psicologo e portarci i propri figli, a maggior ragione se non saranno mai stati in grado di educarli. Nell’era del capitalismo anche la salute è diventata una merce.


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