Takashi Miike oltre il cinema

"Dopo il cinema c'è IZO" (E.Ghezzi)

Questo film è davvero oltre.

Mentre per le altre pellicole della sterminata produzione filmica del giapponese è possibile, anche in minima parte, addentrarsi in interpretazioni logiche/razionali, qui è davvero impossibile. Provarci significherebbe solamente depotenziare il lavoro svolto dal regista.

Il film di Miike narra la vera storia di Okada Izo, un samurai del XIX secolo che venne crocifisso e ucciso per aver seguito gli ordini del suo signore, Takeshi Hampeita.

Takashi utilizza il personaggio di Okada per costruirci sopra un film surreale, metafisico e fuori dalle concezioni spazio/temporali.

Il protagonista viene difatti trasportato costantemente avanti ed indietro nel tempo portando morte e distruzione ovunque con una furia primordiale.

La sequenza iniziale del film riprende il finale di Hitokiri, vecchio film biografico proprio su Izō Okada, in cui avviene la crocifissione mortale del samurai.

Ma lo spirito di Izo si reincarna con le sembianze di un demone, e ritorna assetato di vendetta, attraversando le epoche e diventando protagonista di un massacro.

Izo è la personificazione di tutto ciò che è deleterio, la sua spada miete vittime illustri: arcivescovi, generali, primi ministri e persino Dio in una iperbole nichilista in cui tutti i valori vengono annientati uno dopo l'altro.

Una sorta di irrazionale viaggio psichedelico in cui il regista è riuscito ad essere realmente attraversato dai tempi trasferendo nella settima arte il caos delle epoche recenti votate alla distruzione e alle rovine.

L'umanità che Okada incontra durante il suo viaggio circolare è dipinta in maniera triste, masse lobotomizzate, spaventate, inermi, incapaci di provare emozioni autentiche.

La violenza rappresentata è perversa, estrema, ma allo stesso tempo tragicomica e grottesca, in ogni caso non viene neppure lasciato il tempo di provare sensazioni di straniamento che subentrano altre situazioni, come ad esempio i camei del geniale musicista Kazuki Tomokawa che provocano emozioni indefinite.

La regia è convulsa, visionaria ed attraversa diversi generi cinematografici, il mafia movie, l'horror, il fantasy e così tra samurai, vampiri, yakuza, zombi in divisa della seconda guerra mondiale si può ammirare la perizia di un regista che ha ben pochi eguali.

Sempre lucido, sia nelle scene di violenza, che durante le parti più oniriche e surreali, precisissimo nelle scelte di ripresa, mai si sofferma sui dettagli dei numerosi corpi dissezionati. Strepitose anche tutte le selezioni musicali.

Izo non ha pretese filosofiche, nonostante sia colmo di simboli religiosi, di iconografia pagana, di cultura giapponese, di non-dialoghi che rimandano al buddhismo, al cristianesimo, alla natura dell'uomo, ai rapporti tra il potere e masse; nulla è messo per ragionarci sopra, ma per farcelo percepire sensorialmente.

Izo non è la metafora di nulla, Izo è solamente l'opera di un regista che ha ecceduto il cinema e si è spinto nell'incomunicabilità senza per questo cadere nel manierismo o nell'intellettualismo fine a se stesso.

Un'opera eccezionale, un punto di non ritorno nella poetica incongrua e sadica di Takashi Miike.



Esistenza contemporanea – E.Cioran

Siamo qui per lottare con la vita e con la morte, e non per schivarle, come ci invita a fare la civiltà – opera di dissimulazione, di maquillage dell’insolubile. Poiché essa non contiene in sé nessun principio di durata, i suoi vantaggi, che corrispondono ad altrettanti vicoli ciechi, non ci aiutano né a vivere meglio né a morire meglio.

Quand’anche, assecondata dall’inutile scienza, giungesse a spazzar via tutti i flagelli o, per allettarci, a distribuirci pianeti a mo’ di ricompensa, non riuscirebbe che ad accrescere la nostra diffidenza e la nostra esasperazione. Più si dimena e si pavoneggia, più invidiamo le età che ebbero il privilegio di ignorare le comodità e le meraviglie con cui non cessa di gratificarci. «Con un po’ di pane d’orzo e un po’ d’acqua, si può essere felici come Giove» amava ripetere il saggio che ci intimava di nascondere la nostra vita.

(...)

Con il grado di mobilità che abbiamo raggiunto, non siamo più padroni dei nostri gesti né della nostra sorte. Ad essi presiede sicuramente una provvidenza negativa i cui disegni, a mano a mano che ci avviciniamo al nostro termine, si fanno sempre meno impenetrabili, poiché si disvelerebbero agevolmente al primo venuto se solo questi volesse fermarsi e uscire dal suo ruolo per contemplare, sia pure per un istante, lo spettacolo di quest’orda affannata e tragica di cui fa parte.

Tutto considerato, il secolo della fine non sarà quello più raffinato, e nemmeno il più complicato, ma il più convulso, quello in cui, dissoltosi l’essere in movimento, la civiltà, in un supremo slancio verso il peggio, si sgretolerà nel turbine che avrà suscitato. Dal momento che nulla può impedirle di precipitarvi, rinunciamo a esercitare le nostre virtù contro di essa, impariamo anzi a scorgere negli eccessi di cui si compiace qualcosa di esaltante, che ci inviti a moderare le nostre indignazioni e a rivedere i nostri disprezzi. Così questi spettri, questi automi, questi allucinati sono meno odiosi se si considerano i moventi inconsci, le ragioni profonde della loro frenesia: non avvertono dunque che la proroga accordata loro si riduce di giorno in giorno e che già si profila l’epilogo? E non è forse per allontanarne l’idea che si lanciano a capofitto nella velocità?

Se fossero sicuri di un altro avvenire, essi non avrebbero alcun motivo di fuggire né di fuggire se stessi: rallenterebbero il ritmo e si insedierebbero senza timore in un’aspettativa indefinita. Ma per loro non si tratta neppure di questo o quell’avvenire, perché di avvenire sono semplicemente privi; sorta dal rimescolio del sangue, è questa una certezza oscura, non formulata, che hanno timore di prendere in considerazione, che vogliono dimenticare andando in fretta, sempre più in fretta, rifiutando di avere per sé il minimo istante. Ciò nondimeno, l’ineluttabile che tale certezza racchiude, lo raggiungono proprio con quell’andatura che, secondo il loro pensiero, dovrebbe allontanarli da esso. Di tanta fretta, di tanta impazienza, le macchine sono la conseguenza e non la causa. Non sono le macchine che spingono il civilizzato alla rovina; semmai, questi le ha inventate perché già vi era avviato; mezzi, ausili per raggiungerla più rapidamente e più efficacemente. Non contento di andarci di corsa, ha voluto andarci in auto. In questo senso, e soltanto in questo, si può dire che le macchine gli permettono in effetti di «guadagnare tempo». Egli le distribuisce, le impone ai popoli arretrati, ai ritardatari, perché possano seguirlo, superarlo anzi nella corsa al disastro, nell’instaurazione di un amok universale e meccanico. E proprio al fine di assicurarne l’avvento egli si accanisce a livellare, a uniformare il paesaggio umano, a cancellarne le irregolarità e a bandirne le sorprese; ciò che gli piacerebbe farvi regnare non sono le anomalie, è l’anomalia, l’anomalia monotona e abitudinaria, convertita in regola di condotta, in imperativo. Coloro che vi si sottraggono, li taccia di oscurantismo o di stravaganza, e non disarmerà prima di averli ricondotti sulla retta via, ai suoi stessi errori. Gli illetterati sono di gran lunga i più restii a caderci; e allora ve li spingerà a forza, li obbligherà a imparare a leggere e a scrivere, affinché, presi nella trappola del sapere, nessuno di loro sfugga più all’infelicità comune.

Fonte: tratto da “La Caduta nel tempo”, E.Cioran (Ed.Adelphi)