Il caos in Medio Oriente sembra propagarsi
all'infinito a fasi alterne, in Turchia, in Egitto, in Siria, nel Libano, in
Iraq, in Palestina ed Israele.
Tutte le grandi testate giornalistiche ed i tg ne parlano da anni ma la
situazione nel mondo islamico è molto complessa di per sé, figurarsi per lo
spettatore occidentale medio che non può far altro che affidarsi ciecamente ad
un' informazione manipolata e infingarda.
Le stesse dinamiche si sono viste in Iraq, in Libia, in Siria ed in varie parti
del mondo, ovvero si fa passare per antidemocratico, tiranno e nemico dei
diritti umani un capo di stato scomodo, si cerca una qualche fetta di
popolazione malcontenta di qualcosa con il governo, la si aizza attraverso un
attento e fine lavoro di servizi segreti, mass media e propaganda, si fa
pensare al mondo che quella fetta sia la quasi totale popolazione, si portano
infiltrati da far scendere in piazza nel paese in oggetto e si fa scatenare la
“rivolta” (ovviamente documentata da reportage, foto e inquadrature studiate ad
hoc per lo sprovveduto spettatore occidentale) si accusa il “tiranno” di turno
e si legittima un intervento militare, spacciato per umanitario o per missione
di pace.
Nel 2003 fu la volta di Saddam Hussein e le sue famose armi di distruzione di
massa che ovviamente mai nessuno ha trovato, simile scenario lo abbiamo visto
in Libia con il finanziamento di rivoluzionari armati per destabilizzare un
paese tra le economie africane più forti. I mass media ad un certo punto fecero
uscire foto e video con le presunte fosse comuni di civili uccisi dal governo
di Tripoli, alimentando così lo sdegno della gente attraverso quella che poi si
rivelò una clamorosa bufala mediatica (in realtà il governo di Gheddafi mai
bombardò civili in fuga o giustiziò cittadini inermi).
Poi venne la volta della Siria e la resistenza di Assad ai mercenari
occidentali grazie all'aiuto della Russia.
Ogni volta che il governo siriano cominciava ad avere in mano la situazione
ecco che tra i media iniziavano a girare immagini di bambini vittime di gas
nervino dell'esercito siriano. Il presunto genocidio che Assad avrebbe compiuto
contro il suo stesso popolo, in un momento in cui aveva la situazione in pugno,
era chiaramente un falso.
Dietro la grande potenza persuasiva della macchina del fango mediatica
occidentale ci sono sempre i soliti pretesti guerrafondai mascherati da
missioni di pace.
La massa manipolata vive sull'immaginario dell' 11 settembre ed è
caratterizzata da un' ignoranza abissale verso tutte le dinamiche del mondo
arabo.
Riportiamo un articolo comparso sulla rivista di geopolitica Eurasia
nell'aprile del 2012 del professor Claudio Mutti che fa un po' di chiarezza sul
fondamentalismo islamico.
Lo strumento fondamentalista
“Il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’Islam
in quanto tale”. Questa frase, che Samuel Huntington colloca in chiusura del
lungo capitolo del suo Scontro delle civiltà intitolato “L’Islam e
l’Occidente”, merita di essere letta con un’attenzione maggiore di quella che
ad essa è stata riservata finora.
Secondo l’ideologo statunitense, l’Islam in quanto tale è un nemico strategico
dell’Occidente, poiché è il suo antagonista in un conflitto di fondo, che non
nasce tanto da controversie territoriali, quanto da un fondamentale ed
esistenziale confronto tra difesa e rifiuto di “diritti umani”, “democrazia” e
“valori laici”. Scrive infatti Huntington: “Fino a quando l’Islam resterà
l’Islam (e tale resterà) e l’Occidente resterà l’Occidente (cosa meno sicura)
il conflitto di fondo tra due grandi civiltà e stili di vita continuerà a
caratterizzare in futuro i reciproci rapporti”.
Ma la frase riportata all’inizio non si limita a designare il nemico
strategico; da essa è anche possibile dedurre l’indicazione di un alleato
tattico: il fondamentalismo islamico. È vero che nelle pagine dello Scontro
delle civiltà l’idea di utilizzare il fondamentalismo islamico contro l’Islam
non si trova formulata in una forma più esplicita; tuttavia nel 1996, allorché
Huntington pubblicò The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order,
una pratica di questo genere era già stata inaugurata.
“È un dato di fatto – scrive un ex ambasciatore arabo accreditato negli Stati
Uniti e in Gran Bretagna – che gli Stati Uniti abbiano stipulato delle alleanze
coi Fratelli Musulmani per buttar fuori i Sovietici dall’Afghanistan; e che, da
allora, non abbiano cessato di far la corte alla corrente islamista,
favorendone la propagazione nei paesi d’obbedienza islamica. Seguendo le orme
del loro grande alleato americano, la maggior parte degli Stati occidentali ha
adottato, nei confronti della nebulosa integralista, un atteggiamento che va
dalla benevola neutralità alla deliberata connivenza”.
L’uso tattico del cosiddetto integralismo o fondamentalismo islamico da parte
occidentale non ebbe inizio però nell’Afghanistan del 1979, quando – come
ricorda in From the Shadows l’ex direttore della CIA Robert Gates – già sei
mesi prima dell’intervento sovietico i servizi speciali statunitensi
cominciarono ad aiutare i guerriglieri afghani.
Esso risale agli anni Cinquanta e Sessanta, allorché Gran Bretagna e Stati
Uniti, individuato nell’Egitto nasseriano il principale ostacolo all’egemonia
occidentale nel Mediterraneo, fornirono ai Fratelli Musulmani un sostegno
discreto ma accertato. È emblematico il caso di un genero del fondatore del
movimento, Sa’id Ramadan, che “prese parte alla creazione di un importante
centro islamico a Monaco in Germania, intorno al quale si costituì una
federazione ad ampio raggio”. Sa’id Ramadan, che ricevette finanziamenti e
istruzioni dall’agente della CIA Bob Dreher, nel 1961 espose il proprio
progetto d’azione ad Arthur Schlesinger Jr., consigliere del neoeletto
presidente John F. Kennedy. “Quando il nemico è armato di un’ideologia
totalitaria e dispone di reggimenti di fedeli devoti, – scriveva Ramadan –
coloro che sono schierati su posizioni politiche opposte devono contrastarlo
sul piano dell’azione popolare e l’essenza della loro tattica deve consistere
in una fede contraria e in una devozione contraria. Solo delle forze popolari,
genuinamente coinvolte e genuinamente reagenti per conto proprio, possono far
fronte alla minaccia d’infiltrazione del comunismo”.
L’uso strumentale dei movimenti islamisti funzionali alla strategia atlantica
non terminò con il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan. Il patrocinio
fornito dall’Amministrazione Clinton al separatismo bosniaco ed a quello
kosovaro, l’appoggio statunitense e britannico al terrorismo wahhabita nel
Caucaso, il sostegno ufficiale di Brzezinski ai movimenti fondamentalisti
armati in Asia centrale, gl’interventi a favore delle bande sovversive in Libia
ed in Siria sono gli episodi successivi di una guerra contro l’Eurasia in cui gli
USA e i loro alleati si avvalgono della collaborazione islamista.
Il fondatore di An-Nahda, Rachid Ghannouchi, che nel 1991 ricevette gli elogi
del governo di George Bush per l’efficace ruolo da lui svolto nella mediazione
tra le fazioni afghane antisovietiche, ha cercato di giustificare il
collaborazionismo islamista abbozzando un quadro pressoché idilliaco delle
relazioni tra gli USA e il mondo islamico. A un giornalista del “Figaro” che
gli chiedeva se gli americani gli sembrassero più concilianti degli Europei il
dirigente islamista tunisino ha risposto di sì, perché “non esiste un passato
coloniale tra i paesi musulmani e l’America; niente Crociate, niente guerra,
niente storia”; ed alla rievocazione della lotta comune di americani e
islamisti contro il nemico bolscevico ha aggiunto la menzione del contributo
inglese.
La “nobile tradizione salafita”
L’islamismo rappresentato da Rachid Ghannouchi, scrive un orientalista, è
quello che “si richiama alla nobile tradizione salafita di Muhammad ‘Abduh e che
ha avuto una versione più moderna nei Fratelli Musulmani”.
Ritornarebal puro Islam dei “pii antenati” (as-salaf as-sâlihîn), facendo
piazza pulita della tradizione scaturita dal Corano e dalla Sunna nel corso dei
secoli: è questo il programma della corrente riformista che ha i suoi
capostipiti nel persiano Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897) e nei suoi
discepoli, i più importanti dei quali furono l’egiziano Muhammad ‘Abduh
(1849-1905) e il siriano Muhammad Rashid Rida (1865-1935).
Al-Afghani, che nel 1883 fondò l’Associazione dei Salafiyya, nel 1878 era stato
iniziato alla massoneria in una loggia di rito scozzese del Cairo. Egli fece
entrare nell’organizzazione liberomuratoria gli intellettuali del suo
entourage, tra cui Muhammad ‘Abduh, il quale, dopo aver ricoperto una serie di
altissime cariche, il 3 giugno 1899 diventò Muftì dell’Egitto col beneplacito
degl’Inglesi.
“Sono i naturali alleati del riformatore occidentale, meritano tutto
l’incoraggiamento e tutto il sostegno che può esser dato loro”: questo
l’esplicito riconoscimento del ruolo di Muhammad ‘Abduh e dell’indiano Sir
Sayyid Ahmad Khan (1817-1889) che venne dato da Lord Cromer (1841-1917), uno
dei principali architetti dell’imperialismo britannico nel mondo musulmano.
Infatti, mentre Ahmad Khan asseriva che “il dominio britannico in India è la
cosa più bella che il mondo abbia mai visto” ed affermava in una fatwa che “non
era lecito ribellarsi agli inglesi fintantoché questi rispettavano la religione
islamica e consentivano ai musulmani di praticare il loro culto”, Muhammad
‘Abduh trasmetteva all’ambiente musulmano le idee razionaliste e scientiste
dell’Occidente contemporaneo. ‘Abduh sosteneva che nella civiltà moderna non
c’è nulla che contrasti col vero Islam (identificava i ginn con i microbi ed
era convinto che la teoria evoluzionista di Darwin fosse contenuta nel Corano),
donde la necessità di rivedere e correggere la dottrina tradizionale
sottoponendola al giudizio della ragione e accogliendo gli apporti scientifici
e culturali del pensiero moderno.
Dopo ‘Abduh, capofila della corrente salafita fu Rashid Rida, che in seguito
alla scomparsa del califfato ottomano progettò la creazione di un “partito
islamico progressista” in grado di creare un nuovo califfato. Nel 1897 Rashid
Rida aveva fondato la rivista “Al-Manar”, la quale, diffusa in tutto il mondo
arabo ed anche altrove, dopo la sua morte verrà pubblicata per cinque anni da
un altro esponente del riformismo islamico: Hasan al-Banna (1906-1949), il
fondatore dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani.
Ma, mentre Rashid Rida teorizzava la nascita di un nuovo Stato islamico
destinato a governare la ummah, nella penisola araba prendeva forma il Regno
Arabo Saudita, in cui vigeva un’altra dottrina riformista: quella wahhabita.
La setta wahhabita
La setta wahhabita trae il proprio nome dal patronimico di Muhammad ibn ‘Abd
al-Wahhab (1703-1792), un arabo del Nagd di scuola hanbalita che si entusiasmò
ben presto per gli scritti di un giurista letteralista vissuto quattro secoli
prima in Siria e in Egitto, Taqi ad-din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328).
Sostenitore di ottuse interpretazioni antropomorfiche delle immagini contenute
nel linguaggio coranico, animato da un vero e proprio odium theologicum nei
confronti del sufismo, accusato più volte di eterodossia, Ibn Taymiyya ben
merita la definizione di “padre del movimento salafita attraverso i secoli”
datagli da Henry Corbin. Seguendo le sue orme, Ibn ‘Abd al-Wahhab e i suoi
partigiani bollarono come manifestazioni di politeismo (shirk) la fede nell’intercessione
dei profeti e dei santi e, in genere, tutti quegli atti che, a loro giudizio,
equivalessero a ritenere partecipe dell’onnipotenza e del volere divino un
essere umano o un’altra creatura, cosicché considerarono politeista (mushrik),
con tutte le conseguenze del caso, anche il pio musulmano trovato ad invocare
il Profeta Muhammad o a pregare vicino alla tomba di un santo. I wahhabiti
attaccarono le città sante dell’Islam sciita, saccheggiandone i santuari;
impadronitisi nel 1803-1804 di Mecca e di Medina, demolirono i monumenti
sepolcrali dei santi e dei martiri e profanarono perfino la tomba del Profeta;
misero al bando le organizzazioni iniziatiche e i loro riti; abolirono la
celebrazione del genetliaco del Profeta; taglieggiarono i pellegrini e
sospesero il Pellegrinaggio alla Casa di Dio; emanarono le proibizioni più
strampalate.
Sconfitti dall’esercito che il sovrano egiziano aveva inviato contro di loro
dietro esortazione della Sublime Porta, i wahhabiti si divisero tra le due
dinastie rivali dei Sa’ud e dei Rashid e per un secolo impegnarono le loro
energie nelle lotte intestine che insanguinarono la penisola araba, finché Ibn
Sa’ud (‘Abd al-’Aziz ibn ‘Abd ar-Rahman Al Faysal Al Su’ud, 1882-1953)
risollevò le sorti della setta. Patrocinato dalla Gran Bretagna, che, unico
Stato al mondo, nel 1915 instaurò relazioni ufficiali con lui esercitando un
“quasi protettorato” sul Sultanato del Nagd, Ibn Sa’ud riuscì ad occupare Mecca
nel 1924 e Medina nel 1925. Diventò così “Re del Higiaz e del Nagd e sue
dipendenze”, secondo il titolo che nel 1927 gli venne riconosciuto nel Trattato
di Gedda del 20 maggio 1927, stipulato con la prima potenza europea che
riconobbe la nuova formazione statale wahhabita: la Gran Bretagna.
“Le sue vittorie – scrisse uno dei tanti orientalisti che hanno cantato le sue
lodi – lo han reso il sovrano più potente d’Arabia. I suoi domini toccano
l’Iràq, la Palestina, la Siria, il Mar Rosso e il Golfo Persico. La sua
personalità di rilievo si è affermata con la creazione degli Ikhwàn o Fratelli:
una confraternita di Wahhabiti attivisti che l’inglese Philby ha chiamato ‘una
nuova massoneria’”.
Si tratta di Harry St. John Bridger Philby (1885-1960), l’organizzatore della
rivolta araba antiottomana del 1915, il quale “aveva occupato alla corte di Ibn
Saud il posto del deceduto Shakespeare”, per citare l’espressione iperbolica di
un altro orientalista di quell’epoca. Fu lui a caldeggiare presso Winston
Churchill, Giorgio V, il barone Rothschild e Chaim Weizmann il progetto di una monarchia
saudita che, usurpando la custodia dei Luoghi Santi tradizionalmente assegnata
alla dinastia hascemita, unificasse la penisola araba e controllasse per conto
dell’Inghilterra la via marittima Suez-Aden-Mumbay.
Con la fine del secondo conflitto mondiale, durante il quale l’Arabia Saudita
mantenne una neutralità filoinglese, al patrocinio britannico si sarebbe
aggiunto e poi sostituito quello nordamericano. In tal senso, un evento
anticipatore e simbolico fu l’incontro che ebbe luogo il 1 marzo 1945 sul
Canale di Suez, a bordo della Quincy, tra il presidente Roosevelt e il sovrano
wahhabita; il quale, come ricordava orgogliosamente un arabista statunitense,
“è sempre stato un grande ammiratore dell’America, che antepone anche
all’Inghilterra”. Infatti già nel 1933 la monarchia saudita aveva dato in
concessione alla Standard Oil Company of California il monopolio dello
sfruttamento petrolifero, mentre nel 1934 la compagnia americana Saoudi Arabian
Mining Syndicate aveva ottenuto il monopolio della ricerca e dell’estrazione
dell’oro.
I Fratelli Musulmani
Usurpata la custodia dei Luoghi Santi ed acquisito il prestigio connesso a tale
ruolo, la famiglia dei Sa’ud avverte l’esigenza di disporre di una
“internazionale” che le consenta di estendere la propria egemonia su buona
parte della comunità musulmana, al fine di contrastare la diffusione del
panarabismo nasseriano, del nazionalsocialismo baathista e – dopo la
rivoluzione islamica del 1978 in Iran – dell’influenza sciita. L’organizzazione
dei Fratelli Musulmani mette a disposizione della politica di Riyad una rete
organizzativa che trarrà alimento dai cospicui finanziamenti sauditi. “Dopo il
1973, grazie all’aumento dei redditi provenienti dal petrolio, i mezzi
economici non mancano; verranno investiti soprattutto nelle zone in cui un
Islam poco ‘consolidato’ potrebbe aprire la porta all’influenza iraniana, in
particolare l’Africa e le comunità musulmane emigrate in Occidente”.
D’altronde la sinergia tra la monarchia wahhabita e il movimento fondato nel
1928 dall’egiziano Hassan al-Banna (1906-1949) si basa su un terreno dottrinale
sostanzialmente comune, poiché i Fratelli Musulmani sono gli “eredi diretti,
anche se non sempre rigorosamente fedeli, della salafiyyah di Muhammad ‘Abduh”
e in quanto tali recano inscritta fin dalla nascita nel loro DNA la tendenza ad
accettare, sia pure con tutte le necessarie riserve, la moderna civiltà
occidentale. Tariq Ramadan, nipote di Hassan al-Banna ed esponente dell’attuale
intelligencija musulmana riformista, così interpreta il pensiero del fondatore
dell’organizzazione: “Come tutti i riformisti che l’hanno preceduto, Hassan
al-Banna non ha mai demonizzato l’Occidente. (…) L’Occidente ha permesso
all’umanità di fare grandi passi in avanti e ciò è avvenuto a partire dal
Rinascimento, quando è iniziato un vasto processo di secolarizzazione (‘che è
stato un apporto positivo’, tenuto conto della specificità della religione
cristiana e dell’istituzione clericale)” L’intellettuale riformista ricorda che
il nonno, nella sua attività di maestro di scuola, si ispirava alle più recenti
teorie pedagogiche occidentali e riporta da un suo scritto un brano eloquente:
“Dobbiamo ispirarci alle scuole occidentali, ai loro programmi (…) Dobbiamo
anche prendere dalle scuole occidentali e dai loro programmi il costante
interesse all’educazione moderna e il loro modo di affrontare le esigenze e la
preparazione all’apprendimento, fondate su metodi saldi tratti da studi sulla
personalità e la naturalità del bambino(…) Dobbiamo approfittare di tutto ciò,
senza provare alcuna vergogna: la scienza è un diritto di tutti (…)”.
Con la cosiddetta “Primavera araba”, si è manifestata in maniera ufficiale la
disponibilità dei Fratelli Musulmani ad accogliere quei capisaldi ideologici
della cultura politica occidentale che Huntington indicava come termini
fondamentali di contrasto con l’Islam. In Libia, in Tunisia, in Egitto i
Fratelli hanno goduto del patrocinio statunitense.
Il partito egiziano Libertà e Giustizia, costituito il 30 aprile 2011 per iniziativa
della Fratellanza e da essa controllato, si richiama ai “diritti umani”,
propugna la democrazia, appoggia una gestione capitalistica dell’economia, non
è contrario ad accettare prestiti dal Fondo Monetario Internazionale. Il suo
presidente Muhammad Morsi (n. 1951), oggi presidente dell’Egitto, ha studiato
negli Stati Uniti, dove ha anche lavorato come assistente universitario alla
California State University; due dei suoi cinque figli sono cittadini
statunitensi. Il nuovo presidente ha subito dichiarato che l’Egitto rispetterà
tutti i trattati stipulati con altri paesi (quindi anche con Israele); ha
compiuto in Arabia Saudita la sua prima visita ufficiale e ha dichiarato che
intende rafforzare le relazioni con Riyad; ha dichiarato che è un “dovere etico”
sostenere il movimento armato di opposizione che combatte contro il governo di
Damasco.
Se la tesi di Huntington aveva bisogno di una dimostrazione, i Fratelli
Musulmani l’hanno fornita.”
Il caos in Medio Oriente
Adattarsi alla modernità – M.Eliade
A differenza di tanti, non penso che la
“civiltà” annichilisca, necessariamente, l’uomo. Se l’uomo moderno è meno sano,
se è degenerato, nevrotico, sradicato non è da imputarsi al fatto che vive in
una società industriale, in una metropoli, che dispone di tecnologia, ma
semplicemente al fatto di non essere ancora riuscito ad adattarsi al nuovo
ambiente cosmico che gli hanno creato le sue stesse scoperte e mezzi di
produzione. Permane uno sfasamento tra l’ambiente moderno e l’uomo.
Prima che si adatti, soffrirà, degenererà e diverrà sterile, proprio come sono
andate le cose nei periodi di transizione dallo stadio dei raccoglitori di
frutti e sementi a quello degli allevatori o dal nomadismo all’agricoltura. E’
certo che i primi nomadi che divennero stanziali e coltivarono la terra
parevano “degenerati” in confronto ai loro predecessori; quelli erano liberi,
vigorosi, non legati alla terra né tentati dalla ricchezza ecc. Da un punto di
vista “igienico”, è certo che, all’inizio, l’agricoltore sembrava un degenerato
rispetto al pastore; il duro lavoro lo spossava, era fisicamente senza forze
ecc. Ma alcune generazioni più tardi, quando l’agricoltura si perfezionò, i
coltivatori della terra, meglio alimentati, acquisirono una condizione fisica
superiore a quella dei pastori (ciò che persero per sempre fu la forza morale;
la mistica tellurica ebbe come conseguenza l’orgia; la proprietà inasprì il
sentimento di possesso, promosse l’atteggiamento passivo e fatalista davanti al
cosmo – le piogge, le siccità, le inondazioni andavano oltre i poteri
dell’uomo-, incoraggiò l’opportunismo e anche la viltà, perché il pover uomo
doveva arrivare a un’intesa con gli invasori).
Per ritornare al nostro punto: non credo che il semplice fatto di vivere in una società civile ed estremamente industrializzata implichi la degenerazione fisica, lo squilibrio o la sterilità spirituale. Ciò che credo è che non ci siamo adattati all’ambiente; anche in una città di grattacieli l’uomo può restare in contatto con i ritmi cosmici, può “realizzare” il miracolo dell’alternarsi del giorno con la notte, e quello delle fasi lunari. Il dramma universale – vita e coscienza, tutto è frammento, divenire ed esistenza – è immediato in una fabbrica come nelle solitudini himalaiane. La città moderna non è per forza avulsa dalla natura; solo le eresie urbanistiche hanno escluso i giardini; ma il cemento e il ferro possono inserirsi perfettamente come elementi del paesaggio naturale della vegetazione. Prova ne sia il mimetismo delle fortificazioni e delle fabbriche durante la guerra.
Fonte: “Diario Portoghese”, M.Eliade (Jaca
Book)
La vera religione - Agostino d'Ippona
Tempo storico e Tempo liturgico – M.Eliade
La superiorità del cristianesimo rispetto alla filosofia secondo Tertulliano
Il cristianesimo, invece, è un evento, frutto della rivelazione divina in Cristo, ossia della comunicazione della verità divina (che è Dio, e di tutte le cose in Dio) all'uomo. La teologia è la riflessione critica sulla realtà avendo come criterio la rivelazione divina e come strumento l'indagine razionale, in vista di una comprensione razionale (scientifica) della verità divina.
La filosofia, proprio a motivo del suo criterio razionale, è esposta a tutti i limiti della mente umana (difficoltà di giungere alla verità, incertezze nel possesso della verità, parzialità di comprensione, possibilità di errore). Non così per la fede, che si fonda sulla rivelazione: la regola della fede è la regola della verità (esente da errore, sicura, perenne, universale).
Esistono delle analogie tra la fede cristiana e la filosofia (alcune verità su Dio, sul mondo, sull'uomo) , ma la divina rivelazione supera la filosofia poiché la precede. La filosofia,infatti, posteriore alla rivelazione, ha mutuato da questa alcune verità, deformandole poi con il suo criticismo.
Quanto c'è di vero nella filosofia non appartiene alla filosofia, ma alla fonte della verità che è la rivelazione divina.
Perciò la filosofia è anche la fonte di tutte le eresie.
Infatti, qualsiasi deviazione dalla regola della fede nasce da un'interpretazione soggettiva del dato scritturistico mossa da un eccessivo spirito critico che fa della ragione il criterio di verità.
Mentre il filosofo cerca fama dalla sua sapienza, il cristiano cerca la salvezza dalla verità conosciuta.
Il cristiano non insegue un ideale morale per quanto sublime esso sia, quasi alla ricerca della propria perfezione, ma imita colui che più d'ogni altro è degno d'amore: Gesù Cristo. Non si sacrifica unicamente per coerenza ai propri princìpi e valori, ma dona la sua vita per amore a Cristo, cioè a colui che lo ha amato e salvato.
Rimane il fatto che, rispetto a qualsiasi filosofia, solo il cristianesimo pratica in modo autentico - perché divino - una vita virtuosa: l'amore, la misericordia e il perdono, la castità, l'umiltà, la fedeltà. Una dottrina umana può proporre soltanto un ideale umano , senza peraltro dare la forza di attuarlo; la dottrina divina propone all'uomo la vita divina, donandogli la grazia di viverla. La vita cristiana non è dunque una vita umana, ma una vita umano-divina: la vita di Cristo.
Tratto dall' introduzione a "Difesa del Cristianesimo", Tertulliano (ed.Dekker)
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È la filosofia stessa, invero, che dà materia a quella che si chiama mondana saggezza, dal momento che, con molta libertà e pretesa arroganza, interpreta la natura divina, i suoi disegni e i suoi procedimenti. Diciamolo francamente: le eresie stesse sono quelle che attingono forza e consistenza da tali principi filosofici. È dalla filosofia infatti, che Valentino prende la concezione degli Eoni e di una quantità di forme, di cui non saprei dire neppure il numero: infinite esse sono; e il concetto di una Trinità umana: o non era costui stato discepolo di Platone? E non è da quella stessa fonte, che scaturisce il dio di Marcione, preferibile agli altri? Almeno ha un carattere di tranquillità; e anche la sua dottrina deriva dagli Stoici. Sono stati gli Epicurei quelli che hanno sostenuto il principio che l'anima è soggetta alla morte, e se tu vuoi negare il principio della resurrezione della carne, tu potrai attingere per questo punto dai dettami di tutti quanti gli antichi filosofi: dove trovi che la materia è uguagliata con la natura di Dio, quivi potrai riconoscere la dottrina di Zenone; ed ecco invece che ti vien fuori Eraclito, quando si parli di una divinità che abbia in sè natura ignea; è la stessa materia, in fondo, che viene trattata, agitata, e da eretici e da filosofi: donde il male e perchè? Donde l'uomo e come egli è sorto? Ed ecco il problema che ultimamente Valentino s'è posto: donde Iddio? Deriva dall'Entimesi o dall'Ectroma? O Aristotele, mal facesti, tu, che hai loro insegnato la dialettica, arte abile ugualmente e a costruire e a distruggere, diversa e sfuggevole nelle sue asserzioni, immoderata, sforzata nelle sue congetture; aspra, difficile nelle sue argomentazioni, che crea con facilità contrasti; laboriosa e molesta talvolta a sè stessa, che tutto pone in discussione sottile, perchè appunto nulla sfugga all'attento e minuzioso esame di lei! Di qui proprio derivano quei racconti favolosi, quelle genealogie interminabili, quelle questioni lunghe ed oziose, quelle discussioni sottili, che s'insinuano negli animi come qualcosa di malefico che ti consuma e ti uccide.
L'Apostolo, quando vuole preservarci da quello che è male, ci avverte appunto di star bene in guardia contro l'opera della filosofia: egli la ricorda chiaramente, espressamente: scrive ai Colossesi: Guardatevi, perchè non vi sia qualcuno che non v'inganni con la filosofia, che, con vane apparenze di verità, non vi tragga fuori dalla retta strada, secondo l'umana tradizione e contrariamente alla provvidenza dello Spirito Santo. Paolo era stato in Atene, e questa specie di umana sapienza l'aveva ben conosciuta con le relazioni che aveva avuto coi filosofi: pretende essa alla verità, ma non fa che impedire il raggiungimento di questa, e, divisa com'è in una quantità di sette contrastanti intimamente fra loro, da luogo a credenze varie e contradittorie.
Fonte: “Contro gli eretici” di Tertulliano (ed.Città Nuova)
Post-fascismo e neo-comunismo - C.Terracciano
L'illusione dell'alfabetismo - A.Coomaraswamy
2) imporre la nostra istruzione (e la nostra "letteratura" contemporanea) a popoli che pur avendo una loro cultura sono analfabeti, equivale a distruggere, in nome della nostra, la loro cultura.
Per non dilungarci troppo diamo per scontato che il termine "cultura" implica una qualità ideale e una perfezione di forme che possono essere realizzate da tutti gli uomini indipendentemente dalle loro condizioni; e siccome intendiamo specialmente la cultura quale si esprime nelle parole, identificheremo "cultura" con "poesia"; dicendo "poesia" non intendiamo quella specie di poesia che oggi sfringuella di prati verdi o che semplicemente riflette il comportamento sociale o le nostre reazioni personali di fronte agli eventi quotidiani; intendiamo invece tutto il complesso di quella letteratura profetica in cui rientrano la Bibbia, i "Veda", la "Edda", le grandi opere epiche e, in genere, i "migliori libri" del mondo e i più filosofici, se vogliamo dar ragione a Platone quando dice che "lo stupore è l'inizio della filosofia". Molti di questi "libri" già esistevano prima ancora che venissero scritti, molti non sono mai stati scritti, altri sono andati o andranno perduti. Qui sarà bene citare alcune affermazioni di uomini la cui "cultura "non può essere messa in discussione; mentre infatti coloro che sono semplicemente "alfabetizzati" menano gran vanto della loro istruzione, quale che sia, soltanto uomini che siano "non soltanto alfabetizzati ma anche colti" ammettono ampiamente che le "lettere" sono al massimo un mezzo in vista di un fine, mai un fine in se stesse; in altre parole, che "la lettera uccide". Un autentico "letterato" - se mai vene fu uno -, il professor G. L. Kittredge, scriveva : "Occorre uno sforzo congiunto della ragione e dell'immaginazione per concepire un poeta come un individuo che non sa scrivere, che canta o recita i suoi versi a un pubblico che non sa leggere... La capacità della tradizione orale di trasmettere grandi quantità di versi per centinaia di anni è dimostrata e ammessa... Questa che i francesi chiamano letteratura orale non è amica dell' 'istruzione'. L'alfabetizzazione la distrugge, talvolta con una rapidità che lascia sgomenti. "Quando una nazione comincia a leggere, ciò che prima era possesso del popolo nel suo insieme si riduce a eredità di coloro che sono analfabeti, e molto presto scompare nel nulla, se non viene raccolto come oggetto di antiquariato"". Si noti inoltre che questa letteratura orale una volta "apparteneva a tutto il popolo..., alla comunità nella quale gli interessi intellettuali sono identici, al vertice come alla base della struttura sociale", mentre nella società alfabetizzata questa letteratura orale è accessibile soltanto agli antiquari e non ha più alcun legame con la vita di ogni giorno. Un altro punto importante è questo: alle letterature orali tradizionali erano interessate non solo tutte le "classi" ma altresì tutte le "età" della popolazione; oggi invece si scrivono libri appositamente "per bambini", che nessuno spirito maturo riesce a tollerare; oggi solo più i fumetti interessano nella stessa misura i ragazzi (per i quali non si è trovato niente di meglio) e quegli "adulti" che adulti non sono mai diventati. Con gli stessi criteri oggi viene raccolta la musica; i canti popolari sono persi per il popolo dal momento stesso in cui vengono raccolti e "archiviati"; quando si cerca di "preservare" l'arte popolare chiudendola nei musei, si celebra il suo funerale: l'imbalsamazione, infatti, si rende necessaria soltanto dopo che il paziente è giàspirato. E non ci si illuda che il "canto della comunità" possa sostituire i canti popolari: il suo livello non può essere più alto dell'inglese elementare, necessario ai nostri studenti universitari per poter capire il linguaggio dei loro manuali. In altre parole, "l'istruzione universale obbligatoria, quale è stata introdotta alla fine del secolo scorso, non ha formato cittadini più felici e più efficienti, come si sperava; al contrario, ha fornito soltanto lettori per romanzi gialli e spettatori al cinema" (Karl Otten). Un professore che era in grado non solo di leggere il greco e il latino classico ma anche di "scriverlo" egregiamente, osservava: "Non v'è dubbio che si è avuto un incremento quantitativo dell'istruzione in genere, ma mentre tutti si compiacciono che qualcosa segni una crescita, si evita di domandarsi se questo qualcosa è un profitto o una perdita". Questo lo diceva nel corso di una discussione sui pessimi effetti dell'istruzione forzata, e concludeva: "L'apprendimento e la sapienza sono stati spesso divisi; forse il risultato più evidente della moderna diffusione dell'istruzione è stato quello di mantenere e anzi approfondire questa divisione" . Douglas Hyde fa notare che "inutilmente visitatori disinteressati si sono meravigliati nel vedere maestri di scuola che non conoscevano una parola di irlandese alle prese con scolari che non conoscevano una parola di inglese... Ragazzi intelligenti, dotati di un frasario corrente di circa tremila parole, entrano nelle scuole statali e alla fine ne escono con questo risultato: la loro vivacità naturale è scomparsa, la loro intelligenza è quasi del tutto distrutta dalle basi, la loro meravigliosa padronanza della madrelingua è persa per sempre, sostituita con cinque-seicento parole di inglese malamente pronunciate e barbaramente usate... La storia, la poesia lirica, le canzoni, gli aforismi e i proverbi, in pratica l'unica base dello spirito di chi parla irlandese è persa per sempre, "e nulla la può sostituire"... Ai ragazzi si insegna, come minimo, a vergognarsi dei genitori, della propria nazionalità, del proprio nome... E' un sistema di 'educazione' veramente straordinario" . E' il sistema che gli americani civili e istruiti hanno inflitto ai loro amerindi e che tutte le razze imperialistiche continuano a infliggere ai popoli che hanno assoggettato, e che vorrebbero infliggere a quelli che sono loro alleati. Il problema investe sia il linguaggio sia il suo contenuto. Per quanto riguarda il linguaggio, bisogna anzitutto tener presente che non esiste un linguaggio "primitivo" nel senso di una terminologia limitata, sufficiente soltanto a esprimere le relazioni esteriori più semplici. Questa semmai è una degradazione cui tende una lingua condizionata dalle filosofie della pura empiricità in determinate circostanze; non è certo la sua condizione originaria; il novanta percento dell'"istruzione" americana, per esempio, è compresa in due sillabe . Nel secolo diciassettesimo Robert Knox scriveva dei singalesi di Ceylon che "i contadini e i braccianti parlano con eleganza e sono pieni di belle maniere; non esiste differenza di talento e di linguaggio tra chi abita in campagna e chi frequenta la corte". Testimonianze analoghe e di analogo significato sono rintracciabili in ogni parte del mondo. Così, riguardo al dialetto gaelico, J. F.Campbell scriveva: "Io sono incline a pensare che il dialetto sia parlato nella sua forma migliore dalle popolazioni più analfabete delle isole..., uomini con idee chiare e memoria meravigliosa, generalmente molto poveri e anziani, che vivono in angoli nascosti diisole remote, che parlano soltanto il gaelico" ; e cita Hector Maclean, secondo il quale la perdita della loro letteratura orale è dovuta "in parte alla lettura..., in parte al fanatismo religioso e in parte a grette considerazioni utilitaristiche", che sono precisamente le tre forme nelle quali la civiltà moderna si impone alle culture più antiche. Alexander Carmichael diceva che "gli abitanti del l'isola di Lewis, come in genere tutti i montanari del nord della Scozia e delle isole, hanno le Scritture nel loro animo e le inseriscono nei loro discorsi... Forse nessun popolo aveva una tradizione di canti e di racconti, di cerimonie civili e di riti religiosi... più ricca di quella degli incompresi e cosiddetti analfabeti montanari della Scozia". Saint Barbe Baker scrive che nell'Africa Centrale aveva come "amico e compagno fidato un vecchio che non sapeva né leggere né scrivere, benché fosse un esperto conoscitore di storie del passato... I vecchi capitribù lo ascoltavano incantati... L'attuale sistema di educazione rischia seriamente di disperdere molto di tutto questo" . W. G.Archer fa notare che "diversamente dal sistema inglese, nel quale uno potrebbe addirittura trascorrere tutta la vita senza venire mai a contatto con la poesia, il sistema tribale degli Uraon utilizza la poesia come una appendice viva della danza, degli sposalizi e della coltivazione della terra, funzioni cui partecipano tutti, perché elementi costitutivi della loro vita in tribù"; e aggiunge: "Chi volesse scoprire la causa del declino della cultura contadina in Inghilterra, la rintraccerebbe nell'alfabetizzazione" .