Hadewijch d'Anversa secondo Bruno Dumont

 Il cinema di Bruno Dumont, seguendo palesemente la scuola di Robert Bresson, è completamente immune dai classici cliché cinematografici ed è votato verso una incessante ricerca su ciò che vi è nascosto al di là dei dati empirici.

Il linguaggio filmico utilizzato è scarno, la scrittura è ridotta ai minimi; troviamo solitamente poche parole stentate e poi soltanto gesti e sguardi. Tutti i film prodotti dal regista francese sono stati concepiti, seppur con sfumature differenti, come veri e propri esercizi di ascesi, ricercando una misura interiore e mistica che coincidesse però con una forma ben definita.

Girato tra il Nord della Francia ed il Medio Oriente, Hadewijch è il quinto lungometraggio di Bruno Dumont. Il titolo allude ad Hadewijch d'Anversa, una mistica fiamminga del XIII secolo.

Céline (la non professionista Julie Sokolowski ), ispirata da una incredibile foga mistica viene espulsa dal convento e torna a casa dai genitori . L’amicizia con Yassine e suo fratello Nassir coinvolge però la giovane nuovamente in un ambiente spirituale: il mondo islamico più radicale. La sua estasi religiosa riemerge così con prepotenza portandola ad intraprendere un percorso interiore votato alla trascendenza. Occhi al cielo e sguardo illuminato, la giovane persegue il suo profondo sentimento d’amore, distante dalla fede razionalista di Nassir e i suoi compagni.

Cèline soffre anche  fisicamente, mortifica il suo corpo mettendo a repentaglio la vita per andar incontro alle sue esigenze animiche (“Voglio vincere la tua potenza a rischio di soccombere e morire”) e come una folle martire, giunge al punto di abbandono dell’essenza. Entra nel lago del vecchio convento per farla finita, ma un ragazzo sconosciuto, che lavora in zona, la fa riemergere dandole la definitiva  prova della presenza divina. Un amore che giunge nel mondo manifesto sotto sembianze umane ma che Cèline recepisce appieno nel profondo come la risultante del suo slancio di fede. E così la sua astinenza estrema nei confronti del Cristo, inteso come spirito, si placa in un caldo abbraccio col giovane operaio.

La scena finale merita una spiegazione dettagliata. Dumont non parla del semplice “credere in Dio”, ciò che accade alla protagonista è un credo profondo che non le impedisce di rendersi conto di quello che realmente accade.
La fede di Hadewjich è una fede che non parla, non pensa, non ha idee, che è pura volontà. Lo sviluppo spirituale di Cèline essendo un costante flusso luminoso, la porta a volare alto, le persone che le stanno attorno, genitori, suore e fondamentalisti religiosi, non la possono afferrare, poiché ignorano come è fatta la via che lei decide di percorrere. Cèline  invece, attraversa tutti i luoghi manifesti delle emanazioni della luce, al di là del bene e del male, senza mai darsi risposte, fino a quando, giunge sul luogo del mistero dell’unico, dell’ineffabile, che lei accoglie a cuore aperto.

Hadewijch  è una figura cristologica che Dumont, seguendo la lezione di Dreyer riprende con lunghissimi primi piani in cui il suo volto appare inondato di bianca luce cosmica.
E’ un film immune da ogni tipo di compromesso, che non ha messaggi da proporre, ma solo sensazioni. L’austerità bressoniana la fa nettamente da padrone sin dalle prime inquadrature prolungate che indugiano sul volto della prima attrice  per coglierne la straordinaria intensità. La macchina da presa si muove molto lentamente, dilatando i pianisequenza  e rinunciando spesso e volentieri al sollievo dell'alternanza campo/controcampo. Non vi sono autocompiacimenti, la fotografia di Yves Cape è nitida ed abbagliante, a tratti  al limite dell’espressionismo.
L’arte del regista francese è austera ma non coercitiva, il rigore e la purezza formale non perseguono l'estetica bensì una dimensione spirituale e trascendente.

«La mistica è esattamente questo. È passare attraverso le apparenze per accedere a un'altra dimensione».

«È un paesaggio interiore che filmo. Penso che dovreste vedere Hadewijch non come un personaggio, ma come un sentimento. È puro sentimento, è l'incarnazione del nostro bisogno di amare ed essere amati. Di fatto, è un'astrazione».


«Penso che la religione sia veramente il cuore delle cose. Ma penso anche che oggi si dovrebbe tornare alle radici delle sue origini. La religione è un sentimento arcaico – comunque, è un sentimento importante per l'umanità. Credo che dovremmo riportare la religione nel luogo da dove è venuta, abbiamo ancora un bisogno spirituale nella nostra vita quotidiana. Si tratta di qualcosa che è essenziale per la vita moderna. E questo è qualcosa che ho cercato di affrontare nel personaggio di Hadewijch, per collocarlo in un contesto moderno. Hadewijch è colei per la quale la spiritualità religiosa muore in una chiesa e, alla fine del film, rinasce nella spiritualità umana».

«Quando tu ti avvicini al misticismo, hai ad occuparti di qualcosa che non ha nulla a che fare con la razionalità e la mente logica. Si raggiungono zone o aree toccate dall'estasi, esperienze estatiche che trovo assolutamente stupefacenti».

"A forza di fare cinema mi sento senza dubbio, naturalmente, portato poco a poco verso una visione più mistica del mondo. La mistica è come una sorta di gradazione supplementare, nascosta, misteriosa. C'è una prossimità tra il cinema e la mistica, sul loro rapporto col reale e con le apparenze, e sulla potenza delle sensazioni che possono generare."

"Spero di utilizzare mezzi sufficienti a darmi un cinema che entri davvero all'interno dei personaggi, là dove le sensazioni cominciano. Ciò che mi interessa è esplorare la profondità degli esseri e ciò che li motiva ad agire. Il problema è come l'amore possa essere capace di scatenare un'immensa violenza." 
(Bruno Dumont)

Dante e la scienza contemporanea - P.Florenskij

Ricordiamo la struttura portante della cosmologia dantesca. Fare ciò è proprio necessario per il fatto che nei commenti alla Divina Commedia essa viene spesso disegnata come sfera terrestre circondata dalle sfere degli astri celesti, dal cielo delle stelle fisse, dal cielo cristallino e infine dall’ Empireo; cosicchè il tragitto che compie Dante, uscendo dalle viscere della terra viene disegnato con una linea spezzata che si trasforma in una spirale attraverso sfere concentriche voltando di 180° verso lo Zenit di Sion. Un tale disegno non è affatto conforme nè al racconto di Dante nè ai fondamenti della sua cosmologia. Il quadro, infatti, di questo universo non è rappresentabile secondo il disegno euclideo; cosi come la metafisica dantesca non è paragonabile alla filosofia di Kant. I matematici Khalsted 1905, Weber 1905, Simon 1912 hanno già segnalato in Dante gli anticipi della geometria non euclidea: ad esempio negli interrogativi al Signore da parte del re Salomone ansioso di sapere 

... se del mezzo cerchio far si pote

triangol si ch’un retto non avesse

(Par. XXIII, vv. 101-102)

Ricorderemo dunque il viaggio di Dante e Virgilio. Esso inizia in Italia. Entrambi i poeti scendono le erte imbutiformi dell’ Inferno. L’imbuto termina con l’ultimo cerchio, il più stretto: quello del signore dell’ Inferno. In questo percorso entrambi conservano, per tutto il tempo della discesa, la posizione verticale con la testa verso il luogo da cui sono scesi, cioè verso l’Italia e dei piedi verso il centro della terra. Ma quando i poeti raggiungono all’ incirca il lombo di Lucifero essi, all’improvviso si “capovolgono” portando i piedi verso la superficie della terra da dove sono entrati nel regno degli inferi con la testa verso la parte opposta: 

... Di vello in vello giù discese poscia

tra il folto pelo e le gelate croste.

Quando noi fummo la dove la coscia

si volge, a punto in sul grosso dell’anche,

lo duca, con fatica e con angoscia,

volse la testa ov’elli avea le zanche,

e aggrappossi al pel com’uom che sale,

si che ’n inferno i’ credea tornar anche.

“Attienti ben, che per cotali scale”

disse ’1 maestro, ansando com’uom lasso,

“conviensi dipartir da tanto male”.

Poi usci fuor per lo foro d’un sasso,

e puose me in su l’orlo a sedere;

appresso porse a me l’accorto passo.

Io levai gli occhi, e credetti vedere

Lucifero com’io l'avea lasciato;

e vidili le gambe in su tenere

e s’io divenni allor maravigliato,

la gente grossa il pensi, che non vede

qual e quel punto ch’io avea passato.

“Levati su” disse ’1 maestro “in piede ...”

(Inf. XXXIV, vv. 74-94)

Attraversato quel “limite” (che ancora adesso “la gente grossa”, quella euclidea, “non vede”), terminato, cioè, il loro cammino ed attraversato il centro della terra, i poeti si trovano nell’ emisfero opposto a quello “in cui fu crocifisso Cristo”. Essi risalgono attraverso l’uscita a forma di cratere:

Lo duca e io per quel cammino ascoso

intrammo a ritornar nel chiaro mondo;

e sanza cura aver d'alcun riposo

salimmo su, cl primo ed io secondo,

tanto ch’i vidi delle cose belle

che porta ’1 ciel, per un pertugio tondo,

e quindi uscimmo ariveder le stelle

(Inf. XXXIV, vv. 133-139)

Dopo quel limite il poeta accede al monte del Purgatorio e sale attraverso tutte le sfere celesti. Ora, sorge una domanda: verso quale direzione? Il passaggio sotterraneo dell’ Inferno, attraverso cui essi sono risaliti, s’era formato in seguito alla caduta di Lucifero; il quale era precipitato dal cielo con la testa in giù. Di conseguenza il posto, da dove egli fu gettato non si trova da qualche parte del cielo nello spazio circostante la terra, ma proprio dalla parte dell’emisfero da cui sono entrati i poeti. Il monte del Purgatorio e Gerusalemme, diametralmente opposti tra di loro, sono sorti come conseguenza di questa caduta; e dunque la via per il cielo segue la linea della caduta di Lucifero, ma in senso inverso. In questo modo Dante si muove sempre in linea retta ed in cielo egli sta con i piedi rivolti verso il luogo della sua discesa. Dopo aver guardato da lì, dall’ Empireo verso la Gloria di Dio, egli, in definitiva, senza aver fatto uno speciale cammino all’ indietro si ritrova a Firenze. Il suo viaggio si è svolto nella realtà; ma se qualcuno volesse negare ciò, in ogni caso, dovrebbe almeno riconoscerne la realtà poetica, vale a dire l’immaginabile e il pensabile; in una parola ciò che contiene in se i dati per il chiarimento dei presupposti geometrici di Dante. Quindi, procedendo sempre in linea retta e girandosi su se stesso una volta, lungo il cammino, il poeta giunge sul posto occupato precedentemente nella medesima posizione in cui si trovava prima di lasciarlo. Di conseguenza, se egli non si fosse rigirato su se stesso lungo la strada sarebbe arrivato in linea retta nel punto di partenza con i piedi al posto della testa. Dunque la superficie sulla quale Dante si muove e tale che, procedendo in linea retta su di essa, con un’inversione di direzione, riporta al punto di partenza in posizione eretta; e con un movimento eseguito in linea retta senza capovolgersi riporta il corpo nella postazione originaria, ma capovolta.

Evidentemente questa superficie è tale che: 1) in quanto contiene in se linee curve e il piano di Riemann, e 2) in quanto ci si capovolge, muovendosi nella sua perpendicolare, e una superficie “unilaterale”. Queste due circostanze sono sufficienti per caratterizzare geometricamente lo “spazio di Dante, costruito secondo un tipo di geometria ellittica”. Ricordiamo che Riemann utilizzando propri metodi differenziali di ricerca, non ebbe la possibilità di osservare una forma di superficie “piena”. In forza di ciò, oggetto dei suoi studi furono, in maniera uguale, due geometrie assolutamente eterogenee tra loro: una di esse pone alla base il piano ellittico, l’altra il piano sferico. Nel 1871 F. Klein dimostrò che il piano sferico ha, come sua caratteristica, la superficie bilaterale, mentre il piano ellittico è unilaterale. Lo spazio di Dante è assai simile proprio allo spazio ellittico. Ciò illumina di nuova luce l’idea medievale dei confini del mondo. Ma col principio della relatività queste considerazioni geometriche generali hanno acquistato, ultimamente, un’ inaspettata interpretazione concreta e dal punto di vista della fisica moderna, lo spazio dovrebbe essere inteso proprio come spazio ellittico e riconosciuto finito, cosi come il tempo che e finito e chiuso in se stesso. La questione non si limita a questo stupendo regalo giubilare al Medioevo della scienza galileana  nemica. Ecco alcuni successivi confronti.

La questione sta sulla riabilitazione del sistema del mondo Tolemaica-Dantesca. Il principio della relatività “si dimostra” con il fallimento dell’ esperimento di Michelson e Morley. Senza dubitare del principio generale della relatività ma solo essendo leggermente perplesso su cosa significhi nel principio ristretto “il movimento rettilineo uniforme” se non ci fossero le assi fissi delle coordinate, avrei voluto tuttavia fare una semplice domanda riguardo la causa dell’ insuccesso del ricordato esperimento. Alla base dell’ esperimento e stata messa l’ipotesi del movimento della Terra, e quando non sono state ottenute le conseguenze di questo movimento allora si e cominciato ad inventare una serie di ipotesi nuove straordinarie che volevano sostenere la prima ipotesi sul movimento della Terra. Ma l’ipotesi riconosciuta, la più fondata, il principio ristretto della relatività, essendo accettabile in se stessa, distrugge pero alla radice il presupposto di Michelson perchè afferma che non e possibile con nessun esperimento fisico convincersi dell’ ipotizzato movimento della Terra. In altre parole, Einstein proclama il sistema di Copernico pura metafisica, nel vero e proprio senso della parola. Se fosse cosi allora non sarebbe stato più semplice, al posto di cercare di prendere l’orecchio attraverso la testa, cominciare a spiegare il fallimento di Michelson con una supposizione più naturale, sulla “falsità” del suo presupposto principale: si presumeva che l’esperimento si concludesse felicemente perchè contavano sulla velocita della Terra (ipotetica!) di 30 km/sec; ma l’esperimento non è riuscito e di conseguenza, prima di tutto, si doveva sospettare dell’ ipotesi supposta e pensare che la Terra si muova veramente? La Terra giace nello spazio questa e la conseguenza “diretta” dell’esperimento di Michelson. La conseguenza indiretta e la sovrastruttura cioè proprio l’affermazione che il concetto del movimento, rettilineo e uniforme, è privo di qualunque senso comprensibile. E se fosse cosi allora perchè spezzarsi le piume ed ardere di entusiasmo come se si avesse conosciuto la struttura dell’ universo?

Ma, oltre al movimento traslatorio della Terra, bisogna considerare anche il movimento rotatorio e qui, sembrerebbe, che Copernico avesse scoperto “qualcosa”. A questo presupposto si contrappone il principio generale della relatività nella formulazione di Lenard che dice: “durante qualsiasi movimento tutti i fenomeni della natura devono scorrere in modo completamente identico indipendentemente dal fatto che sia l’osservatore o tutto lo spazio circostante a muoversi in modo corrispondente.” In altre parole, applicando (quanto detto) al nostro caso particolare, “non c’e” e principalmente “non ci può essere” una dimostrazione della rotazione della Terra. E in particolare non dimostra nulla il famigerato esperimento di Foucoult: in presenza della Terra immobile e del firmamento che le gira intorno come un corpo solido, il pendolo allo stesso modo avrebbe cambiato la posizione del piano delle sue oscillazioni come nell’ ipotesi semplice di Copernico sul movimento rotatorio della Terra e l’immobilita del Cielo. In generale, nel sistema del mondo Tolemaico con il suo cielo di cristallo, “il solido celeste”, tutti i fenomeni dovrebbero accadere, come nel sistema Copernicano, ma con il vantaggio del buonsenso e della fedeltà alla terra, alla terrestre autentica esperienza, con la corrispondenza alla ragione filosofica e, in fine, soddisfacendo la geometria. Ma sarebbe stato un grosso sbaglio proclamare il sistema Copernicano e Tolemaico come modi “paritari” della comprensione: sono tali “solo” nel piano astratto-meccanico, ma, nell’insieme dei dati, vera risulta quest’ultima, e falsa la prima. Questa e la conferma diretta del grande poema anche se 600 anni dopo.

Anche la concezione del sistema tolemaico-dantesco, come vero approfondimento, è appena agli inizi; giacche il pensiero scientifico contemporaneo, in maniera del tutto inaspettata, ci avvicina alla scienza aristotelico-dantesca sui principi dell’ esistente. Il principio particolare della relatività viene talvolta espresso in forma del principio, considerato ad esso equivalente, della “velocità massima cosmica (il principio del limite delle velocita cosmiche)”: non può esistere velocità superiore a quella della luce che e di 3x1010 cm. sec. Ma se ciò fosse vero allora come secondo il principio generale della relatività può essere altrettanto ammesso il movimento del firmamento attorno alla Terra, per il quale, occorrono velocità immensamente superiori al limite sopra indicato? Cosi, aizzati entrambi i principi, gli avversari del secondo, cioè i difensori del sistema copernicano, pensavano di confutare l’origine delle obbiezioni mosse loro. Essi però, senza aver riflettuto a sufficienza, si sono scavati la fossa con le loro stesse mani.

Che cosa significa in sostanza che il (limite) massimo di velocità e 3x1010 cm./sec.? Ciò significa che non siano affatto impossibili le velocità uguali o maggiori a c, ma solo la comparsa, con queste, delle condizioni di vita del tutto nuove, per ora a noi non immaginabili, o, se si vuole trascendenti alla nostra terrestre esperienza kantiana; ma questo non significa che tali condizioni siano impensabili, forse anzi, ampliandosi il campo dell’ esperienza, esse saranno anche immaginabili. In altri termini: in presenza di velocità uguali a c e, tanto più se maggiori di c, la vita cosmica è qualitativamente differente da ciò che si osserva in presenza di velocità minori di c; ed “il passaggio tra i campi di questa differenziazione qualitativa è pensabile solo come discontinuo”. Rifacendosi al sistema tolemaico, vediamo che il suo campo interno con il raggio equatoriale R = (23ч 3м 56,6с / 2π • 300000) км dove 23h56m4,s1 è la durata del tempo stellare secondo il tempo solare medio, riduce a se tutta la esistenza terrestre. Questo è il campo dei moti “terrestri” e dei fenomeni “terrestri”, mentre alla distanza massima ed al di là di essa inizia un mondo qualitativamente nuovo: il campo dei moti “celesti” e dei fenomeni “celesti”, ossia il Cielo. Questo equatore demarcatore, questa divisione tra Cielo e Terra non è particolarmente lontano da noi e  il mondo terrestre è abbastanza accogliente. E precisamente, secondo le misure di lunghezza astronomiche, il suo raggio R e uguale a 27,522 delle distanze medie del Sole dalla Terra. Dunque, il campo dei moti celesti è più lontano dalla Terra che dal Sole di 26,5 volte; cioè il suo confine si trova tra le orbite di Urano e Nettuno. Il risultato è sorprendente giacchè conferma la concezione del mondo tolemaico-dantesca persino quantitativamente e il confine dell’ universo si trova precisamente nel punto in cui veniva considerato sin dalla remota antichità. Il confine dell’ universo si trovava oltre Urano; le notizie a riguardo erano ancora vaghe. Riflettiamo sul significato concreto di questo risultato. Le caratteristiche dei corpi di un sistema in movimento, osservato, da un sistema fisso, dipendono dal valore essenziale β = √(1 - ν2/c2) dove v e la velocita del moto del sistema, mentre c e la velocita della luce. Finche v e minore di c, s e reale e tutte le caratteristiche rimangono immanenti all’ esperienza terrena; con v uguale al c, s, = 0 e con v maggiore di c, s diventa immaginario. Nei due ultimi casi si verifica un doppio salto qualitativo delle caratteristiche corrispondenti. Cosi in un sistema in moto la lunghezza dei corpi in direzione del movimento si riduce in rapporto di s:1, il tempo si riduce in rapporto di 1: s, la massa si  riduce in rapporto di 1: s e cosi via.

Di conseguenza, al confine tra la Terra e il Cielo, la lunghezza di qualunque corpo diventa uguale a zero, la massa diventa infinita e il suo tempo, dal punto di vista osservabile, altrettanto infinito. Cioè:  il corpo perde la sua estensione, passa all’ eternità ed acquista stabilità assoluta. Ma non è forse questa la versione, in termini fisici, delle caratteristiche proprie alle idee di Platone: essenze incorporee, inestese, immutabili ed eterne? Non si tratta, forse, delle forme pure aristoteliche?

Oppure si tratta dell’ esercito celeste, visibile dalla Terra come stelle, estraneo alle proprietà terrene?

Cosi è sul confine con il s = 0. Ma oltre il confine, con v > c, il tempo scorre in senso “inverso”, cosicchè “l’effetto precede la causa”. Ossia qui la causalità efficiente si muta, come esige l’ontologia aristotelica-dantesca, in causalità finale in teleologia; e oltre il confine delle velocita massime si estende il regno dei fini. In questo caso “lunghezza e massa dei corpi diventano immaginari”. Quando non esiste una concreta interpretazione per gli immaginari, un tale risultato sembra strano e proprio la mancanza di concretezza nella concezione degli immaginari e la causa del fatto che si evitino le conclusioni dei ricercatori della nuova meccanica qui esposte. Ma è tempo di sconfiggere due spauracchi della mente: l’immaginario e la continuità; ed è quindi anche tempo di sbarazzarsi dell’horror imaginarii e dell’horror disconuitatis!

Tenendo presente l’interpretazione degli immaginari qui suggerita riusciremo a vedere in maniera oggettiva come, congiungendosi allo zero, un corpo precipita attraverso la superficie avente le coordinate corrispondenti è come si estrofizzi attraverso se stesso, raggiungendo cosi caratteristiche immaginarie. Esprimendoci in maniera figurata, ma se si avesse un’idea concreta dello spazio ci esprimeremmo in maniera non figurata, si può dire che lo spazio s’infranga in presenza di velocità superiori alla velocità della luce, allo stesso modo con cui l’aria s’infrange se in essa si muovono corpi con velocità superiore a quella del suono. Ed allora intervengono condizioni qualitativamente nuove d’esistenza nello spazio, caratterizzate dai parametri degli immaginari. Ma come la scomparsa della figura geometrica non significa affatto la sua distruzione, ma solo il suo passaggio ad un altro lato della superficie e, di conseguenza, la sua accessibilità agli esseri che si trovano da quel lato della superficie, cosi anche l’immaginarietà dei parametri del corpo deve essere intesa non come segno della sua irrealtà, ma solo come testimonianza di un suo passaggio ad un’altra  realtà. Il campo degli immaginari è reale, concepibile e nella lingua di Dante si chiama “Empireo”. Tutto lo spazio potremmo immaginarcelo come “doppio”, costituito dalle coordinate di Gauss reali e da quelle immaginarie delle coincidenti con esse, ma il passaggio dalla superficie reale a quella immaginaria è possibile solo attraverso l’infrangimento dello spazio e “l’estrofia” del corpo attraverso se stesso. Per ora ci  figuriamo nella mente, come mezzo a questo processo, solo l’aumento delle velocità, forse delle velocità di alcune particelle oltre la velocita c; ma non abbiamo le dimostrazioni dell’ impossibilita di qualche altro mezzo.

Così squarciando il tempo, la Divina Commedia, del tutto inaspettatamente, si rivela non già indietro, bensi “avanti” rispetto alla nostra scienza contemporanea. 

Fonte: tratto da “Gli immaginari in geometria. Estensione del dominio dei modelli geometrici bidimensionali. Esperienza di una nuova interpretazione degli immaginari”.(P.Florenskij)