Il trionfo della tecnocrazia - D.Lamènie

«L'economia ha assunto, a causa dello sviluppo della tecnica, un'importanza tale nella nostra epoca che ormai sono i suoi imperativi a determinare della nostra società le strutture. I mali di cui soffriamo dipendono in gran parte dal fatto che non abbiamo saputo sostituire abbastanza in fretta i vecchi quadri sociali, ereditati da un passato ormai sepolto, con uomini nuovi preparati per le loro conoscenze a svolgere le funzioni governative che il mondo moderno comporta. Il Progresso, che è una necessità talmente evidente da esser diventato il denominatore comune degli ideali di ogni cittadino, esige che venga bandito l'empirismo in un'epoca in cui ormai non ha più motivo di esistere, poiché le scienze razionali illuminano ogni giorno una nuova zona d'ombra.

I primi mutamenti del mondo moderno sono stati caratterizzati da un notevole balzo in avanti delle scienze della materia, cui non corrispose un adeguato progresso delle scienze umane. In questa prima fase il progresso materiale pur apportando benessere, non eliminò completamente l'infelicità, anzi talora contribuì ad aggravarla, poiché mancava una sufficiente conoscenza dell'uomo, della sua natura e dei suoi bisogni. In seguito, tuttavia, le scienze umane hanno cominciato a recuperare questo loro ritardo a passi da gigante: non è più soltanto sulle sue conoscenze nel campo della chimica, della fisica o anche della biologia che l'uomo d'oggi può contare, ma su quelle non meno razionali nel campo della psicologia, individuale e di gruppo, della sociologia, dell'economia, ecc. D'ora in poi il progresso materiale nei suoi risultati non sarà più lasciato al caso: l'uomo, forte della conoscenza di se stesso, potrà ormai orientare il progresso tecnico in modo da ritenere i soli risultati felici, possiamo quindi parlare di Progresso anche senza precisarne il campo, poiché l'uomo è in grado di far concorrere tutti i progressi particolari al Progresso generale, assoluto, il cui scopo è la felicità del genere umano.»

Ecco, in breve, quali sono le opinioni che costituiscono il credo tecnocratico e che oggi godono del consenso generale del grande pubblico, nonostante la sopravvivenza di alcuni focolai di oscurantismo inveterato che sussistono nelle più svariate categorie: si tratta di certi nostalgici della cultura dei secoli cosiddetti "grandi", ferventi sostenitori della tradizione, più legati alle discipline dello spirito e alla qualità del suo progresso che non all'efficacia della sua produzione; di certi medici che continuano a vedere nel carattere personale dell'esercizio della loro professione una condizione della sua oblatività, di certi militari che, malgrado l'evidenza della potenza dei mezzi di distruzione, affermano ancora il primato delle forze morali e dubitano allo stesso tempo dell'esistenza di metodi scientifici atti a suscitare e mobilitare dette forze; di tal uni bottegai e artigiani maniaci dell'indipendenza, alcuni dei quali continuano a prosperare grazie all'anarchia politica che sussiste ancora; di taluni coltivatori che hanno una sorta di culto per la terra che lavorano e sono in generale troppo anziani per aver potuto assimilare le concezioni che i «Giovani Agricoltori» si sforzano di diffondere; e di altri ancora...

Ma si tratta qui di minoranze, perché non solo i tecnici, la cui mentalità è particolarmente sensibile all'idea di una società scientificamente organizzata, ma anche uomini di ogni specie si schierano oggi con entusiasmo o con malinconico rammarico dalla parte delle "verità" tecnocratiche che ho appena schematizzato a grandi linee.

Ovviamente, i più convinti sono i tecnocrati stessi, e cioè coloro che si sentono chiamati a diventare gli eletti del sistema sociale moderno, coloro che per formazione mentale e competenza tecnica sono designati al potere. È inutile dire chi siano questi uomini, perché tutti li conoscono: i loro nomi figurano in una quantità più o meno notevole di commissioni e di organismi che si propongono lo scopo di ristrutturare la nazione o anche in gruppi internazionali più vasti, occupano in qualità di grandi esecutori le posizioni chiave della vita nazionale. Il saggio di H. Coston, Les Technocrates et la Synarchie, ci offre un elenco piuttosto nutrito di molti di coloro che lavorano come funzionari, ma, nell'insieme, i tecnocrati vanno ben oltre questa categoria. In effetti, è sempre più lo stesso genere di persone, si può dire la stessa casta, a occupare posizioni di potere, sia nell'ambito dell'amministrazione pubblica che in quello dei grandi affari cosiddetti privati, che in realtà, perdono sempre più il loro carattere privato con il diffondersi del dirigismo e della concentrazione industriale che oggi caratterizzano, molto di più che le nazionalizzazioni, la socializzazione del Paese.

Molto spesso, i dirigenti delle grandi società sono ex funzionari che hanno mantenuto l'accesso all'amministrazione tramite le loro relazioni con i colleghi di un tempo; essi parlano lo stesso linguaggio, che non è più quello degli uomini d'azione, ma è il vocabolario tutto neologismi degli organizzatori. Provengono tutti dalle stesse grandi scuole, dove tenuti lontano dalle realtà molteplici della vita, perché percepirne le infinite sfumature avrebbe significato turbare e distrarre in modo pericoloso lo spirito nell'età in cui è malleabile, hanno passato gli anni giovanili impregnandosi di schemi semplificatori che ne segneranno l'intelligenza con un sigillo comune che, più tardi, servirà loro da talismano e consentirà loro di intendersi di primo acchito nel corso dei loro incontri per tutta la vita.

Il Piano è il motivo conduttore di questi incontri organizzati: il Piano, questo vecchio sogno sinarchico che la IV Repubblica ha riconosciuto ufficialmente dopo che i principali organizzatori dell'economia del regime di Vichy gli avevano spianato la via, e al quale il tecnocrate Bloch-Laìné ha riservato, nel suo libro La Réforme de l'Entreprise, un posto speciale, quello di crocevia dei padroni della vita economica.

È inutile precisare che la casta è mossa da una forte volontà di potenza, riscontrabile tanto nei parvenus che vi sono entrati tramite concorso, quanto in coloro, che sono d'altronde i più numerosi, che assommano e i prestigiosi diplomi e una appartenenza familiare alla classe dirigente. Si tratta degli eredi di grandi signori che hanno dimenticato le loro tradizioni, di grandi borghesi stanchi di intraprendere nel rischio, di grandi funzionari o di distinti rappresentanti delle professioni liberali nei quali è svanito l'orgoglio dell'indipendenza. Agli uni e agli altri si aggiungano poi gli apatridi, per i quali la nazione è oggetto di conquista e la cui influenza sotterranea è, purtroppo, determinante.

Questa volontà di potenza si esprime in concreto nella volontà di escludere dal potere le persone che non appartengono alla casta. Il metodo più sicuro è l'edificazione di un sistema in cui non esista alcuna possibilità di inserimento per chi non è "ferrato in materia", e che valorizzi unicamente quelle doti che vengono considerate valide in base ai criteri stabiliti da coloro che lo sono. 

I tecnocrati comunque, non disdegnano alcuna occasione per eliminare qualsiasi tipo di concorrenza che possa contendere loro i posti di comando, sia che si tratti di notabili provenienti dalle strutture naturali che ancora resistono o rinascono nonostante tutto, sia che si tratti di indipendenti incalliti appartenenti a varie categorie professionali e presunti beneficiari di privilegi, sia che si tratti di politici; questi ultimi sono certamente i più vulnerabili a causa della loro mediocrità giustamente proverbiale e dell'origine del loro potere che è altrettanto artificiale nella nostra democrazia quanto quella a cui si appellano i tecnocrati. 

(...)

L'appetito dei tecnocrati è lo strumento di mire ideologiche di ben altra portata: la Rivoluzione vuole la distruzione dell'ordine naturale, la tecnocrazia, che è una forma della Rivoluzione, concepisce tale distruzione come un capovolgimento che, nella sfera temporale, tende a sostituire l'«economico innanzitutto» al «politico innanzitutto. »

(...)

I mezzi che i tecnocratici si propongono di usare non possono essere valutati adeguatamente se non in funzione dello scopo che essi si prefiggono. È sempre il problema della finalità che domina tutto il resto. Le Réflexions pour 1985 di Pierre Massé sono molto significative a questo riguardo.

Innanzitutto, bisogna essere inseriti in una certa dinamica, bisogna diffidare di tutto ciò che è permanente, di tutto ciò che potrebbe indurci a «fuggire l'avvenire», perché il passato vale solo nella misura in cui esso prepara l'avvenire - quello dei tecnocrati, ben inteso. «La vastità delle trasformazioni che i nostri sistemi di valori hanno subito sulla scia della rivoluzione industriale ci dà la misura dei mutamenti di significati che dobbiamo aspettarci nei prossimi vent'anni.»

La famiglia, ovviamente, è uno dei valori minacciati, poiché, essendo una cellula naturale fondamentale, non è stata creata dall'uomo: «perché l'uomo possa vedere nella civiltà un mondo a sua immagine, egli dovrà potervi riconoscere sia l'opera delle sue mani, sia la partecipazione dei suoi sforzi .... »

Ed ecco come viene formulata l'idea di Educazione permanente, che si è ormai istituzionalizzata:

«Adattandosi in un modo più elastico a finalità più coscienti (la formazione) dovrà sfociare nell'educazione degli individui sia come consumatori, che come cittadini, che come produttori, e permettere loro di accedere nel migliore dei modi a tutte le felicità possibili ....»

Dietro l'enfasi di queste parole è chiaramente riconoscibile una concezione puramente materialistica del mondo, l'edonismo, è l'idolatria dell'Evoluzione.

Incapace di scorgere il vero fine dell'uomo creato a immagine di Dio, e concepito per servirlo, il tecnocrate considera l'individuo uno strumento di produzione e un organo di consumo. Il tutto è coronato da un vago estetismo: poiché, secondo il tecnocrate, il fine dell'uomo si identifica con il suo ruolo di produttore e di consumatore, è proprio assumendo al meglio queste funzioni che egli troverà, per ciò stesso, la felicità alla quale aspira. Ci troviamo dunque di fronte a un capovolgimento totale della gerarchia dei valori che aveva instaurato il cristianesimo: la tecnocrazia non è che una forma particolarmente insidiosa della sovversione.

Fonte: tratto da “La tecnocrazia” di L.Damènie (Società editrice Il Falco)



La filosofia marxista - J.Daujat

Il marxismo è una trasposizione materialista della filosofia di Hegel: vogliamo con ciò dire che esso si oppone all'idealismo (e opera un vero e proprio capovolgimento del sistema hegeliano) facendo delle idee un semplice prodotto dell'evoluzione delle forze materiali nel cervello umano, di modo che le forze materiali vengano a essere il vero agente creatore di storia. L'Idea, che era tutto per Hegel, non è niente per Marx, se essa non è il prodotto di un cervello, esso stesso prodotto delle forze materiali: in questo modo il materialismo è integrale. Ma questo materialismo conserva l'evoluzionismo assoluto di Hegel: non c'è alcuna realtà che sia, che resti o che perduri, vi sono solo forze materiali in perenne conflitto e, di conseguenza, in perenne contraddizione; l'azione e il conflitto di tali forze, creatori di perenni trasformazioni, fanno della storia - che ne è il frutto - una perpetua evoluzione nella contraddizione e nella lotta. Questo materialismo è dunque un materialismo storico, un materialismo per il quale non esiste niente altro che la storia, ed essa stessa è solo un cambiamento incessante, generato dalle forze materiali in incessante lotta. Esso, poi, è anche un materialismo dialettico, essendo l'evoluzione storica fatta di un ritmo di opposizioni generatrici di cambiamento ed essendo ritmata per tesi, antitesi e sintesi, come in Hegel. Non vi è dunque per Marx alcuna verità che meriti un sì o un no, che darebbe un senso a un'affermazione, ma sí e no, affermare e negare, si chiamano e si confondono nella contraddizione, principio del cambiamento; l'evoluzione nega domani ciò che oggi afferma, soltanto la contraddizione è regina e non esiste alcuna verità da affermare.

Ci si inganna dunque profondamente quando si dà al la parola "materialismo" il suo significato piú comune, per attribuirlo al marxismo. Marx ha definito la sua filosofia come materialismo "storico" o "dialettico": la maggior parte dei nostri contemporanei, ignorando Hegel e non sapendo ciò che questo significhi, dimenticano le parole "storico" o "dialettico" e perciò considerano il marxismo come un materialismo comune, non ricordando altro che la parola "materialismo". Ora, si chiama normalmente materialismo la filosofia che considera la materia come l'unica realtà; tuttavia questo materialismo ammette una realtà, quella della materia, di una materia che esiste e che dura e che è la sostanza di cui sono fatte tutte le cose. Essa ammette dunque una verità, la verità che afferma la realtà della materia e spiega tutto con la sola materia. Marx ha solo, sarcasmi per questo materialismo, che qualifica come materialismo "contemplativo" o "dogmatico (contemplativo,perché considera la materia come una realtà o un oggetto da conoscere; dogmatico, per la sua affermazione della realtà della materia) opponendolo al suo materialismo storico o dialettico. Per Marx non vi è alcuna realtà materiale che esista e duri, vi sono solo forze materiali la cui azione perennemente trasformatrice non lascia esistere nulla. Non è dunque la materia, ma il conflitto incessante delle forze materiali in azione, a costituire la base della sua filosofia. Ricordiamo di aver sentito qualcuno affermare, con lo scopo di spiegare che il marxismo è il materialismo piú totale che possa esistere, definirlo come "la filosofia che fa della materia un assoluto": è impossibile mostrare una incomprensione piú completa del marxismo, poiché il primo principio del marxismo è precisamente che non vi è alcun assoluto, che non vi è niente che possa essere posto come avente un'esistenza che basti a sé stessa e che duri, che vi sono soltanto le forze in lotta, le quali non lasceranno mai esistere né durare nulla.

Lo spirito, per Marx, non ha un grado maggiore di esistenza della materia stessa: esso è il prodotto delle forze materiali. Ma può essere uno strumento potente dell'azione delle forze materiali agenti nella storia; e i marxisti non temeranno - a causa della natura del loro materialismo - di servirsi all'occorrenza di un linguaggio spiritualista, per prendere in esame l'azione storica delle idee o di altre forze spirituali (morali o religiose, per esempio) quali organi potenti per l'azione delle forze materiali che lottano e agiscono attraverso i cervelli umani. Dottrina, ideali, costumi, doveri, religione, tutto questo è solo il prodotto delle forze materiali e lo strumento della loro azione. Neppure l'individuo ha un grado maggiore di esistenza propria: egli è solo una rotella dell'immenso conflitto delle forze materiali che modella la storia.

Quale sarà il posto e il destino dell'uomo in una simile concezione?

L'uomo non ha piú verità da conoscere: non c'è alcuna realtà esistente o stabile che possa essere oggetto di conoscenza, neppure la materia, come nel materialismo contemplativo o dogmatico.

Ogni ricerca di verità, ogni affermazione di dottrina, ogni atteggiamento contemplativo, sono impietosamente rifiutate. Non resta che agire, realizzarsi per mezzo dell'azione, coinvolgendo sé stessi nella lotta e nel conflitto, esercitare l'azione trasformatrice, che plasma l'evoluzione perpetua della storia. Non v'è esistenza che nell'azione, e nell'azione materiale: non si esiste se non agendo e trasformando continuamente sé stessi attraverso la propria azione.

Per Marx l'uomo non è niente altro all'infuori dell'azione materiale che svolge, e non possiede realtà diversa dall'azione materiale da lui esercitata. Questa è l'essenza stessa del marxismo, che è una filosofia dell'azione materiale pura, un totalitarismo dell'azione materiale (come l'hitlerismo è un totalitarismo dell'espansione vitale). Ne risulta immediatamente che per il marxismo l'uomo tanto piú esisterà e tanto piú sarà uomo, quanto piú eserciterà un'azione materiale potente: e qui è contenuto tutto il marxismo.

Con la sua azione materiale l'uomo fa la storia, cosí che tutta la storia umana, è solo la storia dell'azione produttiva dell'umanitá e nient'altro che il conflitto tra le forze produttive; ogni epoca della storia è solo un sistema e una lotta di forze produttive. L'uomo esiste perché modifica il mondo con il suo lavoro, l'umanità si genera dal conflitto delle forze produttive. L'uomo è lavoro ed esiste solo modificando il mondo col suo lavoro: nell'uomo vi è solo il lavoratore. Il lavoratore è l'essenza dell'umanità, il marxismo è un totalitarismo del lavoro.

Pertanto non è solo la storia che l'uomo crea e trasforma senza tregua con la sua azione materiale, ma anche e soprattutto sé stesso.

Cogliamo qui fino a che punto marxismo e cristianesimo siano agli antipodi e diametralmente opposti. Il cristianesimo pensa che l'uomo sia stato creato da Dio e abbia ricevuto da Dio una natura umana stabile che lo fa essere e rimanere uomo, il marxismo invece pensa che l'uomo si crei da sé, si dia da sé la propria esistenza e si modifichi senza tregua per mezzo della propria azione materiale.

Non si può eliminare l' idea di Dio in un modo piú totale che sopprimendo l'idea di qualsiasi esistenza che venga da lui per riconoscere soltanto quel la di un'azione eternamente modificatrice.

Il marxismo non riconosce alcuna natura umana stabile che faccia sí che l'uomo sia uomo. L'uomo con la sua azione si dà da sé stesso la sua natura e la modifica senza sosta; l'uomo cambia la sua natura cambiando il sistema delle forze produttive. Il lavoratore industriale di oggi non è piú lo stesso uomo che era il contadino e l'artigiano di un tempo; ha cambiato natura, è un'altra umanità che si è generata attraverso la rivoluzione industriale, come è una nuova umanità che deve generarsi attraverso la rivoluzione marxista. Ogni grande opera storica è dunque un vero snaturamento dell'uomo: essa consiste nel cambiare l'essenza dell'umanità. Da qui la volontà marxista di strappare il piú possibile l'uomo alla natura, al ritmo naturale delle stagioni e della vegetazione, che sfugge in parte alla sua azione, per giungere a un mondo completamente meccanizzato che sia pura creazione del lavoro umano. Si tratta di ricreare un mondo che non sia quello creato da Dio, ma soltanto opera dell'uomo. In questo senso il marxismo è un umanesimo totale; per esso niente esiste se non attraverso l'azione umana, e non riconosce niente altro che l'uomo, il quale si fa da sé attraverso la propria azione.

L'azione umana, come la concepisce il marxismo, è essenzialmente rivoluzionaria:l'uomo tanto piú esisterà e sarà tanto piú uomo, nella misura in cui trasformerà piú profondamente ciò che esiste e trasformerà piú profondamente sé stesso Nel rifiuto assoluto di ogni verità da conoscere o ríconoscere, di ogni contemplazione di ciò che è, il marxismo chiama l'uomo alla piú gigantesca opera di rivoluzione, alla piú potente azione di trasformazione e di sconvolgimento. Per Marx non vi è altra verità al l'infuori delle esigenze dell'azione materiale piú potente e delle necessità dell'azione rivoluzionaria. A seconda del cambiamento di queste esigenze e di questi bisogni, la verità cambierà dall'oggi al domani, il sí si muterà in no, poiché l'affermazione non esprime alcuna verità e ha il solo scopo di esprimere le esigenze del l'azione. Non è dunque per conversione, né per ipocrisia che i comunisti cambiano senza tregua, e dicono e fanno ogni giorno il contrario di ciò che hanno fatto e detto il giorno precedente; ciò è conforme alle piú pure esigenze del marxismo ed essi non sarebbero marxisti se agissero diversamente; poiché il marxismo è un evoluzionismo integrale, essi devono - in quanto sono marxisti - evolversi e contraddirsi senza tregua. Bisogna, una volta per tutte, convincersi che ciò che essi dicono non esprime alcuna verità, ma unicamente le esigenze del la loro azione, poiché per essi niente esiste all'infuori di questa azione. L'azione è una evoluzione perpetua in cui il sí diventa no a ogni momento. Riconoscere una verità, equivarrebbe a riconoscere qualche cosa che esiste, e con ciò rinunziare a trasformarla con la propria azione. Per Marx, conoscere è niente, condurre un'azione è tutto.

Marx non s'interessa maggiormente a un ateismo contemplativo o dogmatico che a un materialismo ugualmente contemplativo o dogmatico: il suo è un ateismo pratico, un rifiuto di Dio attraverso l'azione creatrice di una umanità e di un mondo che non vengono da Dio. Ma il rifiuto di Dio è in questo modo molto piú totale che in un ateismo dottrinale. Per rifiutare completamente Dio occorre un rifiuto totale di tutto ciò che è stato creato da Lui o che viene da Lui. Dunque non bisogna accettare nessuna realtà stabile, nessuna natura durevole che sarebbe nell'uomo e nelle cose, nessuna verità costante, ma occorre opporsi sempre a ciò che esiste trasformandolo con l'azione rivoluzionaria. Con essa ci si crea e si crea la storia, nel rifiuto di ogni dipendenza da Dio, e ci si pone in un atteggiamento che cosi è totalmente "senza Dio". Non solo in modo dottrinale, ma con il rifiuto pratico e totale di Dio i comunisti sono senza Dio, perciò essi si professano "senza Dio militanti". E qui, per qualificare il loro materialismo, bisogna porre l'accento sulla parola "militanti", come sulla parola "storico". Questa parola, "militanti", significa che si sopprime Dio non con una negazione intellettuale, come nel l'ateismo dottrinale, ma con l'azione e la lotta rivoluzionaria contro tutto ciò che viene da Lui, contro tutta la sua creazione. Vedremo piú avanti come ciò può, in certe tappe dell'azione rivoluzionaria, accordarsi perfettamente con la tolleranza religiosa e perfino con la mano tesa al la religione.

Il marxismo va al l'estremo della rivendicazione d' indipendenza totale del la creatura, ed è con ciò soprattutto che esso è l 'ultimo frutto di tutto i l pensiero moderno: è il rifiuto definitivo di qualsiasi realtà da cui l 'uomo dipenderebbe e che gli si imponesse, sia che si tratti di una verità qualsiasi, di una realtà da conoscere cosí com'è, o che si tratti del la sua stessa natura umana. Con l'azione, e l'azione sola, facendo sé stesso e la storia senza dipendere da nulla e da nessuno e senza accettare alcunché di esistente, l'uomo conquista una indipendenza assoluta, essendo solo creatore e trasformatore attraverso l'azione e nient'altro. Non è possibile un rifiuto piú assoluto di ogni oggetto, di ogni esistenza che sia posta dinanzi e prima dell'attività umana che s'imponga a questa e la sottometta: la nostra azione non è sottomessa a niente e non dipende da nulla di esistente, c'è solo ciò che essa fa, nient'altro che l'azione pura.

Occorre qui fare bene attenzione a ciò che è la pura azione materiale rivoluzionaria per un marxista. Per l'uomo comune l'azione ha uno scopo, si agisce per ottenere o realizzare un bene, di modo che l'azione è subordinata o sottomessa a questo bene ricercato, il quale costituisce cosí un oggetto posto dinanzi al nostro volere come la realtà da conoscere dinanzi al la nostra intelligenza.

E' evidente che il marxismo, non ammettendo alcuna dipendenza né alcun oggetto, non ammetterà neppure un bene da amare o realizzare in misura maggiore di quanto ammette che vi sia una verità da conoscere. Un bene e un male la cui distinzione e opposizione si impongano a noi, sono altrettanto inaccettabili per il marxismo quanto un sí e un no, una verità e un errore. Per il marxismo non vi è bene da amare né da realizzare, non c'è che l'azione da condurre. Ammettere un bene che sia un fine, qualche cosa di buono che si debba amare perché è buono, significherebbe imporre una dipendenza all'azione umana. Il marxista che vive il suo marxismo non può amare nulla, poiché l'amore mette in dipendenza dell'oggetto amato; il marxismo è il rifiuto definitivo di ogni amore come di ogni verità. Se un comunista ci presenta qualche ideale come un fine, per esempio l' ideale di giustizia sociale messo innanzi alle rivendicazioni operaie, oppure l'ideale patriottico, proposto oggi al popolo russo o al popolo cinese, è unicamente perché la presenza di un ideale nei cervelli umani diventa in questi casi un mezzo efficace per trascinarli all'azione e alla lotta, un organo o uno strumento d'azione e di lotta delle forze materiali. Stiamo certi, però, che il comunista che vive il suo marxismo, ha in vista solo l'azione rivoluzionaria e la lotta da condurre; l' ideale che mette avanti è solo un mezzo per condurre meglio tale azione e tale lotta, e non ha, in sé stesso, alcun valore ai suoi occhi: esiste solo in funzione di questa azione e di questa lotta e solo per tutto il tempo che è utile a essa.

Questa  esposizione del marxismo ci mostra a qual punto, in tutto e totalmente, il marxismo stesso sia esattamente il contrario e l'opposto del cristianesimo e di tutte le concezioni cristiane, e con quale intelligenza inaudita e a dire il vero sovrumana, esso prenda di contropiede il cristianesimo e realizzi praticamente il materialismo e l'ateismo infinitamente meglio delle dottrine materialiste o atee. La filosofia cristiana dimostra l 'esistenza di Dio partendo dall'esistenza dell'uomo e dell'universo e come causa e origine di questa esistenza; essa insegna che, se non ci fosse Dio a comunicare l'esistenza a esseri che non se la sono potuta dare da soli, bisognerebbe concludere che niente esiste. Il marxismo fa fronte rigorosamente a questa prova ammettendo che, effettivamente, niente esiste, e conclude che Dio non esiste poiché niente esiste; supponendo poi che si trovi, di fronte a noi o in noi, qualche esistenza che sia il segno e la traccia di Dio, esso insegna che non bisogna accettarla, ma sopprimerla attraverso l'azione rivoluzionaria che gli è propria. Cosí il marxismo resta solo un umanesimo esclusivo, che ammette solo l'azione umana. A questo umanesimo esclusivo il pensiero moderno, imperniato esclusivamente sull'uomo, doveva fatalmente pervenire. Chiunque vuole riconoscere soltanto la crescita e l'indipendenza dell' individuo o della persona umana, o anche della collettività o della società umana, e rifiuta di sottomettere tale crescita e indipendenza a Dio e alla sua legge e di orientarle verso Dio, apre fatalmente la strada al marxismo, sebbene solo il marxismo giunga al termine di questa strada. Chiunque rifiuterà il primato della contemplazione, l'abbandono dell' intelligenza a una verità da conoscere e della volontà a un bene da amare, per rifugiarsi nell'ebrezza dell'azione pura e curarsi solo di agire, è sulla strada del marxismo. Il capitale o l' industriale del secolo scorso o di oggi, che fa del lavoro produttivo e dei suoi risultati materiali lo scopo e l'essenza della vita umana, pianta un albero di cui il marxismo sarà il frutto. Tutti coloro che annunciano che la civiltà futura sarà una "civiltà del lavoro", ossia una civiltà in cui il lavoro è il valore supremo della vita, sanno poi che l'unica civiltà totalmente e unicamente "del lavoro" è il marxismo?

Ma al punto di crisi a cui siamo giunti oggi, le soluzioni di compromesso non sono piú possibili: si tratta di essere o marxisti o cristiani. Tra comunismo e cristianesimo bisogna scegliere: non si possono associare le due cose, o metterle d'accordo, o farle collaborare.

Fonte: tratto da “Conoscere il comunismo” di J.Daujat (Società editrice Il Falco)




Origine del falso egualitarismo – G.Thibon

Ci sia ora concesso di compiere un breve excursus psicologico sulle radici di quel terribile istinto d’eguaglianza che sconvolge le società.

Il primo riflesso dell’egualitarismo è questo grido: “Perché io no?”.
Da quale stato d’animo scaturisce? Prendiamo un uomo qualsiasi che invidia la sorte di un grande personaggio e che dice fra sé: “Vorrei proprio essere al suo posto!”.  Che cosa invidia costui in quel destino superiore? Forse gli oneri, i rischi ed anche l’austera gioia di servire (il più delle volte non ci pensa neppure), oppure il prestigio, la fortuna e tutte le possibilità di piacere e di riposo, che nella sua mente sono indissolubilmente unite con la situazione del personaggio invidiato? La risposta è fin troppo facile... L’istinto egualitario ha le stesse fonti dell’istinto edonistico, è il marchio della medesima decadenza.

L’edonismo infatti nasce da un processo di disgregazione affettiva per il quale la sete di felicità naturale in tutti gli uomini, si separa dalla sete di agire, di donarsi, di lottare, dallo slancio verso la virtù nel senso etimologico e larghissimo del termine. Nell' uomo sano questi due istinti sono strettamente legati l’uno all'altro: la felicità è il coronamento dello sforzo e del dono e accresce in funzione della perfezione raggiunta. Il decadente, al contrario, non associa l’idea di felicità a quella di perfezione e di ascesa; non conosce altra perfezione che il godimento e la sicurezza: Dio per lui non à purezza ma felicità e riposo. Cosi, per poco che la sua situazione sociale sia inferiore, egli è spontaneamente egualitarista: nell’ordine della felicità materiale e del rifiuto di servire, il solo esistente per lui, di fronte a privilegi senza missione, a privilegi che permettono la dimissione, l’ultimo degli uomini può legittimamente rivolgere la propria ambizione ai posti più alti. Soprattutto di fronte al denaro: ciascuno si sente degno di essere l’eletto di questa divinità anonima, ciascuno si sente capace, al limite, di godere e di non far nulla! Non è d’altronde effetto del caso se le epoche in cui il primato sociale è devoluto al denaro, sono anche quelle in cui infierisce la peggiore febbre egualitarista. Ma quegli operai che invidiano la vita facile di uno squallido cliente di grande albergo, quel vecchio contadino che la necessità costringe ancora, per sua fortuna, a chinarsi sulla terra e che la vuota oziosità del piccolo pensionato suo vicino riempie di cupidigia, tutti i cuori contratti da un corrosivo “perché io no?”, che cosa in realtà invidiano ai loro fratelli “privilegiati”? Per strano che ciò possa sembrare, invidiano il loro nulla! Appuntata verso il privilegio senza doveri, verso il peccato (giacché il rifiuto di servire è la definizione stessa di peccato), la volontà di eguaglianza diventa una volontà di nulla, una vertigine di autodegradazione e di morte. E in questo risiedono il segreto e la logica del “comunismo”. Ci sono soltanto due cose assolutamente comuni a tutti gli uomini: il loro nulla originale e il Dio che li ha creati. Se sono troppo deboli o troppo peccatori per unirsi nel culto di questo Dio, tendono invincibilmente a comunicare in quel nulla.

Ma non è al nulla puro e semplice che l’egualitarismo mette capo: l’uomo e la società hanno la vita dura! Peccato capitale contro l’armonia - la quale non è altro che un gioco di ineguaglianze fondate sulle funzioni e sui doveri - , l’egualitarismo partorisce il caos; in altri termini, sostituisce al gioco delle ineguaglianze organiche un groviglio di ineguaglianze assurde e divoranti, frutto dell’intrigo e del caso di tutto ciò che di meno umano esiste nell’uomo. E chiaro per esempio, secondo quanto dicono i testimoni più autorizzati, che il “comunismo” sovietico, fondato in diritto sull’egualitarismo più rigido, ha dato origine di fatto alle ineguaglianze più rivoltanti che la storia abbia mai conosciuto.

Fonte: tratto da “Ritorno al reale” di G.Thibon (Ed.Effedieffe)