Centocinquanta anni di etnografia hanno dimostrato
che il concetto di proprietà, seppur labile presso alcune società tribali, è
componente fondamentale dell’esistenza.
Possedere qualcosa, averlo acquisito tramite la fatica ed il lavoro e dunque
non dover dipendere dalla carità altrui, rappresenta una conquista individuale
che conferisce valore e dignità all’individuo, contribuendo anche a
determinarne l’identità psichica.
Il diritto di proprietà, in quanto diritto naturale, secondo John Locke è
pre-esistente il patto sociale e va garantito dallo Stato: uno Stato ha il
dovere di tutelare la proprietà e nel caso in cui infranga tale diritto, il
cittadino ha il dovere di ribellarsi contro un potere divenuto illegittimo.
Più recentemente è stato il filosofo Robert Nozick a soffermarsi sulla
rilevanza, ancor prima della proprietà di qualcosa, della proprietà di sé. L’io
individuale prevale rispetto alla società, per questa ragione il possesso non
deve essere limitato in alcun modo. Lo Stato quindi, oltre a ricoprire un ruolo
minimo, deve rispettare la premessa kantiana secondo cui l’individuo deve
essere trattato sempre come un fine, mai come un mezzo. Per Nozick è
inaccettabile che l’individuo venga subordinato alla società, sebbene ciò possa
significare redistribuire la ricchezza per offrire maggiori opportunità di vita
alle persone. Il fautore delle proprie chance di vita è l’individuo stesso,
allo Stato compete il solo compito di proteggere i diritti naturali dei
cittadini.
Scardinare il concetto di proprietà si sta rivelando funzionale alla
realizzazione dell’organizzazione sociale del futuro: se la proprietà è il
fondamento della libertà, sottrarre gradualmente la proprietà permetterà di
ridurre le persone ad uno stato di dipendenza sempre maggiore. Il sistema di
pagamento rateale e le agenzie di prestiti hanno trasformato le persone in
debitori: tutti vogliono salire sulla giostra capitalistica, acchiappare le
opportunità e al contempo disprezzare la miseria di chi non può permetterselo;
nessuno vuole rinunciare alle promesse di felicità e successo.
Il desiderio di possesso ed il diritto a possedere sono diventati il cavallo di
Troia con cui il biopotere si sta appropriando delle persone: proprio la
convinzione di possedere qualcosa rende l’individuo sempre pronto all’acquisto
o all’indebitamento e pertanto eterodiretto nelle sue scelte di acquisto o di
contrazione di debito. La sete di possesso viene usata per trasformare le persone
in mezzi di profitto utili per cambiare gradualmente l’ordine sociale. Vivere
in una casa, usare un cellulare, guidare una macchina, guardare la televisione
e indossare abiti che non si possiedono realmente finché non si finiranno di
pagare, significa non essere liberi anzi, si diventa semplici mezzi per
accrescere il profitto di qualcun altro, di oligopoli che governano il mondo
ben al di sopra degli Stati. Nel prossimo futuro non si sarà proprietari
neppure del denaro, ridotto a moneta digitale programmabile ed impalpabile; non
ci apparterranno neppure i nostri rifiuti, pesati e analizzati da bidoni
intelligenti apribili col codice a barre.
Oltre a non essere completamente artefici del proprio agire, evidentemente
eterodiretto, non si è neppure proprietari di se stessi, dei propri pensieri,
indotti dall’esterno, dall’onnipresente connessione digitale. Quest’ultima ha
aperto la strada alla colonizzazione dell’opinione pubblica, dell’immaginario
collettivo e dell’immagine di sé. Il digitale rapisce la mente, induce uno
stato di trance cognitivo la cui modulazione è riconducibile al ritmo digitale.
Lo scroll compulsivo ha un effetto soporifero e de-centrante che separa
dall’esser-ci e recide le radici dell’abitare, dell’esistere, del prendersi
cura.
Diritto di proprietà
Incomprensioni e silenzi
Nel penultimo testo “Fragmenta” avevamo parlato del
fenomeno del “ghosting”, ovvero quella tendenza delle nuove generazioni a
sparire improvvisamente senza dare spiegazioni.
In realtà, anche se non in modo così plateale,
facendolo diventare persino una moda di cui vantarsi, lo “sparire” è un atto
molto comune anche nel mondo di gente “matura”.
Sempre più “amicizie” svaniscono nel silenzio. Relazioni
fragili, costruite giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, crollano
all'improvviso, senza preavviso, lasciando solo macerie. È un fenomeno sempre
più frequente nella nostra società: amicizie "profonde" che si dissolvono come
nebbia al sole, senza una parola, senza un confronto. Una forma di
"ghosting" appunto, applicato alle amicizie. Una persona si sente
ferita o incompresa e, invece di affrontare il problema, sceglie la via apparentemente
più semplice: sparire. Interrompe ogni comunicazione, cancellando anni di
condivisione come se nulla fosse mai esistito.
Questa incapacità di comunicare è sintomatica di un’epoca
in cui si è costantemente connessi eppure profondamente disconnessi. I
messaggi istantanei hanno sostituito le conversazioni faccia a faccia, rendendo
più facile nascondersi dietro uno schermo o, peggio ancora, dietro il silenzio.
Il confronto richiede coraggio. Significa esporsi, mostrare la propria vulnerabilità,
rischiare di non essere capiti. È più semplice tagliare i ponti, convincersi
che l'altro "non vale lo sforzo" o che "tanto non
capirebbe". Ma questa è una forma di immaturità emotiva che sta diventando
una vera e propria epidemia sociale. Quando qualcuno sparisce senza
spiegazioni, non fa solo male all'altro, ma nega a entrambi la possibilità di
crescita che ogni conflitto porta con sé. Le incomprensioni, se affrontate con
onestà, possono rafforzare un legame invece di spezzarlo.
Rarissimo è diventato il confronto autentico, il
dialogo scomodo ma necessario. Il dire "mi hai ferito" invece di
scomparire. Di chiedere "cosa è successo tra noi?" invece di fingere
che l'altro non sia mai esistito. Le relazioni significative meritano questo
sforzo. Meritano parole, anche difficili, anche dolorose, ma sempre preferibili
al vuoto assordante del silenzio che porta con sé solamente scorie.