Giorgio Gaber e la cattiva divulgazione

Giorgio Gaber è stato un grande artista, con il suo teatro canzone, assieme a Sandro Luporini, ha saputo tratteggiare le contraddizioni dell’uomo postsessantottino ed è stato profetico in molte delle sue analisi.

Mai scontato, controcorrente, abbandonò presto la sua ordinaria carriera televisiva per cominciare a girare i teatri a partire dal 1970, sino alla fine degli anni ’90.

Riascoltare le sue stagioni teatrali, tenendo presente le questioni di attualità del periodo, è un’esperienza formativa, ci sono dei brani davvero straordinari, pensiamo a “Il cancro” a “Quando è moda è moda”, a “Il conformista”, a " La democrazia", a "l'America", a “Far finta di essere sani”, giusto per citarne qualcuno.

Non solo, stanco e malato a inizio nuovo millennio incise due dischi con brani memorabili che misero il timbro ad un fallimento generazionale, si pensi a “la razza in estinzione” o a “l’obeso”.

Non vogliamo però qui ripercorrere la carriera di Giorgio Gaber bensì far notare quanto accaduto attorno alla sua figura dopo la sua morte.

Qualche tempo dopo la sua dipartita sorse la “Fondazione Giorgio Gaber”, una organizzazione che aveva come obiettivo quello di divulgare l’opera del cantautore milanese.

Capitammo per caso a delle serate da loro organizzate dove venivano proiettate delle ricostruzioni della sua carriera e con nostra sorpresa notammo come si dava ampio spazio alla fase anni ’60 (davvero trascurabile) e poco spazio (e superficiale) a tutta la corposa opera teatrale a cui Gaber dedicò la propria esistenza.

Negli anni questa fondazione cominciò a organizzare anche dei festival a lui dedicati, gli invitati erano tutti personaggi di grande visibilità, da Laura Pausini, ad Arisa ad Emma. Il senso? Secondo tale fondazione, il fatto di portare grandi personaggi del mondo dello spettacolo dava visibilità all’opera di Gaber.

Peccato che il 90% di tali invitati non avesse la benchè minima attinenza con l’opera di Gaber-Luporini, ma questa è una visione settaria secondo costoro, bisogna divulgare Gaber!

E così negli anni si è continuato su questa scia, di Gaber oggi ne parlano Scanzi, Serra, lo cantano Mengoni e la cantante dei “La rappresentate di lista”.

Proprio ieri leggevamo un articolo in cui si organizza l’ennesimo evento su Gaber, ecco alcuni ospiti: Luigi Bersani, Claudio Bisio, Lorenzo Jovanotti Cherubini, Fabio Fazio.

Capite? Questa è la linea che va avanti da 20 anni. Un uomo che nella sua vita era fuggito dalle tv commerciali, abbandonando la facile carriera a cui era già ben avviato, per portare a teatro le sue riflessioni e le sue denunce, oggi è diventato una sorta di fenomeno da baraccone sui cui dibattere con le persone più conformiste in circolazione e da far canticchiare alle star di turno.

Un umile consiglio, se volete accostarvi all’opera di Giorgio Gaber acquistate i suoi dischi dal 1970 (Libertà obbligatoria) sino al 1998 (Un’idiozia conquistata a fatica), dopodichè ignorate tutto ciò che gli gira attorno, altrimenti vi ritroverete una immagine contraffatta mediata dalle parole di gente come Scanzi o Serra e la voce di un trapper dell’ultima ora.

Salvaguardiamo la memoria di Giorgio Gaber dal frastuono della cattiva divulgazione.


“Tu sei un ingenuo.
Tu credi che se un uomo ha un'idea nuova, geniale, abbia anche il dovere di divulgarla. Tu sei un ingenuo. Prima di tutto perché credi ancora alle idee geniali. Ma quel che é peggio, é che credi  all'effetto benefico dell'espansione della cultura.
No, al momento ogni uomo dovrebbe avere un suo luogo del pensiero, protetto e silenzioso. La cultura, dev’essere segreta, non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi.
Tu mi dirai che la divulgazione, é un dovere civile, e che evolve il livello della gente, non riesci proprio a distaccarti da un residuo populista, e anche un po' patetico. Purtroppo oggi, appena un'idea esce da una stanza, é subito merce, merce di scambio, roba da supermercato. La gente se la trova lì, senza fatica, e se la spalma sul pane, come la Nutella.
No, la cultura è delicata, e anche permalosa, ci resta male se non si sente amata, o se le viene il sospetto di non essere un bisogno vero. La cultura, è come una luce, che quando si espande troppo, perde la sua luminosità. Il frastuono della cattiva divulgazione la affievolisce, soltanto il silenzio, ne salva l’intensità.”
(Giorgio Gaber)



Teoria e fenomenologia del Soggetto radicale di A.Dugin

La casa editrice AGA pubblica nel 2019 il volume “Teoria e fenomenologia del Soggetto Radicale”, anticipato dalla breve antologia “Il Sole di Mezzanotte – Aurora del Soggetto Radicale”, la quale condensa e riassume attraverso una scelta di estratti e inediti la proposta filosofica e la visione del mondo sottese all'opera che qui presentiamo. “Teoria e fenomenologia del Soggetto Radicale” è la traduzione ampliata, rivista e corredata di specifico apparato critico, dell'imprescindibile “Il Soggetto Radicale e il suo doppio”, testo del 2009 che secondo alcuni è, assieme a “La Quarta Teoria Politica”, il più significativo e importante contributo del filosofo russo.

È necessario premettere che, a differenza di quanto sembra suggerire il titolo della traduzione italiana, nel testo non si troverà una trattazione sistematica ed esaustiva della materia; l'autore intende piuttosto suggerire e indicare un indirizzo di ricerca e meditazione che dovrà convergere in quella che Dugin definisce la Nuova Metafisica, ossia un pensiero non ancora pensato, soltanto intravisto ed intuito, capace di affrontare e confrontarsi con la paradossale realtà del postmoderno, epoca che infrange qualsiasi ordine di verità razionale e a fronte di cui gli attuali strumenti filosofici ed ermeneutici risultano inadeguati. In tale logos futuro, la cui urgenza è oggi drammaticamente impellente, potrà forse darsi una visione trasparente e compiuta del Soggetto Radicale, figura che allo stato attuale può essere approcciata solo in maniera intuitiva e descritta allusivamente, forzando il linguaggio filosofico in direzioni inusitate, contaminandolo con suggestioni ed echi del mito, del simbolo e della poesia. L'aspetto più ostico della lettura del testo è appunto questa volontà/necessità dell'autore, conforme alla natura ambigua della materia affrontata, di superare i limiti della razionalità moderna, sfruttando l'opportunità che il postmoderno  mette a disposizione, di perseguire un diverso ordine di verità del discorso, laddove proprio nel postmoderno il Soggetto Radicale avrà la culla del suo sorgere e manifestarsi, e pertanto la sua epifania non potrà che assecondare i ritmi, le dinamiche e le contraddizioni proprie dell'epoca natale. Nasce così lo stile enigmatico ed oracolare che Dugin utilizza ogni volta che intende approssimarsi alla profezia dell'avvento del Soggetto Radicale, promessa e speranza che è al medesimo tempo constatazione di un'istanza metastorica e invito a un decisivo impegno militante.

Impossibile comprendere il Soggetto Radicale se non si comprende la natura e l'essenza del postmoderno. L'epoca che succede alla modernità è, infatti, la piena realizzazione dei presupposti di quest'ultima, i quali, nella loro corrosività, giungono a minare le certezze e le illusioni della modernità stessa, minacciandone innanzitutto il fondamento, ossia la soggettività intesa come razionalità e volontà individuali. Il protagonista del moderno, il soggetto, nel postmoderno viene chirurgicamente sezionato dalla razionalità, la quale, come il biblico cane che torna al proprio vomito, giunge infine a liquidare se stessa e il proprio portatore. Il postmoderno è un'epoca che ha lasciato dietro di sé tutta la zavorra idealistica moderna, cannibalizzatasi nel dubbio e nello scetticismo radicali, per giungere a una sostanziale vacuità ontologica, dove verità e apparenza, identità e alterità, Essere e Nulla, coincidono. Tuttavia, si tratta di un olocausto ironico privo del pathos e dell'elemento tragico tipici della logica sacrificale, in quanto può esservi rischio e serietà solo dove vi sia qualcosa da perdere, mentre nel postmoderno nulla ha più valore e tutto è un gioco.

In questo contesto si innesta uno dei temi più suggestivi del libro, ossia il concetto di “miracolo nero”, che al contrario di quella rottura – significante e straordinaria – del naturale ordine causale costituito dal miracolo, così come quest'ultimo è comunemente inteso, è invece un evento tanto assurdo e insignificante quanto banale, che ha come unico effetto quello di catalizzare l'attenzione e intrattenere lo spettatore per un istante, salvo poi disperdere la propria vacua energia per alimentare nuovi coaguli di non senso. Luogo del miracolo nero è il post-spazio, ossia una diversa fenomenologia dell'estensione che l'uomo postmoderno esperisce grazie alla diverse possibilità messe a disposizione dall'epoca attuale, combinando tecnologia, abolizione di limiti e confini dell'individualità e nuove geografie simboliche.

Miracolo nero e post-spazio sono fenomeni emblematici del postmoderno, che ne riassumono perfettamente il carattere parodistico e assurdo, nonché l'inadeguatezza del logos moderno a dominarlo. Eppure, secondo Dugin, è proprio nel postmoderno che può aver luogo l'evento a cui tutta la storia tende come suo momento decisivo; l'intera dinamica degli eventi può essere interpretata, infatti, come il pretesto per il sorgere del Soggetto Radicale. È necessario che la storia precipiti nell'abisso perché il suo evento più straordinario, da essa custodito come un tesoro nascosto, si manifesti. Cos'è dunque il Soggetto Radicale, colui che, ricorrendo al linguaggio nietzschiano, Dugin definisce vincitore su Dio e sul Nulla? 

Ultima incarnazione ermeneutica di una serie di figure che lungimiranti profeti degli ultimi tempi hanno tratteggiato in folgoranti intuizioni (Nietzsche, Jünger ed Evola, giusto per citare i più influenti), egli è colui che, abbandonati tutti i riferimenti e i sostegni tradizionali, trova in sé stesso e solo in sé stesso il senso, la trascendenza e il sacro, ossia ciò che l'epoca premoderna garantisce per specifiche caratteristiche cicliche, ciò che il moderno oblia a favore dell'immanenza, e ciò che il postmoderno perverte e surroga in forme infernali. Egli trova tutto ciò, appunto, alle radici del proprio essere, nella più intima sostanza: in questo consiste la sua radicalità, ossia nel suo essere radicato nell'autenticità e nel reale, di cui è testimone e portatore nell'epoca dell'inautentico e dell'irreale trionfanti.

Se è vero che la sua sostanza trascende le epoche, è tuttavia solo a contatto con la totale dissoluzione degli orizzonti tradizionali che essa può manifestarsi nella propria nudità quintessenziale, libera da scorie e contingenze. Se un'esistenza integra e integrata è la norma nelle epoche tradizionali, in tale condizione non vi è nessun merito o eccezionalità, nonché piena consapevolezza; solo confrontandosi con la più cupa dissoluzione di qualsiasi orizzonte garantito, nel setaccio ardente del postmoderno, vi è l'autentica prova di sé che il Soggetto Radicale brama e sceglie volontariamente per saggiare la propria qualità. Egli è da sempre se stesso, in qualsiasi epoca, ma solo nell'ultima diviene certo di sé misurandosi con la propria forza e stabilità, confermandosi come centro laddove non vi è alcun centro, come generatore di senso laddove ogni senso dilegua. In questa dimensione volontaristica dell'avvento del Soggetto Radicale sta il supremo rischio del fallimento suo e della storia intera: se il processo storico verte al manifestarsi del Soggetto Radicale come suo scopo e compimento, e se tale avvento è legato a un atto di volontà che, in quanto libero, può anche non avvenire, allora tutto è appeso a un filo fino all'ultimo istante, tanto il trionfo quanto il fallimento. La responsabilità è dunque affidata a ciascuno che incarni il Sole di Mezzanotte, o ne favorisca il sorgere annunciandolo nel deserto e preparandogli la via quale un novello Battista dell'età della tecnica. Sono in ballo questioni epocali, non individuali; bene chiarirlo per coloro che vorrebbero ridurre tale figura a un segnavia etico a cui attenersi nelle temperie dello spaesamento. Ad attendere il suo avvento, tremante e trepidante, è l'Essere stesso; l'appuntamento mancato coinciderebbe, infatti, con la vittoria del Nulla incombente.



Il disastro del Vajont

 Progresso e profitto sono sempre andati a braccetto, perché? Perché nessuno dei due guarda in faccia nessuno.

Due linee parallele da cui l'uomo moderno, vivendoci in mezzo, attinge e gli esempi potrebbero essere infiniti ma oggi ricordiamo un fatto in particolare.
Una vicenda che vide come protagonisti uomo, progresso e profitto.
Il 9 ottobre, alle 22.39 di sessant'anni fa, la vela bianca del progresso in calcestruzzo veniva scavalcata dall'onda di morte che procurò in soli quattro minuti 1910 vittime (alcune mai trovate) nei pressi di quella che era ed è chiamata "la diga del Vajont" spazzando via interi paesi.
Una storia di intrecci e interessi del potere economico partiti ancor prima dello stesso boom: perizie, controperizie, presunzione, arroganza, negligenza e occultamento di documenti (riservati) tra enti pubblico/privati e ministeri che preferirono sacrificare vite piuttosto di ammettere l'errore, la spavalda leggerezza che nel nome del profitto mascherato da progresso costruì oltre alla diga anche i presupposti per una catastrofe più che prevedibile, con i media dell'epoca (ma ancora oggi) a riempirsi la bocca della parola tragedia.

Fu uno dei debutti in terra nostra di quella tecnica, affinata negli anni a seguire, che tra pubblico e privato permette il disastro colposo privo di colpevoli (se non qualche sacrificabile pedina).
Ma una verità, tra tutte, è che fu permesso. E poco importa se nel processo che ne seguì un paio di nomi furono condannati come RESPONSABILI ( tre anni e otto mesi con condono di tre anni, danno e beffa come titoli di coda).
La responsabilità per propria definizione doveva esserci prima, durante i lavori, durante le avvisaglie che la frana diede con largo anticipo; ritenere responsabili "post fata" non restituì in nessun caso né vite né averi di chi quella sera non poté difendersi.
 
Quella del Vajont è una tragedia che non viene mai ricordata. Dagli errori, si dice, si dovrebbe imparare e far sì che il progresso sia una delle fonti di benessere ma a quanto pare, di "imparato", è rimasto solo il profitto, con la memoria che viene meno perché perpetuare il ricordo di ciò che si poteva evitare porrebbe oggi troppi dubbi e confusione; il profitto non possiede memoria.

Per chi non conoscesse la vicenda suggeriamo il libro "Sulla pelle viva" di Tina Merlin e il monologo teatrale di Marco Paolini intitolato 
"Vajont 9 ottobre '63".



Le regole di Calvino per leggere i classici

"La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario."

1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: “Sto rileggendo…” e mai “Sto leggendo…”. Leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello di averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come ad ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più. Possiamo tentare allora quest’altra formula di definizione:

2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli. Infatti, le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita. […] Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l’origine. C’è una particolare forza dell’opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme. La definizione che possiamo darne allora sarà:

3. I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando si impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale. Dunque, che si usi il verbo “leggere” o il verbo “rileggere” non ha molta importanza. Potremmo infatti dire:

4. D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.

5. D’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.

6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume) La lettura d’un classico deve darci qualche sorpresa in rapporto all’immagine che ne avevamo. Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C’è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l’introduzione, l’apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne di più di lui.

8. Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso. Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo.

9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti. […] La scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici, tra i quali tu potrai riconoscere in seguito i “tuoi” classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta, ma le scelte che contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola.

10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani.

11. Il “tuo” classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.

12. Un classico è un libro che viene prima degli altri classici, ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia. L’attualità può essere banale o mortificante, ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si deve pur stabilire “da dove” li stai leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza tempo. Ecco, dunque, che il massimo rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la lettura d’attualità.

13. È classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.

14. È classico ciò che periste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona. […] Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti perché “servono” a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici. E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran: “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”.

Italo Calvino, “Perché leggere i classici”, Mondadori, 1981