Le regole di Calvino per leggere i classici

"La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario."

1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: “Sto rileggendo…” e mai “Sto leggendo…”. Leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello di averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come ad ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più. Possiamo tentare allora quest’altra formula di definizione:

2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli. Infatti, le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita. […] Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l’origine. C’è una particolare forza dell’opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme. La definizione che possiamo darne allora sarà:

3. I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando si impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale. Dunque, che si usi il verbo “leggere” o il verbo “rileggere” non ha molta importanza. Potremmo infatti dire:

4. D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.

5. D’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.

6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume) La lettura d’un classico deve darci qualche sorpresa in rapporto all’immagine che ne avevamo. Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C’è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l’introduzione, l’apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne di più di lui.

8. Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso. Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo.

9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti. […] La scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici, tra i quali tu potrai riconoscere in seguito i “tuoi” classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta, ma le scelte che contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola.

10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani.

11. Il “tuo” classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.

12. Un classico è un libro che viene prima degli altri classici, ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia. L’attualità può essere banale o mortificante, ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si deve pur stabilire “da dove” li stai leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza tempo. Ecco, dunque, che il massimo rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la lettura d’attualità.

13. È classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.

14. È classico ciò che periste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona. […] Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti perché “servono” a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici. E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran: “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”.

Italo Calvino, “Perché leggere i classici”, Mondadori, 1981



"Io sono quello" di Nisargadatta Maharaj

Nisargadatta Maharaj non era un uomo istruito, non scriveva libri e si esprimeva in modo semplice.

Egli fu un uomo in ricerca, che dopo un periodo di meditazione, ritornò alla sua vita precedente di tabaccaio senza fondare alcun ashram con discepoli e denari. L’unica cosa che fece, oltre a svolgere il suo lavoro di sempre, fu quella di allestire una piccola stanza nella sua abitazione dove accoglieva chiunque avesse necessità di confrontarsi. Diversi studiosi ne riconobbero la saggezza e si interessarono ai suoi insegnamenti.

Tutti gli scritti che si trovano su di lui sono costituiti dai dialoghi che intrattenne con chi andava a trovarlo, trattasi di raccolte di pensieri trascritti con la classica forma del dialogo domanda-risposta.

In particolare, tra i pubblicati, se c’è un titolo rivolto a coloro che sono pronti a mettere in discussione tutto, questo è “Io sono quello”. Un libro che se viene compreso può essere devastante, per alcuni potrebbe essere l’ultimo libro di una lunga ricerca spirituale.

Il messaggio di Nisargadatta sembra trascendere tutto, c'è qualcosa di primordiale, di elementare e, al tempo stesso, di terribilmente complesso in ciò che viene espresso.

Non possiamo dire altro su questo libro, chi ne ha il coraggio può avvicinarsi, con la consapevolezza che la propria vita potrebbe cambiare per sempre.

“Quando non pretenderai nulla dal mondo e da Dio, quando non vorrai, non cercherai e non ti aspetterai niente, allora lo Stato Supremo verrà da te inatteso, senza essere stato invitato.”

“Ogni malattia ha inizio nella mente. Occupati innanzitutto della mente, rintracciando ed eliminando tutte le idee e le emozioni sbagliate. Poi vivi e lavora incurante della malattia. Con la rimozione delle cause, l’effetto è destinato a scomparire.”

“E’ sempre la falsità a farti soffrire: i falsi desideri, le false paure, i falsi valori e le false idee, i falsi rapporti umani. Abbandona il falso e sei libero dal dolore. La consapevolezza diventa coscienza quando ha un oggetto.”

“La libertà dall’attaccamento non si ottiene con la pratica, sopravviene naturalmente, quando uno conosce se stesso. La coscienza di se è distacco. Ogni desiderio è dovuto a un senso di carenza. Quando non ti manca niente, il desiderio cessa.”

“Non c’è niente da diventare, scopri solo ciò che sei. Cercare di conformarsi a un modello, è una insopportabile perdita di tempo, sii e basta.”




"Casi" di Daniil Charms

Daniil Charms è stato uno scrittore e poeta surrealista sovietico.

Il suo nome era uno pseudonimo (Daniil Ivanovič Juvačëv) con cui probabilmente volle evocare il suono - e le vibrazioni semantiche - dei termini harm (danno, danneggiare) e charme (fascino).

Charms amava definirsi "un gigantesco pagliaccio del mondo solare", il suo eloquio era sempre surreale o persino paradossale e a partire dalla fine degli anni venti i suoi versi anti-razionalistici, le sue ideazioni teatrali non conformiste, e i suoi comportamenti pubblici inneggianti al decadentismo e alla illogicità fecero guadagnare a Charms - che amava apparire in guisa di un dandy inglese - la fama di un eccentrico geniale ma folle all'interno dei circoli artistici e culturali di Leningrado.

Charms non mancava occasione per adottare comportamenti stravaganti, come l'abitudine di declamare i suoi versi chiuso in un armadio e restare completamente nudo quando presenziava alle riunioni del movimento d'avanguardia da lui fondato: OBĖRIU, ovvero Unione dell'Arte Reale, che abbracciava gli ideali artistici del Futurismo russo.

"Sono andato nudo alla finestra. Nella casa di fronte si è visto che qualcuno era indignato, credo fosse una marinaia. Sono piombati da me un poliziotto, lo spazzino e qualcun altro. Mi hanno detto che sono già tre anni che dò fastidio agli inquilini della casa di fronte. Ho appeso delle tende".

Tra i tanti testi pubblicati segnaliamo “Casi”, uno dei suoi scritti più rappresentativi.

Brevi scene surreali in cui vecchie cadono una dopo l'altra dalla finestra, uomini litigano per inezie, si picchiano e uccidono nei modi più assurdi e disparati, ma soprattutto i suoi personaggi cadono, non fanno che cadere, farsi male, morire, dormire, non dormire, sognare. Muoiono tutti allegramente, o almeno il lettore ride mentre muoiono.

 “A me interessano solo le sciocchezze, solo ciò che non ha alcun significato pratico. La vita mi interessa solo nel suo manifestarsi assurdo. Eroismo pathos, ardimento, moralità, commozione e azzardo sono parole e sentimenti che mi sono odiosi. Ma comprendo perfettamente e ammiro: entusiasmo ed esaltazione, ispirazione e disperazione, passione e riservatezza, dissolutezza e castità, tristezza e dolore, gioia e riso.”

Il regime stalinista considerò Charms un sovversivo, lo censurò e arrestò più volte fino a chiuderlo definitivamente nel manicomio criminale di Leningrado dove morirà di inedia.

Da Artaud a Charms, possiamo notare come sia democrazia che dittatura hanno il vizio di sopprimere grandi artisti danneggiando sé stessi, cioè il prestigio del loro Paese, il popolo e ovviamente i malcapitati interessati.

Un autore da riscoprire.




 


Che cos'è l'artigianato oggi?

Ogni tanto nelle situazioni estreme si discute di un passo indietro, di un ritorno all'artigianato.

Alle soglie del 2024 cos'è l'artigianato oggi?

Per gran parte della massa è un prodotto che è divenuto inaccessibile, costoso e il più delle volte con l'offerta delle multinazionali appare un qualcosa di improponibile. 

Ma vediamo in dettaglio ciò che c'è dietro...

L'artigiano non ha orari, l'artigiano non segue protocolli, l'artigiano è oggi colui che accetta la sfida del progresso senza la clausola del consumismo.

L'artigiano è colui che sviluppa arte e la propone ad un prezzo congruo, lecito.

L'artigiano è colui che ripara, aggiusta e crea la soluzione adatta con i mezzi che ha.

L'artigiano il più delle volte è colui che produce di ingegno proprio... Lo vediamo alle fiere medievali, ci giunge in casa per proporre alternative alla nostra negligenza.

L'artigiano è ciò che il progresso vede come acerrimo nemico perché mantiene e non consuma.

L'artigianato è la forma espressiva di ogni individuo che sfida se stesso e i tempi odierni.

L'artigianato non è più il mestiere del tizio sotto casa che ti ripara le scarpe comprate al decathlon ma una minaccia alla filiera del commercio facile.

L'artigianato è il contrapporsi a ciò che è facile ed immediato, soprattutto se arriva dall'estero.

I nostri liutai, coramai, mastri setaioli sono un ricordo da quando il libero commercio ha appiattito il consumo, da quando la nostra mente approda a facili e periodiche soluzioni dall'arte che pian piano ci abbandona.

Se non fosse per qualche folle artista che sfida, ci troveremmo senza artigiani, succubi della plastica che adorna le nostre case.


Eugenio Montale ed il suo segreto

 Eugenio Montale è stato uno dei più grandi poeti italiani. Un classico, nel vero senso della parola, a cui guardare con riverenza.

Il suo “Ossi di Seppia” è una raccolta di poesie ispirata dal duro paesaggio ligure con cui Montale esprimeva una visione della vita aspra e desolata, con un linguaggio spolpato da qualsiasi decorativismo. Una linea asciutta ed essenziale, come una forma di ermetismo tendente alla meditazione che molto deve al Simbolismo. Simbolismo che viene superato con un senso di angoscia e di mistero di stampo esistenziale.

Il premio Nobel alla letteratura mise in mostra le ferite della vita. “Un male di vivere” che si incontra in Natura come “un ruscello che non scorre” o una foglia che non può verdeggiare.

Montale fu un poeta asciutto, sobrio nella constatazione dell’assenza di certezze.

Il suo fu un approccio attento, con un’osservazione contemplativa. Di quella contemplazione dei movimenti tenui ed impercettibili della Natura. Alla ricerca spasmodica del segreto che possa svelare il senso della vita. Sormontato da quei “cocci aguzzi di bottiglia” in cima ad un invalicabile muro la cui scoperta implicherebbe il superamento dei sensi e della condizione umana.

In una ricerca senza fine (al centro della sua poesia resta sempre il problema del significato) che non trova risposte ma solo ulteriori domande. Ma forse è proprio il dubbio e l’ardire che possono portare al superamento del limite e al raggiungimento della conoscenza di quel mistero insondabile che ha sempre attanagliato l’uomo. Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?

Ecco quindi l’ascendenza simbolista che in lui prende il sopravvento e che pone al centro la parola come strumento di analisi della realtà. Quella realtà che può essere (ed è) diversa da quella che i sensi riescono a cogliere.

Montale si chiede tutto ciò perché lui non si ferma all’apparenza ma è uno di quegli “uomini che si voltano”. E voltandosi resta solo col “suo segreto”.



                                 OC

Hic Manebimus Optime

Il 12 settembre del 1919 intorno alle 12.30, Gabriele d’Annunzio, a capo di 2600 legionari (nazionalisti, anarchici, militari, socialisti, artisti ed arditi) entra nella città di Fiume dando inizio ad un periodo che fece diventare la città (ora croata) un esperimento rivoluzionario ancora oggi guardato con ammirazione e meraviglia.

Venne accolto in città con gli onori militari da una folla festosa che vide l’impresa come un nobile gesto di difesa nei confronti di tutti quegli Italiani fiumani che non volevano passare per nessun motivo sotto il governo croato.

Come nacque la questione?

Alla fine della prima guerra mondiale l'Italia rivendicò anche la città di Fiume, che però non era presente negli accordi di Londra (gli accordi fatti dall'Italia con Francia e Inghilterra che prevedevano l'entrata in guerra dell'Italia e, in caso di vittoria, l'acquisizione di alcuni territori dell'impero austro-ungarico, le cosiddette terre irredenti).

La città era rivendicata anche dalla Jugoslavia, ma era a maggioranza italiana e spingeva per l'annessione all'Italia.

In questo clima si svolse l'impresa di Fiume, ovvero un colpo di mano militare organizzato da D'Annunzio che con un manipolo di uomini occupò la città il 12 settembre 1919 creando la Reggenza Italiana del Carnaro, in vista di una futura annessione all'Italia.

La reazione internazionale fu negativa e costrinse il governo italiano ad intervenire e a cacciare via D'Annunzio e il suo esercito con un rapido attacco militare il 24 dicembre 1920, il cosiddetto Natale di sangue.

La città venne infine annessa all'Italia in seguito ad un ulteriore accordo tra il governo italiano di Mussolini e la Jugoslavia nel 1924 ma l’esperienza d’annunziana era finita e persa per sempre.

Questo è il triste e drammatico epilogo di questa vicenda.

La burocrazia ed i giochi di palazzo avevano preso il sopravvento su un qualcosa di straordinario e di cui non vi erano stati precedenti in passato.

Oltre all’impresa di coraggio e di ardimento la Fiume di D’Annunzio resta un esempio irripetibile, un avamposto rivoluzionario nel vero senso del termine.

Nella Fiume dannunziana non c'erano limiti, la morale era stata abbattuta e i costumi erano liberi. Un'utopia libertaria di avanguardie artistiche che consegnò al mondo la prima, vera, costituzione rivoluzionaria della storia: la Carta del Carnaro.

La Carta del Carnaro prevedeva infatti un impianto basato su un sistema corporativo, sulla democrazia diretta, sul sistema assistenziale e pensionistico in aiuto dei cittadini, sul suffragio universale senza alcuna distinzione di sesso, razza e religione, sulla proprietà privata purché avesse funzione sociale.

L’esperienza fiumana coagulò in buona sostanza una quantità di esperienze, ribellioni, libertà individuali, intenti rivoluzionari, spinte innovative e libertarie da farne un’esperienza inedita e mai più ripetuta nel Novecento italiano.

Una breve scintilla, un’opera d’arte a cielo aperto all’insegna della provocazione, l’applicazione delle avanguardie artistiche del tempo, un'insurrezione che ispirerà anche parte del ‘68 e l’ala creativa del movimento del ‘77.

Un laboratorio politico e sociale, all’insegna dell’essenza libertaria più pura, da non confondere col vivere hippie. Si trattava di un ordinamento libertario non esteso in senso orizzontale ma in quello verticale. Una dissoluzione del vivere borghese da chi si era spinto in territori artistici di confine usando le famose “acque corrosive” di evoliana memoria.

Una “reggenza di poeti” come venne ribattezzata.

A Fiume, fino al dicembre del 1919, poco dopo l’occupazione, si stanziarono almeno 20mila uomini tra granatieri, arditi, giovani, nullafacenti, disperati, artisti, nazionalisti, esponenti della sinistra.

Il Consiglio Nazionale Fiumano conferì ogni potere a D'Annunzio e la popolazione accorse ad ascoltare i comizi del Comandante da un balcone. All’ardore del sentimento patriottico e di rivalsa per la vittoria mutilata del 1915/18, si unì anche un fermento che si tradusse, solo per fare un esempio, nella costituzione dello ‘Yoga’, detta ‘Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione’, formata da un gruppo di legionari, tra cui Guido Keller, Giovanni Comisso e Mino Somenzi, in cui l'antico ascetismo indiano si mescolò alle teorie futuriste che inneggiavano alla fusione fra arte e vita.

In tal contesto si realizzarono opere di teatro improvvisato, balli, disegni sui muri (antesignani dei nostri murales).

Un modo di vivere che impresse una svolta decisiva del processo di crisi dello Stato liberale ed all’etica borghese, un modo di concepire l’esistenza pericoloso per un sistema, che ora come allora, si sbrigò a togliere di mezzo nel minor tempo possibile. Un'esperienza rifiutata dai liberali, dai benpensanti, dai conservatori, dal clero. Come sarebbe stata la storia di questo “paese” se l’esperienza fiumana avesse potuto mettere radici e avesse potuto diventare un esempio?




                              OC

 


Il cambiamento di Giovanni Lindo Ferretti

 "Non fare di me un idolo mi brucerò".

Si è parlato molto negli anni del famoso "cambiamento" avuto negli anni da Giovanni Lindo Ferretti. In tanti sono rimasti delusi e arrabbiati per via, a loro dire, di una sorta di tradimento, da parte dell’ex leader dei CCCP, degli ideali comunisti.

Ferretti da anni si è ritirato a vivere sui monti, lontano dal mondo moderno, dalle sue meccaniche e dai suoi ritmi. Ha abbracciato un cattolicesimo profondo poichè desideroso di risposte e di un ritorno alla spiritualità.

Chi però ha saputo indagare e leggere tra le righe dei vecchi testi dei CCCP sapeva da tempo l’indole, i desideri e le speranze di Ferretti e non è rimasto sorpreso da tale percorso.

Cosa abbia rappresentato all'interno del panorama musicale (e non) l'entità CCCP è sotto gli occhi di chiunque si sia avventurato nella musica "alternativa" italiana.

Inimitabili e di impatto, con un'iconografia che richiamava volutamente gli scenari del Patto di Varsavia, una sorta di decodificazione, non solo musicale, delle istanze del punk occidentale.

Ma il punk era solo un pretesto per denunciare la deriva materialistica e vuota dell’Occidente.

Il richiamo a quello che sta "oltre il muro" era paradossalmente un bisogno di centralità, di stabilità. Un'adesione ad un "comunismo dorico" che sapesse incarnare lo spirito e le istanze di una gioventù dispersa tra le "insegne luminose" e l'eroina.

Chi li ha considerati superficialmente comunisti, è normale che a distanza di tanti anni sia poi rimasto sorpreso dal percorso individuale del leader Ferretti, si era fermato al dito e non alla luna.

In realtà i primi CCP, poi i CSI e i PGR, sino all’esperienza solista, mostrano Giovanni Lindo Ferretti percorrere una strada onesta, di sincera ricerca del sacro in un tempo di secolarizzazione e decadenza.

"Fedeli alla linea ma la linea non c'è"...

                                                                          

                                                                                 OC


Il non rispetto per il bambino - J.Korczack

Non rispettiamo il bambino perchè ha molte ore di vita davanti a lui.

Mentre i nostri passi diventano pesanti, i gesti interessati, la percezione e i sentimenti pili poveri, il bambino corre, salta, si guarda attorno, si stupisce e chiede in modo gratuito. Spreca le lacrime e spende il riso generosamente.

In autunno, quando il sole si fa raro, ogni bella giornata diventa preziosa; in primavera gli alberi sono comunque verdi. Non servono cure superflue, basta così poco al bambino per essere felice. Non lo prendiamo sul serio, ci sbarazziamo di lui eludendo le domande con risposte scherzose, senza alcuna considerazione per la pienezza della sua vita nè per la sua gioia, che si concedono con tanta facilita.

Inseguiamo il tempo. Ogni quarto d'ora, ogni anno ha la sua importanza. II bambino, invece, ha tutto il tempo, non rischia di mancare l'appuntamento con la vita.

Non è ancora un elettore, per cui non è necessario guadagnarsi il suo voto.

Non esiste il rischio che proferisca delle minacce, non esige niente, non dice niente.

Piccolo, debole, povero, dipendente, non è che un potenziale cittadino.

A volte viene trattato con indulgenza, a volte con brutalità, ma sempre e ovunque con la stessa mancanza di rispetto.

Non è che un bambino, un ragazzino, che sarà uomo solo domani.


Tratto da: “Il diritto del bambino al rispetto” di J.Korczack (ed.Luni)



I "mostri" in casa

Dopo i fatti di Palermo, i ragazzi coinvolti nello stupro sono finiti giustamente in carcere. La vittima invece è tornata sui social.

Questo recente fatto di cronaca ci ha dato l'occasione di osservare i profili social dei giovani coinvolti. Ciò che emerge non è la banalizzazione mediatica che ha voluto dipingere sette mostri usciti fuori da chissà dove.

Anche se fa comodo pensarlo, in realtà trattasi di giovani assolutamente nella media, potrebbero essere i figli di chiunque. Alla nostra società che vende continuamente disvalori piace tanto puntare il dito per non sentirsi mai responsabile di nulla. Vi invitiamo allora a farvi un giro nei profili di tutti i ragazzi coinvolti, lei compresa. Cosa si può osservare? Niente di diverso da quello che i ragazzi medi del 2023 fanno. Trap, Tik Tok, nudità, banalità, vuoto interiore, divertimento fine a se stesso, noia esistenziale.

Accade così che in una serata qualsiasi la lei di turno, si trovi in mezzo a un branco di coetanei, che ad un certo punto decidono di poterne approfittare. D'altronde, a quanto si legge sui giornali, tra loro avevano già dei filmati della ragazza in situazioni simili. Ecco che, nella loro testa scatta il meccanismo "tanto le piacerà", e accade quel che accade. Trattasi di ragazzi come tanti, che ogni giorno scimmiottano i trapper che incitano a trattare "le tipe" come mero oggetto di piacere. E anche lei, la vittima dello stupro, è una ragazza come tante, intenta a canticchiare versi trap dello stesso tenore di cui sopra mentre balla mezza svestita. Nulla di fuori dall'ordinario dunque.

Inutile puntare ipocritamente il dito sui carnefici di turno. È facile fare gli indignati solo quando vengono alla ribalta spiacevoli fatti di cronaca. Ma queste sono semplicemente le risultanti della società attuale.

Invece di scandalizzarsi pensando che i protagonisti siano dei dissennati, perché non fermarsi ad osservare i propri figli su tiktok filmarsi tutto il giorno mentre fanno gli ebeti? Si noterebbe che costruiscono video identici a quelli degli stupratori e della vittima. Conducono la stessa vita e hanno la medesima concezione dell'esistenza. Potevano tranquillamente trovarsi loro quella sera e magari rovinarsi la vita trascinati dal branco e dagli ormoni.

È giusto che chi sbaglia paghi, ma sentire orde di genitori puntare il dito e dare lezioni di morale e educazione anche no. Che si guardassero in casa, i "mostri", come li chiamano, li hanno tutti i giorni accanto a loro.





L'antica funzione dello Spirito - A.Artaud

Vi fu un tempo in cui l’artista era un saggio, ossia un uomo colto che si doppiava in un taumaturgo, in un mago, in un terapeuta, e anche in un gimnasiarca; è tutto quel che si definisce nella lingua dei circhi, l’«uomo orchestra» o l’«uomo Proteo». L’artista riuniva in sé tutte le facoltà e tutte le scienze. Poi venne l’epoca della specializzazione, quella anche della decadenza. Non si può negarlo. Una società che fa della scienza una polvere di scienze è una società che degenera. Se si vuole ben accettare l’idea che l’Uomo è il catalizzatore dell’Universo, bisogna dedurne che le forze morali dell’Uomo vibrano all’unisono con le forze dell’Universo, queste forze che, secondo gli insegnamenti dell’alta filosofia monista, non sono né fisiche né morali, ma rivestono un aspetto o morale o fisico secondo il senso in cui si desidera utilizzarle. E allo stesso modo in cui vi è nel mondo attuale una formidabile incomprensione tra le facoltà opposte dello spirito e della materia, allo stesso modo vi è emulazione, o piuttosto rivalità tra il lavoro delle mani e quello della testa. Le élite, non lo si può negare, non godono d’alcun credito nella società d’oggi. La grande massa umana non si interessa ai lavori dello spirito e non sarebbe esagerato affermare che ci si appresta a ridurre alla fame coloro che, con un disinteresse che fu in altri tempi maggiormente riconosciuto, fanno professione di dedicarsi al puro lavoro del pensiero. Coloro che lavorano con le loro mani hanno dimenticato d’avere una testa, e coloro che lavorano con la testa si attristano generalmente, credendosi sminuiti, quando gli tocca lavorare con le proprie mani. Ci si spiega in queste condizioni, il disprezzo che sentono le masse comuniste per le attività gratuite dello spirito. È perché disprezza i lavori dello spirito che il mondo moderno è in pieno sfacelo; si può anche affermare che ha perso il proprio spirito; e lo spirito, per il fatto d’essere in rottura con la vita, è a sua volta diventato inutile. Che le élite cessino di credere alla loro superiorità, che acquisiscano un’ umiltà salutare, ch’esse rendano allo spirito la sua antica funzione d’organo, che mostrino i lavori dell’intelligenza sotto un aspetto vantaggiosamente materiale, e come per incanto cesserà ogni guerra imbecille tra i raffinamenti sontuosi dello spirito e il lavoro delle mani che è senza valore se non è retto dalla logica della testa. Gli intellettuali occuperanno nella società il posto che gli spetta quando questa società avrà abbastanza discernimento per comprendere che vi è un’identità assoluta tra le forze del corpo e quelle dell’intelligenza, e che lo spirito è il setaccio della vita.


Fonte: "Al paese dei Tarahumara", di A.Artaud (ed.Adelphi)




Torpori serali


Dopo un turno di lavoro estenuante, prendi un treno sovraffollato che ti riporta alla stazione più vicina al quartiere periferico dove abiti. Ivi, infatti, hai dovuto parcheggiare, in quanto veicolo inquinante, il mezzo di cui sei proprietario, non potendo accedere, ex lege, nella fascia verde riservata alle auto di nuova generazione. Tornando a casa, ti fermi al primo supermercato che incontri sulla strada. Sono le 18 e 30. Come un automa, riempi il carrello, carne, pasta, qualche surgelato, olio, un po' di frutta e verdura. Vai alla cassa, quasi ipnotizzato dal ritmo cadenzato della merce sul rullo, passi la carta, imbusti e te ne vai. Varchi l'uscio. Nel silenzio più totale, sistemi la spesa, fai una doccia, controlli lo scontrino degli acquisti effettuati. D' un tratto, un sussulto: è possibile che hai speso così tanto per una quantità di provviste così esigua? "Certo, anche la benzina è alle stelle, che vuoi farci...". Cerchi di non pensarci e ti accingi a preparare la cena. Accendi la TV, sintonizzandoti sul tg. Guerra, cambiamenti climatici, un servizio sui pompieri che salvano un gattino. Poi ancora guerra, inflazione, politica interna ed internazionale, immigrazione, liti tra destra e sinistra, l'ultima scarpa alla moda da 500 euro sponsorizzata da un influencer, i potenti del mondo che, viaggiando su mirabolanti jet privati, si incontrano in lussuosi alberghi per discutere come limitare l'inquinamento globale. Le immagini, come diapositive di un infernale viaggio, scorrono veloci, scattanti, non lasciandoti il tempo di riflettere. Parole impostate, vuote, quasi fossero slogan dozzinali, sgorgano come un fiume inquinato dallo schermo, inondando il piccolo salone in cui stai consumando il tuo pasto, lasciando attorno a te solo fanghiglia e putridi residui. All'improvviso, come un tarlo, un pensiero ti sfiora, destandoti dal torpore serale: e se ci stessero prendendo per i fondelli? Se ci stessero raccontando solo una marea di menzogne? Scosso, fissi un secondo il vuoto, lasciando la forchetta quasi a penzoloni sulle tue labbra semiaperte. " Ma no, dai, ti pare che…è solo la situazione del momento". Rincuorato, tiri un sospiro di sollievo, " ho proprio voglia di stare tranquillo oggi, basta con queste notizie. Meno male che stasera mi godo il grande fratello vip".

  





Il pericolo delle teorie hameriane

Molte persone ci chiedono di dare una nostra opinione su Hamer e sulla nuova medicina germanica.
Non è semplice rispondere, poiché trattasi di un argomento che non padroneggiamo.
Conosciamo il soggetto e le sue teorie, abbiamo in passato anche letto i suoi libri, ma a livello tecnico bisogna avere conoscenze specifiche per confutare. Poi certo, si può provare ad osservare la veridicità delle sue teorie nel quotidiano ma non basta.

Se siete interessati all'argomento c'è un canale specializzato che se ne occupa bene, si chiama 5LB magazine.

Quello che possiamo dire noi, in base alla nostra esperienza e senza addentrarci in campo scientifico, è che l'approccio hameriano può essere pericoloso.
Pericoloso perché messo in mano a chiunque può creare dei problemi. Negli anni purtroppo abbiamo conosciuto e visto tanta gente che è finita male seguendo acriticamente e fanaticamente certe teorie. Non perché esse siano sbagliate, ribadiamo che non entriamo nel merito, ma perché sono campi molto delicati, così come è delicato l'animo di una persona che ha una qualche malattia.

Non si può spingere la gente a non seguire determinate cure per via di convinzioni personali. Spesso abbiamo visto questa dinamica, ovvero consigliare ad amici e parenti di non prendere quel farmaco, di non fare quella terapia perché il tutto era "psicosomatico" ed in fase finale di risoluzione.
Attenzione a questa faciloneria. Se si vuol seguire Hamer e le sue teorie lo si faccia seriamente e non si cerchi di indirizzare persone che non sono pronte a cambiare prospettiva, perché poi avvengono le disgrazie.
È meglio una terapia farmacologica fatta con la convinzione interiore di stare facendo la cosa giusta, che una scelta "alternativa" fatta tra mille dubbi.

Hamer poi era un personaggio particolare, chi ha letto i suoi testi saprà delle sue convinzioni in merito al fatto che, a suo dire, in Israele si curerebbero seguendo la sua visione e non facendo mai, in caso di tumori, nessuna chemio in quanto velenosa. Essi terrebbero per sé queste scoperte, proponendo al resto del mondo dei veleni per le cure.
Delira nelle sue lettere ai rabbini o c'è del vero?
Le sue scoperte sono davvero rivoluzionarie o solamente delle intuizioni incomplete?
Ognuno si faccia la propria opinione, approfondisca ma faccia attenzione alla divulgazione. Sono questioni molto delicate.

Adriano Romualdi, "caro agli dei"

"Muore giovane chi è caro agli Dei"

Nell’esodo di Ferragosto del 1973 si consumò una tragedia.

Lungo la via Aurelia, nei pressi di Roma si snodano file interminabili di auto. A bordo di questi veicoli non vi sono uomini ma ingranaggi di questa mostruosa civiltà della macchina. Corrono verso una meta inesistente nel nome del benessere consumistico. Nessuno li può fermare, tanto meno distrarre.

E non vengono appunto distratti dalla vista di una macchina che è fuori dalla carreggiata, semi ammaccata e nelle cui lamiere giace ferito Adriano Romualdi.

Forse un tempestivo soccorso sarebbe bastato? Chissà.

Sta di fatto che un incidente occorso la notte tra l’undici ed il dodici agosto del 1973 è fatale ad Adriano Romualdi la cui breve vita (33 anni) si consuma fatalmente tra i resti di un’automobile.

Una vita vissuta come testimonianza attiva, cosciente e di totale rifiuto dei falsi valori degli ultimi decenni.

E altamente significativa e simbolica non fu solo la sua vita ma anche la sua morte, consumata davvero controcorrente.

In direzione “ostinata e contraria” mentre la massa si dirigeva al mare.

Un biglietto d’ingresso per il museo di Ostia antica fu trovato nei suoi abiti.

Mentre tutti andavano al mare, lui era stato ad ammirare ancora una volta il fascino incantato di edifici e di statue di un luogo che richiama le nostre radici, a respirare l’alito di una grandezza eterna e di una bellezza sempre viva.

Al ritorno si consumò la tragedia, contro corrente, contro il serpentone notturno di luci abbaglianti, di rumori cupi di ferraglia, di nevrotico movimento e di atroce insensibilità.

In stridente contrasto con ciò che lui aveva appena visto ed ammirato. 

Ciò che muoveva Romualdi non era solo fredda erudizione ma la riscoperta delle nostre radici, delle nostre sacralità. Il tutto finalizzato ad un accrescimento di una sensibilità europea ormai seppellita dai bombardamenti materiali e spirituali della seconda guerra mondiale.

Studi importanti che gli valsero, a poco più di 30 anni di età, l’incarico di assistente di ruolo in Storia contemporanea all’università di Palermo. 

I suoi studi non rimasero lettera morta ma si tramutarono per i suoi “contemporanei” in atti di trasmissione, in opere di indirizzo e di educazione.

Una preparazione non fine a se stessa, che rimane impressa in libri e in articoli brillanti. La sua è stata un’opera di divulgazione capace di suscitare interesse, mobilitare passioni, scuotere intelligenze ed aprire riflessioni profonde sui mali della modernità.


                                      OC


Pessoa, tra nostalgia ed esoterismo

Pessoa è stato un poeta dotato di una sensibilità fuori dal comune.

Fu un’anima dalla penetrante tristezza, quella tristezza tipicamente portoghese ma terribilmente attuale e moderna. Quella stessa tristezza che può cogliere quando si guarda il mare o l’oceano. Una tristezza che scruta l’oceano con la stessa meraviglia e disincanto che può avere chi scandaglia l’inattitudine e l’inabilità della vita.

Pessoa applica una specie di metafisica sensoriale nel suo approccio letterario che dispensa la malinconica bellezza della verità e della vita. Le pennellate dei suoi versi e dei suoi scritti sono come gocce d’ambrosia per l’individuo che vive in un mondo solitario, appunti sparsi come ossessioni, analisi della mente umana e dell’epoca in cui visse, cantore di amori impossibili ed utopici, illusori ed incomunicabili.

Pessoa fu un poeta che provò a vivere altre vite (i suoi innumerevoli pseudonimi ne sono una prova), immergendosi come nel sogno in un disagio del vivere. Un Io narrativo che oscilla tra finzione e realtà e che sfugge persino alla sua stessa analisi: “Il poeta è un fingitore”.

Il suo humus si muove in una perenne aura di nostalgia, tipica della sua terra e del tanto amato fado. La voce musicale che in modo perfetto può descrivere quelle sensazioni che si tramutano in pensiero ed in un muto destino. Tra Dei che non ci sono più ed anonimi eroi quotidiani che coltivano la nobiltà della rinuncia e dell’abdicazione delle faccende umane.

Così come esiste un Pessoa poeta esiste anche un Pessoa legato al mondo dell’occulto e dell’esoterismo, un Pessoa che scrive di politica ed aderisce idealmente ad una “reazione” verso il mondo moderno. Tipici afflati dei movimenti nati nei primi decenni del secolo scorso. Un Pessoa meno noto ma non meno importante, che trovava nella scienza occulta un percorso di guida verso la ricerca implacabile di trascendenza.

 «Credo nell'esistenza di mondi superiori al nostro e degli abitanti di quei mondi, in esperienze di vari gradi di spiritualità, che si assottigliano per raggiungere un Ente supremo, il quale ha presumibilmente creato questo mondo. Può darsi che ci siano altri Enti, ugualmente Supremi, creatori a loro volta di altri universi e che questi universi coesistano con il nostro, compenetrati o meno».

                           Prince Rupert

Il "Viaggio al termine della notte" di Louis-Ferdinand Céline

"È forse questo che si cerca nella vita, nient'altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi, prima di morire."

Louis Ferdinand Céline è stato un autore controverso, criticato, avversato ma anche riscoperto negli ultimi decenni. Questo rinnovato interesse per la figura di Céline da parte della critica, e non solo, nasce dalla riscoperta e dai giusti onori che bisogna tributare al suo scritto più famoso e celebrato: “Viaggio al termine della notte”.

L’opera centrale della sua produzione che come poche altre ha saputo capire, raccontare e rappresentare il XX° secolo illuminandone con provocante originalità gli aspetti fondamentali.

Lo scandalo della sua opera è la profetica e lucidità del suo delirio, uno sguardo che nulla perdona a sé e agli altri. Che guarda nella notte e l’affronta. Notte come momento cruciale e soprattutto stato ideale dell’uomo.

Céline era l’anarchico per eccellenza, che si definiva un cronista, con alle spalle il vissuto delle esperienze più drammatiche come la prima guerra mondiale combattuta nelle trincee delle Fiandre o quelle più goderecce dei locali, oppure le durezze e le privazioni nell’Africa coloniale non dissimili da quelle solitarie della tentacolare New York o della spersonalizzante Detroit. Senza dimenticare le periferie abbandonate e squallide di Parigi dove facendo il medico dei poveri ebbe modo di entrare in contatto con una miseria morale prima ancora che materiale.

Totalmente nuovo nel panorama francese ed anche europeo fu il suo approccio e la sua visione del mondo. Era il 1932 quando “Viaggio al termine della notte” venne pubblicato.  Il romanzo fu una bomba deflagrante che con metodo visionario, ma anche realistico. seppe unire e trasfigurare la materia incandescente della vita quotidiana. Inventò un linguaggio sofisticato che aveva però tutta l’immediatezza del parlato popolare. 

Céline è stato l’autore che, tra sarcasmo e pietà, diede voce e condensò la tragedia e la disperazione inevitabile del Novecento. Con punte di comicità tipica di quelle situazione estreme che inevitabilmente giungono a un punto di collasso. Un riso amaro, un sorriso liberatorio derivante da chi, compie un viaggio ed oltrepassa la notte dell’umanità, lo stadio finale di una modernità divorante.



                                               Prince Rupert

Rumore

Rumore, null'altro che rumore. Litanie di fedeli devoti alla propaganda, subdole ninnananne per conciliare il sonno, urla feroci di falsi litiganti, parole luccicanti per ricoprire il nulla di lustrini, per riempire il vuoto pneumatico di argomentazioni stantie e squallide menzogne.

Nel mentre, i nostri figli sono vittime della "scienza" e del "progresso", i nostri giovani hanno ipotecato il loro futuro in attesa di capire cosa vorrà da loro il mercato, ogni valore od ideale è ridicolizzato, bollato come volgare anticaglia, come retaggio di un polveroso passato che appare oramai troppo lontano, invisibile agli occhi, avulso dal cuore, intrappolato nella ragnatela di un tempo vile che fa del mercimonio senza soluzione di continuità il suo vessillo, del baratto tra essere e status sociale il suo stendardo.

Nessuno verrà a salvarci. Non ci sarà anima viva che ci solleverà dalle nostre responsabilità. Udire la voce della coscienza, tornare a pretendere chiarezza e verità a partire dalla quotidianità è, dunque, oltremodo essenziale. Sforzarsi, tra mille difficoltà, giorno dopo giorno, di comprendere quale sia la retta via da seguire, concentrarsi, arrivare al nocciolo, estrapolarne il midollo, tramutare le paure e le ansie in motivazioni: questo oggi è l'arduo compito a cui siamo chiamati. Nel comportamento, nell' agire con coerenza e concretezza, nel silenzio, nella riflessione che contrastano turpiloquio e vanità, s'intravedono le fiammelle che delineano la strada maestra. Per vivere, nonostante tutto, al meglio delle nostre possibilità, senza rimpianti, mentre tutt'intorno s'ode solo rumore. Null'altro che rumore.



Il percorso di Orwell

Il 25 giugno del 1903 nasceva George Orwell, uno degli autori più importanti di quel filone letterario erroneamente definito fantascientifico. 

Il saggista britannico è conosciuto soprattutto grazie alla sua opera più importante, quella che meglio sintetizza il suo pensiero e la sua visione del futuro: “1984”.  Un testo che racconta la società che, con le dovute proporzioni, stiamo vivendo oggi. Perché oggi? Perché si è giunti a quel percorso a cui porta inevitabilmente il totalitarismo democratico che appiattisce e bolla come superato, anacronistico o malvagio qualsiasi pensiero differente da quello imposto dall’alto e condiviso acriticamente dalle masse. Una società in cui il vero dibattito viene eliminato e reso possibile solo come sfogatoio personale.

La democrazia attuale genera una struttura identica a quella del Grande Fratello in cui la catena di comando prevede alcuni che definiscono le regole, valutano il comportamento dei sottoposti e sono in grado di punirli e giudicarli addirittura sulla sola base delle intenzioni. Ma non vale il viceversa: la gerarchia non è suscettibile di valutazione anche dal basso. 

Il pensiero di Orwell, nel suo famoso scritto è che la burocrazia (cosa mutuata da Kafka) e l’informazione, non sono altro che strumenti per inventare storie o distorcerne altre.

In questo punto emerge maggiormente l’attualità del percorso di Orwell, di una società che controlla continuamente se stessa (basta pensare solo al controllo dei gusti presi dalle ricerche di Google) in un continuo cerchio ripetitivo, con la coercizione subdola e silenziosa di modelli di pensiero e di normalità.

Si tratta di un modello di società che è assolutamente indipendente dalla forma di governo.

Non c’è alcuna differenza, se non nelle sfumature, tra un dittatore ed un politico democratico. Quest’ultimo è un soggetto che rimane al comando per decenni grazie a compromessi e ricatti.

La gerarchia diventa unilaterale, vincolante, coercitiva e arbitraria. Qualunque sia la forma di governo che un simile Stato decida di adottare.

Le tre parole usate da Orwell per descrivere quel mondo sono: “ignoranza, schiavitù e guerra”

E sono le tre condizioni imperturbabili della realtà umana, che sopravvivono a ogni generazione e si rigenerano in forme sempre più capillari e sofisticate.

Ignoranza, schiavitù e guerra sono tre parole per un’ unica categoria: il comando di poteri invisibili, che non vediamo ma sappiamo esistere perché la loro presenza è testimoniata dai loro effetti.

L’assenza dell'uso della forza trae in inganno, in realtà semplicemente non ce n'è bisogno, si vive ugualmente in una coercizione in cui vengono imposti modelli di comportamento, usanze, stili di vita.

Una Matrix bugiarda, ambigua, ambivalente, oscura, implacabile che molti non contestano perché appare pulita e sorridente, con “la camicia bianca e la cravatta blu” (come cantava Ferretti).

Ma quest’immagine rassicurante non è scevra dalla violenza che, anzi, viene usata in modo deciso quando non si è allineati. Una violenza sottile che magari non punisce ma spinge in un angolo. Quell’angolo lontano e solitario che emargina, demonizza. Come essere messi dietro la lavagna ai tempi della scuola. Quel luogo dove stanno i cattivi. E la solitudine fa paura. Ecco perché ci si piega e ci si impegna a non ragionare, a non pensare, a non studiare. Sono cose che non servono o se servono posso causare danni. Danni che è meglio evitare soprattutto per chi è debole e dipendente dall’altro e dal sistema.

Non c’è potere senza violenza è il messaggio di Orwell. L’uso della forza nei rapporti umani (“Arancia Meccanica” ) in cui la contrattazione delle prestazioni e dell’esistenza intera passa attraverso l’uso più o meno sofisticato della forza sulla volontà di un altro.

Ecco il grande insegnamento di Orwell, la lezione lanciata alle giovani generazioni ed a quelli che hanno gli occhi ben aperti.

Quanti sono in grado di capirlo?


                                          Prince Rupert

Strane alleanze: cattolicesimo e comunismo

Chi segue questo canale sa che fin da quando la cosiddetta area del dissenso ha cominciato a strutturarsi in piazze, movimenti e partiti, abbiamo segnalato la necessità di delimitare dei seri e credibili confini ideologici, nonché i rischi di una occasionale e disomogenea aggregazione basata esclusivamente sull'opposizione a situazioni particolari e contingenti e non su principi solidi e fondanti.

Ora che questa esigenza viene rumorosamente invocata a più voci, riproponiamo la questione a partire dai dati e dalle distinzioni più ovvi e scontati.
Non è possibile alcuna reale alleanza tra i difensori della democrazia e della costituzione, ossia coloro che vogliono mondare il sistema, e chi avanza istanze radicali di cambiamento, ossia chi il sistema lo critica alla radice in nome di ideali che per molti possono apparire utopici, ma che per qualcuno sono più reali della realtà mondana. In altre parole, non si può voler sanare e distruggere il sistema al medesimo tempo.
Allo stesso modo non è possibile alcuna reale alleanza tra cattolici e comunisti, laddove tali espressioni hanno ancora un significato reale e caratterizzante. Innanzitutto per il dato più banale e scontato: per i cattolici il primato del diritto spetta a Dio, mentre all'uomo solo di conseguenza; per i comunisti, invece, spetta alla società, la cui dialettica storica viene interpretata alla luce del modello ermeneutico della lotta di classe. Per i primi l'ordinamento sociale non può che essere gerarchico, anche nella sua espressione democratica; per i secondi, al contrario, vale un modello di società orizzontale ed egualitaria. La differenza non è dovuta a fattori contingenti ma sostanziali: al modello cattolico corrisponde una visione verticale e trascendente della realtà dove l'autorità proviene da Dio ed è affidata, fintanto che rimane fedele al mandato, a chi lo rappresenta in terra; a sostenere il comunismo è invece il materialismo storico, ossia una visione immanente in cui senso e valori sono in balia di forze puramente umane, temporali e sociali.
È l'idea di uomo ad essere radicalmente diversa, al punto da essere difficilmente conciliabile anche solo in superficie. Ad esempio, se apparentemente ci si può accordare su una presunta comune idea di dignità dell'uomo, basta soltanto confrontarsi su temi che mettono seriamente alla prova questa presunta comune idea – quali ad esempio eutanasia ed aborto – per veder crollare il castello di carta.

Proponiamo di partire da queste due distinzioni fondamentali per iniziare a delimitare i confini delle aree di appartenenza e per discriminare alleanze destinate prima o poi scontrarsi con identità ideologiche irriducibili.




Lucio Fulci, l'artigiano del cinema

Il regista nostrano Lucio Fulci per alcuni è stato solamente un discreto mestierante della settima arte, per altri un artista che portò lustro alla cinematografia italiana.

Il suo nome rimane tutt’oggi sconosciuto ai più (soprattutto a coloro convinti che il cinema sia nato ad Hollywood) ed il suo nome è legato principalmente a pellicole che hanno fatto la storia del thriller e dell’horror.

Venne definito “il poeta del macabro”, in effetti nei suoi film thriller/horror, generi che iniziò a frequentare con regolarità solo dalla fine degli anni ’60 (a partire dal conturbante “Uno sull’altra” con Marisa Mell protagonista), si fece strada quella sua propensione per le atmosfere non solo torbide ma anche appunto macabre. Se il film sopra menzionato è l’incipit da cui partire, fu dagli albori degli anni ’70 che Fulci seppe dare una virata decisiva ed un’impronta importante alle sue opere.

Egli non fu solamente un regista visionario ma fu anche abile nel raccontare storie perfette e/o allucinanti grazie alla sua prodigiosa tecnica cinematografica, a volte mortificata dall’assoluta modestia dei mezzi a disposizione.

Come non pensare alle antiche credenze e insradicabili pregiudizi all’interno di “Non si sevizia un paperino”? Con, sullo sfondo, una serie di omicidi di bambini, un ambiente arcaico e un insospettabile assassino. Oppure l’allucinante giallo “Una lucertola con la pelle di donna” con una eccezionale Florinda Bolkan, alla straordinaria sceneggiatura ad incastro di “Sette note in nero” (un puzzle con un tempo scandito alla perfezione) con risvolti psicanalitici sinistri ed inquietanti.

“Terrorista dei generi” venne definito Fulci ed infatti, prima della sua svolta horror, negli anni ’70, seppe deliziare con l’adattamento del romanzo di Jack London “Zanna Bianca”, per poi transitare dal western con “I quattro dell’Apocalisse” e con il poliziesco “Luca il contrabbandiere”. Due film apparentemente diversi ma accomunati da due scene di tortura che andranno ad anticipare la sua propensione al gore. In questi due film, con protagonisti due icone come Tomas Milian e Fabio Testi, ci fu la scoperta ed il lancio verso quella poetica del macabro che poi esplose negli anni successivi. A partire da “Zombi 2” che riprendeva la figura del morto vivente non più calata nell’ottica moderna ma ricondotta verso quel mondo antico ed arcano (la Giamaica) e ai riti voodoo (come dimenticare scene culto come l’occhio trafitto di Olga Karlatos). Gli zombi di Fulci, rispetto a quelli di Romero, sono morti e basta. Desiderosi di cibo e senza alcuna valenza sociologica.

Che dire poi di “Paura nella città dei morti viventi” (film di chiara impronta lovecraftiana), della trama esile ma visionaria de “L’aldilà”, delle critiche alla psicologia di “Quella villa accanto al cimitero”, un film in cui i vari protagonisti sono perfetti nei loro ruoli e funzionali ad una storia che strizza l’occhio al famoso “Giro di vite” di Henry James.

Infine “Lo squartatore di New York”, giallo iper violento e disturbante, accusato di misoginia (un’accusa spesso mossa a Fulci), inno alla solitudine di uomini persi in una metropoli che altro non è che una giungla in cui sopravvive solo il peccato.

Dalla metà degli anni ’80 sopraggiunse la malattia che lo portò a dirigere pellicole debolissime, fatte esclusivamente per scopi ecomomici. Ma di lui resta fondamentalmente altro. La sua maestria nella regia (certe sequenze non si dimenticheranno mai), la capacità di trasformarsi attraverso i generi e di ignorare le critiche mosse alle sue pellicole, definite in modo sprezzante dei banali B movie incentrati solo sullo splatter ed il gore.

Lucio Fulci, insieme a Bava, Margheriti e ad Argento, è stato il nostro miglior regista in ambito thriller/horror.


Prince Rupert

La demenzialità dell'antiberlusconismo

Non abbiamo mai trovato particolarmente interessante la figura di Berlusconi. Personaggio dalle tante sfaccettature che non stiamo ora qui a ripercorrere. Certamente è stato un valido rappresentante della destra liberista e finanziaria, in "opposizione" a quella "sinistra" che portava avanti le MEDESIME scelte politiche per l'Italia. Eppure nel Belpaese in questi anni non si è parlato d'altro, tutta la pseudo "intellighenzia sinistra” non ha fatto altro che indicare Berlusconi come il responsabile di tutti i problemi dell'Italia senza mai rendersi conto della sua scarsa rilevanza nelle scelte che contavano davvero. Si sono abbuffati di satira per tanti anni, ricordiamo per esempio la pessima Sabina Guzzanti che andava per le piazze a presentare spettacoli in cui raccontava di un Berlusconi responsabile della decadenza della cultura italiana. E come lei tanti altri ci hanno costruito sopra una carriera. Quanta ignoranza da parte di questi pseudo comici che hanno sempre nascosto il loro vuoto culturale dietro una finta satira di denuncia.

La verità è che l'antiberlusconismo è stato una delle tante illusioni di massa con cui il potere ha giocato. È bastato indicare alle folle il personaggio giusto contro cui scagliare la loro totale assenza di argomenti culturali, sociali ed economici. Et voilà. Mentre l'Italia affondava sotto i colpi delle élite che prendevano le reali decisioni, loro si dilettavano con l'antiberlusconismo credendosi intelligenti.

Due episodi d’esempio, ricordiamo quando Berlusconi paventò di modificare l'articolo 18. Sacrilegio, scesero tutti in piazza. Lo fece qualche anno dopo la "sinistra"? Silenzio generale. Per non parlare di quando masse di donne pilotate scesero in piazza con i cartelli "se non ora quando" a reazione dalle calunnie della stampa verso Berlusconi. Mica si resero conto che quelle accuse non servivano certo a denunciare il Cavaliere ma a far subentrare la pedina Monti, in quel momento più funzionale ai piani delle élite. Niente, non ci hanno capito mai nulla, ancora oggi sono convinti che Berlusconi sia stata la causa del decadimento politico, morale ed economico dell'Italia, non si accorgono che è semplicemente stato fumo negli occhi lanciato dal vero potere sulle masse ignare.

Diffidate di tutti coloro che hanno sposato l'antiberlusconismo come argomento, che negli anni ci hanno fatto satira finto colta mentre il vero potere agiva. Sono personaggi incapaci di qualsiasi lettura del reale, di visione a lungo raggio, non possiamo neppure chiamarli complici, semplicemente degli stolti.