Oggi più che mai piace raccontare la favoletta del libertinaggio come momento di leggerezza, degli incontri sessuali senza conseguenze, del contatto senza traccia.
È una menzogna.
Quando due corpi si uniscono, non sono solo epidermidi che si sfiorano. Sono abissi che si guardano. Sono storie che si compenetrano. Nell'intimità fisica si porta tutto ciò che si è: le umiliazioni, gli abbandoni, le speranze, le lacune dall'infanzia.
Una becera visione materialista vuole persuadere che si può entrare e uscire dai corpi altrui come da una stanza d'albergo. Prendi quello che ti serve, il piacere momentaneo della carne e poi dimentica. Non è cosí che funziona. Nessuno esce illeso da un incontro profondo perché l'altro non è mai solo un corpo. È un mondo con le sue crepe, i suoi deserti, le sue città sommerse. Quando si riduce qualcuno a strumento di piacere, si commette una forma di violenza ontologica negando la sua complessità, la sua storia, il suo essere più che carne. Sì diviene consumatori di superfici.
Non è una questione meramente morale. L'anima registra.
L'intimità è sempre un atto potente che ha delle conseguenze al proprio interno, anche quando nasce da un impulso, anche quando dura una notte sola.
Il proliferare delle cosiddette "patologie mentali", delle ansie, dell'uso di psicofarmaci, non è forse, uno dei motivi di questa frantumazione? Il risultato di aver assorbito troppi mondi senza mai digerirne nessuno?
Accumulare frammenti di intimità come fossero esperienze usa e getta non è mai innocuo.