Il capolavoro misconosciuto di Jim Jarmusch, "Dead Man" è una meditazione cinematografica sulla morte come processo di trasformazione ontologica.
William Blake, un contabile di Cleveland (Johnny Depp), intraprende un viaggio che è insieme geografico e metafisico, dalla civiltà industriale dell'Est americano verso l'Ovest selvaggio, territorio liminale dove le certezze della modernità si dissolvono.
La struttura narrativa del film richiama il Libro tibetano dei morti: Blake è già morto nel momento in cui il proiettile gli trapassa il corpo, ma non lo sa ancora. Il suo viaggio con Nobody (Gary Farmer), nativo americano che lo scambia per il poeta romantico inglese, diventa un bardo – quello stato intermedio tra morte e rinascita descritto nelle tradizioni orientali. Nobody è lo psicopompo, la guida che accompagna l'anima verso la sua trasformazione finale.
Jarmusch decostruisce il Western americano rivelando la violenza fondativa su cui si erge il mito della frontiera.
Il bianco e nero stridente, la colonna sonora ipnotica di Neil Young, i silenzi dilatati, tutto concorre a creare un'esperienza di straniamento heideggeriano. Blake viene strappato dal mondo del Das Man, dell'esistenza inautentica e anonima, e gettato nella radicale contingenza dell'essere-per-la-morte.
La metamorfosi di Blake da mite impiegato a fuorilegge non è degenerazione morale, egli scopre la violenza già inscritta nel tessuto della "civiltà", quella stessa che ha massacrato i popoli nativi.
Il vero "dead man" non è Blake, con la pallottola accanto al cuore, ma la società industriale morta nell'anima.