Guerra e medicina

 Il 2020 ci ha mostrato come guerra e medicina siano associabili, in chiave propagandistica, sia sotto il profilo dell'immaginario che di quello linguistico. Questo avviene perché, nel sistema tecnocratico e mondialista che si va costituendo, entrambe sono espressioni e prolungamenti della tecnica svolgenti funzioni affini in termini di affermazione politica e di controllo sociale. Un fatto ci sembra essere particolarmente indicativo della loro convergenza: il comune cambio di paradigma avvenuto nella seconda metà del '900, con l'affermazione del modello preventivo, tanto in guerra che in medicina. 

Guerra e medicina preventive sono di fatto sempre esistite, ma non sono mai state il modello o la prassi dominante nei due rispettivi ambiti. Con il modello della guerra al terrorismo, si è teorizzata la possibilità di aggressione indiscriminata, e senza necessità di puntuale giustificazione, verso qualunque entità si consideri un potenziale pericolo. La medicina preventiva, similmente, permette di legittimare qualsiasi intervento sanitario o farmacologico in funzione di un rischio possibile, anche in assenza di una diagnosi presente o perlomeno probabile. Entrambi i modelli consentono di dispiegare l'opzione bellica o sanitaria oltre qualsiasi perimetro in cui tradizionalmente erano confinate, semplicemente confezionando scenari ed ipotesi ad hoc utili al proprio scopo. In questo modo, i mercati potenziali in cui estendere il proprio business, reale o metaforico che sia, divengono potenzialmente infiniti; nel pacchetto è compresa pure la piena disponibilità del mercato più prezioso: quello interno. Il rischio di terrorismo o eversione, come quello di epidemia o crisi sanitaria, giustificano infatti la necessità di un perenne stato di mobilitazione e allerta rivolta all'interno dei propri confini. In questo modo il potere può giustificare tutti i dispositivi utili al controllo e alla previsione che ritiene opportuni, pervadendo e organizzando ogni ambito della vita sociale.

Guerra e medicina, insomma, sono destinate a divenire sempre più il braccio armato della tecnocrazia incombente.



La distruzione dell'individualità

Annientamento. Inconsapevolezza. Omologazione. Pensiero unico. Uguaglianza "funzionale". Questo è il mondo in cui viviamo.

In "Così parlò Zarathustra" Friedrich Nietzsche scrisse:

"(...)Una luce è spuntata in me: di compagni di viaggio ho bisogno, e viventi, non compagni morti e cadaveri che posso portare con me dove voglio. 

Di compagni vivi ho bisogno, che mi seguono perché vogliono seguire se stessi e proprio là dove voglio andare io.

Una luce è spuntata in me: non al popolo deve parlare Zarathustra bensì a compagni! Zarathustra non deve diventare pastore e cane di un gregge."

La distruzione dell'uomo passa inevitabilmente attraverso la distruzione dell' "individualità": è questo l'obiettivo di chi detiene le redini del nostro destino. Sotto il falso vessillo dell'uguaglianza a tutti i costi si cela la mascherina dell'essere umano odierno, automatico e senza capacità decisionale, inconsapevole, destrutturato nella sua essenza. Il potere oggi ci vuole cadaveri viventi, senza alcuna autorità neanche sul nostro corpo, svuotati di ogni ideale, distrutti e soli al di fuori del recinto ad hoc creato. Siamo perciò prigionieri che seguono un movimento sincronico, rituale, che saltellano al ritmo di una macabra danza, eseguendo ciecamente i dettami del pastore. Dobbiamo perciò scegliere, necessariamente, di viaggiare in direzione ostinata e contraria. Un'opposizione costruttiva, scevra da ogni condizionamento, che non sfoci nei due minuti di odio concessi da chi di dovere. Comunità, non gregge: questa è la chiave, dove le individualità vengono esaltate e si mettono al servizio della stessa. Tutto il resto è ginnastica d'obbedienza. È il lento ed ordinato defluire dell'essere umano nell'oscuro mare della massa senza volto. Un essere che vive in totale balia delle correnti annega senza accorgersene.

Rinuncia a sé stesso e si condanna, per comodità, all'oblio. Oggi più che mai, quindi, è tempo, di uomini, di unione d'intenti. Di condivisione e presa di coscienza della nostra condizione. Trovare questa forza è di primaria importanza.



Guerra ad Orwell

Una certa espressione del pensiero unico, quella più snob e sedicente colta, da una ventina d'anni sta cercando maldestramente, ma con determinazione e prepotenza, di assimilare autori o opere intellettuali assolutamente disomogenei al proprio orizzonte, in modo da rivendicare a sè tutto ciò che di buono lo spirito umano abbia prodotto nei secoli. Tale iniziativa sorge per rimediare, da una parte, a una radicata invidia causata dalla desolante miseria nel proprio repertorio culturale di esemplari di qualità, dall'altra perché alcuni autori o scritti sono realmente pericolosi in quanto capaci di portare critiche talmente fondate e radicali all'orizzonte condiviso da farne tremare le fondamenta. 

Un esempio su tutti: le recenti vicende editoriali che riguardano la nuova traduzione de "Il Signore degli Anelli" di Tolkien, esigenza nata dichiaratamente per sottrarre l'opera del professore di Oxford all'egemonia storica dell'ermeneutica di destra - fenomeno che si ritiene tipicamente italiano - e, resa docile, portarla nel recinto domestico dei buoni, bravi e frequentabili. Per i neoliberali è intollerabile che un autore di tale portata e di una reputazione non oscurabile, possa essere pietra di scandalo del proprio modello, e così lo si è sequestrato e ortopedicizzato, con l'intenzione di premasticarlo e predigerirlo in modo da farne un omogeneizzato privo di veleni (o di principi attivi) per le masse.

Recentemente tentativi analoghi si stanno facendo per "1984" di Orwell, il romanzo più citato nel ciclo pandemico, sebbene a parer nostro non il più pertinente. Più che per uno smascheramento del totalitarismo coatto in via di costituzione - a questo si presta decisamente meglio la descrizione dell'incubo tecnocratico di Huxley - "1984" è utile come guida/modello di resistenza etica ed eroica del singolo di fronte allo strapotere dell'apparato statale. Non conta che l'intento sia destinata a fallire: ciò che conta è il messaggio che si è uomini fintanto che vi è volontà di esserlo, e che si può combattere anche un nemico a cui si sa si soccomberà, solo perché è giusto farlo. Indica anche dei modi e dei tempi per farlo: amore e passione contro oppressione e controllo, riappropriazione del tempo dalla sua occupazione obbligata, esercizio costante di senso critico e libertà di pensiero, solidarietà e alleanza del simile con il simile.

" Il web disattiva l'hashtag 1984" si legge in questi giorni.

Ecco che anche Orwell è diventato un pericolo, dopo che lo si è compreso come inassimilabile: non c'è modo di ridurre un'opera che è sostanzialmente un inno all'anarchia morale e responsabile a un coadiuvante di statalismo, tecnocrazia e propaganda. Se non si può assimilare, lo si può espellere, tentare di far sì che la gente lo scordi, o non ne parli. "L'ultimo uomo in Europa", così era in origine il titolo che Orwell voleva dargli, è oggi un potenziale manifesto generazionale, a settant'anni da quando fu scritto, proprio perché è ora che la possibilità della scomparsa dell'uomo si sta manifestando, a fronte delle turbe dell'inumano. Ecco perché i social, cani da guardia del sistema, dichiarano guerra ad Orwell. A tutti gli Orwell. All'Orwell che abita dentro di noi.



Etica e principi democratici

Nei prossimi tempi sarà sempre più necessario ricordare che quando qualcuno vi dice che la democrazia è un sistema etico, che si basa su valori civici condivisi e pertanto desidera il "bene" della società, e che tra le forme di governo essa rappresenta con ogni probabilità il "male" minore e pertanto il più desiderabile, ecco, quella persona o mente, o non si è mai interrogata a fondo su cosa sia realmente la democrazia.

La democrazia, infatti, è un sistema di governo: non è una metafisica, una morale o una visione del mondo. Nessuno è mai morto per un apparato burocratico o un manuale di procedure elettorali; semmai per dei valori che credeva sacrosanti e più importanti della vita al punto di sacrificarvela. La democrazia, invece, non si è mai occupata di questioni di ordine assiologico, pertanto quei valori, condivisibili o meno, e che qualcuno ritiene essere la quintessenza democratica, non la impegnano in alcun modo, né tantomeno le è mai interessato difenderli (semmai sono state delle persone concrete a farlo, non certo il sistema stesso).

Da questo possiamo dedurre due cose.

La prima è che non necessariamente i valori che si ritengono "democratici" sono sostenuti e incarnati in un sistema democratico: esso può invece dare forma e sorreggere un ordine basato sulla disuguaglianza sociale ed economica e sul perpetrarsi del governo di elites, che sebbene contraddica i presupposti che gli si attribuiscono, tuttavia ne rispetta le regole e le garanzie formali.

La seconda è che, appellandosi al consenso e con mezzi assolutamente leciti, è possibile trasformare in senso autoritario un sistema democratico senza che questo cessi di essere formalmente tale e senza che sia possibile stabilire una netta demarcazione tra autoritarismo, legalità e rappresentatività.

Consigliamo di tenere presente questi ultimi aspetti: in base al primo un governo dispotico può rivendicare la propria legittimità all'interno di un sistema democratico violandone sistematicamente i principi senza poter essere delegittimato dal sistema stesso; in base al secondo può erodere progressivamente i meccanismi di controllo ed equilibrio della democrazia al punto da far scivolare quest'ordine in una forma post-democratica o autoritaria.