John Calhoun , Universo 25

I celebri esperimenti di John Calhoun sui topi e sui ratti mostrarono una società che, quando godeva di risorse illimitate, sprofondava lentamente nel caos e nell’alienazione a causa dell’eccessiva densità e della disgregazione dei legami sociali.

Molto interessante notare il legame tra sovraffollamento e l’isolamento emotivo. Nel suo “Universo 25”, i topi avevano acqua, cibo e comfort. Ma l'aumento di soggetti negli stessi spazi portò pian piano ad apatia, perdita delle relazioni tra individui, disinteresse per la procreazione e infine estinzione. Calhoun sosteneva che sia nei roditori sia negli esseri umani esiste una soglia massima di interazioni significative che si possono gestire; superarla genera effetti negativi sulla coesione collettiva. Leggendolo vengono in mente le città ultramoderne. Si può difatti fare un parallelo con il crescente isolamento nelle metropoli, la densità urbana e la perdita delle reti di vicinato che facilitano fenomeni simili a quella che lui chiamava "behavioral sink", ovvero apatia civica, crisi identitaria, ritiro sociale, comportamenti sessuali anomali, trascuratezza della prole e aumento di problemi di salute mentale.

In questo scenario vi era un declino delle nascite e perdita di scopo. Non è forse vero che in molte società avanzate il tasso di natalità crolla? Non solo per ragioni economiche, ma anche perché, come nei topi di Calhoun, la perdita di relazioni significative e di senso del futuro paralizza la volontà di procreare e costruire. Da un lato, grandi città e reti sociali virtuali colmano di “presenze”, dall'altro svuotano di senso le relazioni.

Calhoun avvertí che ambienti costruiti senza attenzione ai limiti della socialità, spingono una società nel baratro della “behavioral sink”. Egli sosteneva bisognasse ripensare le città, i ritmi quotidiani e le relazioni umane.

Chiaramente gli esseri umani hanno capacità cognitive e sociali molto più complesse dei topi, i fattori che influenzano natalità e benessere nelle nostre società sono molto più articolati di quelli osservati nei topi, ciononostante, gli esperimenti di Calhoun rimangono uno strumento interpretativo interessante per riflettere su come la densità abitativa e la struttura sociale possano influenzare i comportamenti collettivi anche nelle grandi concentrazioni urbane contemporanee.



Cosa significa "fare carriera?"

Cosa significa realmente "scegliere la carriera"? 

La "carriera", nella sua accezione moderna, rappresenta una delle più sottili forme di controllo sociale che il capitalismo contemporaneo abbia mai concepito. Non è affatto il naturale sviluppo delle proprie competenze e passioni, ma un concetto sempre più relativo. È una scala di Giacobbe secolarizzata, dove il paradiso promesso non si sa bene dove sia.

Mentre si "costruisce la carriera" si fanno rinunce, si accettano compromessi a discapito della propria autenticità, si sacrificano parti di se stessi sull'altare dell'avanzamento professionale, si indossano maschere quotidiane, si adottano comportamenti che non ci appartengono.

Nel percorso verso il “successo professionale”, si trascurano gli affetti più cari, molti rinunciano a costruirsi una famiglia, a mettere al mondo dei figli, convinti che questo possa compromettere la “scalata professionale”.

Poi una volta raggiunta questa fatidica ricchezza materiale, essa si rivela insufficiente a colmare il vuoto lasciato da ciò che si è sacrificato. Ci si sveglia un giorno dal torpore, ma è tardi. Si prende consapevolezza che la corsa verso l'autorealizzazione professionale ci ha solo reso ingranaggi perfetti al servizio di ricche multinazionali. Le energie migliori, gli anni più creativi, le intuizioni più brillanti sono state regalate a organizzazioni che vedono le persone solo come numeri su un foglio di calcolo.

La "carriera" è il loro profitto, l’ ambizione il loro carburante. Mentre le persone inseguono il riconoscimento e la gratificazione personale, loro accumulano ricchezza e potere utilizzando la fame di successo come leva.

È importante però distinguere tra l'ambizione professionale genuina e il concetto distorto di carriera qui descritto. L'ambizione sana nasce dalla passione autentica per il proprio lavoro, dal desiderio di contribuire al mondo attraverso le proprie competenze e dalla volontà di crescere senza perdere di vista ciò che realmente conta. Chi coltiva un'ambizione sana mantiene l'equilibrio tra professione e vita personale. Non sacrifica le relazioni più care sull'altare del successo, ma cerca di integrarle armoniosamente nel proprio percorso. Questa persona lavora per realizzare i propri valori attraverso la professione non per conformarsi. L'ambizione autentica si distingue dalla carriera alienante perché nasce da una vocazione interiore, mantiene la coerenza con i propri principi, considera il benessere collettivo oltre al proprio tornaconto personale e preserva spazi per la la contemplazione e l'affettività. Chi persegue un'ambizione sana dice di no a opportunità che contraddicono i propri valori, anche se economicamente vantaggiose. Sa riconoscere quando il prezzo del successo diventa troppo alto in termini umani. Soprattutto, comprende che la vera realizzazione professionale non può mai essere disgiunta dalla realizzazione come persona.

Il problema non è quindi l'ambizione in sé, ma la sua distorsione in un sistema che premia l'arrivismo a discapito dell'autenticità, la competizione spietata invece della collaborazione.

Questo generico “fare carriera” fa molto comodo a chi sta in alto.

In realtà il vero percorso di ognuno dovrebbe essere in primis quello di mantenere la propria autenticità, di rimanere fedeli a se stessi, coltivando relazioni significative non fondate su tornaconti personali e contribuendo sinceramente al benessere collettivo.

"Maturità", consapevolezza o fuga?

Oggi fanno clamore dei giovani che, già promossi, rifiutano l'orale di maturità. Bisogna capire bene quali sono le argomentazioni che portano.

C'era una volta Julius Evola che iscritto alla facoltà di ingegneria dell'università di Roma, completò il corso di studi ma senza conseguire la laurea. Motivi? "Disprezzo del titolo". Evola aveva completato gli studi tecnici e matematici, ma decise di non sostenere la discussione della tesi finale per conseguire formalmente la laurea. Non voleva essere associato a titoli accademici come "dottore" e "ingegnere". Una scelta che rifletteva la sua ribellione giovanile contro i valori borghesi e convenzionali della società del tempo. Evola vedeva il titolo accademico come un simbolo di conformismo sociale che contrastava con la sua ricerca di una via spirituale e intellettuale alternativa. La mancanza della laurea, ovviamente, non impedì a Evola di diventare un prolifico scrittore e filosofo, pubblicando numerose opere di grande spessore.

Tornando ai nostri giorni, quello di questi ragazzi è un atto di resistenza contro un sistema in cui l'esame di maturità è una pantomima burocratica? Dove un ragazzo che ha letto centinaia di libri per passione rischia di prendere un voto peggiore di chi ha memorizzato i riassunti giusti da chatgpt? Si ribellano contro l'idea che la scuola debba essere principalmente un tirocinio per la sottomissione, un addestramento alla rassegnazione? Hanno capito che quella che viene spacciata per "preparazione alla vita" è in realtà una preparazione alla rinuncia, un allenamento sistematico a non fare domande scomode, a non mettere in discussione l'autorità, a non cercare strade alternative? Non vogliono essere complici di un meccanismo che trasforma l'apprendimento in una gara, la conoscenza in merce di scambio, la crescita intellettuale in accumulo di crediti formativi? Si schierano contro insegnanti ottusi che spesso scelgono di ricoprire quel ruolo unicamente per la pagnotta a fine mese spendendo solo poche ore al giorno sparando lezioncine confezionate nel programma statale, attingendo da un sommario di propaganda calato dall’alto?

Se queste sono le motivazioni, massimo supporto.

Se invece si tratta di fragilità emotive e generici discorsi di desiderio di “essere compresi”, scambiando la scuola per un percorso terapeutico, allora è solo una fuga dalle proprie responsabilità, un non saper affrontare a testa alta il sistema, anche se lo si contesta.


"Il Sole Nudo" di Isaac Asimov

Nel 1957, Isaac Asimov pubblicava "Il Sole Nudo", secondo capitolo del ciclo dei Robot. Un testo poco noto in cui viene immaginata una società, il pianeta Solaria, con gli abitanti terrorizzati dal contatto fisico e confinati nelle loro dimore. Questi solariani vivono in un mondo dove il contatto fisico è tabù, dove ogni interazione avviene attraverso la "visione" (ologrammi tridimensionali) e dove la "presenza" reale è ormai considerata volgare e pericolosa. 

Asimov non si limitava a immaginare l'isolamento fisico. Descriveva una società dove la tecnologia aveva creato una dipendenza totale: i solariani non riuscivano più a concepire l'esistenza senza i loro robot e le loro protezioni tecnologiche. 

La società di Solaria era nata dal desiderio di "sicurezza": eliminare malattie, conflitti, disagi emotivi. Ma questo paradiso sterile condusse all'atrofia dell'umanità stessa. I solariani erano diventati incapaci di emozioni genuine, di creatività, di crescita personale. 

Ma un in mondo dove i bambini giocano più con i tablet che all'aperto, dove le relazioni nascono e muoiono sui social media, dove per molti il mondo digitale è diventato più confortevole di quello reale, dove gli smartphone sono diventati estensioni del corpo e l'intelligenza artificiale prende decisioni al posto nostro, cosa ci fa pensare che lo scenario descritto da Asimov sia qualcosa che vada oltre la fantascienza? I solariani con i loro robot delegavano sempre più aspetti della loro vita alla tecnologia e atrofizzavano man mano le loro competenze, ma, ehi, cosa ci fa credere che stiamo lentamente scivolando verso Solaria? Suvvia è solo fantascienza di un visionario. 

Ne "Il Sole Nudo" Asimov suggeriva che in futuro il progresso tecnologico avrebbe trasformato i nostri strumenti di liberazione in catene invisibili. Che ingenuo questo Asimov.




"Sport" e ipocrisia

“Lo avrei fatto anche io, non siamo ipocriti!”

Quanto volte abbiamo sentito questa frase di fonte ad una notizia in cui un calciatore sceglie di accettare offerte in cui triplica il suo stipendio? Come se si stesse parlando di un lavoratore qualsiasi.

Signori, quando un calciatore guadagna già 4 milioni all'anno, il salto a 12 milioni rappresenta davvero un cambiamento di vita? O è piuttosto la manifestazione di un'avidità che ha perso ogni misura? Il paragone con l'operaio è fuorviante e quasi offensivo. L'operaio che passa da 1000 a 3000 euro cambia realmente la sua esistenza: può permettersi una casa migliore, le vacanze per i figli, la sicurezza economica per la famiglia. Ma quando si è già multimilionari, l'ulteriore accumulo di ricchezza diventa un gioco di numeri astratti, cifre su un conto corrente che non modificano sostanzialmente la qualità della vita.

Quello a cui stiamo assistendo è l'erosione sistematica di valori che una volta definivano lo sport: l'ambizione competitiva, la ricerca dell'eccellenza, il desiderio di misurarsi con i migliori. Il calcio saudita, rimane un campionato di second'ordine rispetto alle grandi leghe europee. Un giovane talento che sceglie Riyadh invece di Manchester, Milano o Madrid sta rinunciando alla possibilità di scrivere la storia del calcio, di vincere coppe, di giocare Mondiali da protagonista con una nazionale competitiva alimentata da un campionato di livello.

Vogliamo poi parlare dell'accettazione di contesti autoritari? Proprio da quell’Occidente che fa quotidianamente retorica sui “diritti”? Quando un calciatore sceglie l'Arabia Saudita, non sta solo prendendo una decisione economica - sta implicitamente avallando un sistema dove i diritti umani, specialmente quelli delle donne, sono sistematicamente violati. Le mogli e le figlie di questi calciatori si trovano a vivere in un paese dove non possono guidare liberamente, dove devono coprirsi, dove la loro libertà è limitata. È questo il prezzo che si è disposti a pagare per qualche milione in più?  I grandi valori degli occidentali.

Quando un ventenne sceglie il denaro facile dell'Arabia invece della sfida europea, che messaggio trasmette, che esempio dà alle nuove generazioni? Che l'ambizione sportiva è meno importante del conto in banca. Che i valori si possono vendere al miglior offerente.

Questa deriva del calcio è solo lo specchio di una società dove tutto ha un prezzo e niente ha un valore. Dove il successo si misura esclusivamente in termini monetari e dove la ricerca del profitto giustifica qualsiasi compromesso etico.

Il calcio ha sempre avuto una componente economica, ma quando questa diventa l'unica bussola, si perde l'essenza stessa della competizione sportiva. Possiamo ancora chiamarlo sport quando le decisioni sono dettate esclusivamente da logiche finanziarie?  

"Funzionari" della tecnica

Quando Martin Heidegger scriveva "La questione della tecnica" nel 1954, non immaginava smartphone, intelligenza artificiale o social media. Eppure, le sue riflessioni descrivono con precisione questi tempi.

Heidegger introdusse il concetto di Gestell (impianto, dispositivo) per descrivere l'essenza della tecnica moderna: non è uno strumento neutro, ma un modo di rivelare il mondo che trasforma tutto in "fondo disponibile" (Bestand).

Oggi, questa logica ci pervade. I social media trasformano le relazioni in metriche (like, follower, condivisioni), le piattaforme ottimizzano i desideri in algoritmi, e noi stessi diventiamo "risorse umane" da massimizzare.

La realtà non esiste più come tale, ma solo come informazione da estrarre e utilizzare.

Heidegger avvertì che l'uomo rischiava di diventare il "funzionario" della tecnica anziché il suo padrone. Non è forse quello che accade quando si controllano compulsivamente le notifiche o si scorrono i reel? O quando i ritmi biologici si adattano agli schermi, quando le decisioni vengono delegate agli algoritmi di raccomandazione?

La tecnica non ci sta servendo: siamo noi a servirla.

C’ è bisogno di prendere consapevolezza e riscoprire momenti di "presenza" non mediata da dispositivi, coltivare il pensiero critico oltre l'immediatezza digitale. Ma la domanda a questo punto è, si è in grado di pensare la tecnologia senza essere pensati da essa? 

Sanitari senza vocazione

C'è qualcosa di profondamente sbagliato quando chi detiene la vita altrui nelle proprie mani si comporta come se stesse svolgendo il più banale dei lavori.

Ci è capitato molte volte di assistere a scene incresciose: infermieri che giocano con lo smartphone mentre in sala d'attesa ci sono persone che soffrono, OSS scorbutici, ostetriche che chiacchierano di gossip da condominio mentre stanno assistendo al miracolo di una nascita, medici che sembrano annoiati dalla presenza del paziente che hanno di fronte.

Cari soggetti che lavorate nella sanità, i vostri non sono mestieri qualunque. Sono professioni che toccano i momenti più delicati dell'esistenza umana: la nascita, la malattia, la paura, il dolore, la speranza. Eppure spesso, chi le esercita sembra non conoscere il peso di quello che fa.

Non parliamo di competenze tecniche, ma della consapevolezza del proprio ruolo, del rispetto per chi si affida alle tue cure, della comprensione di essere tutto in un determinato momento per quella persona.

Una volta entrati nell’ingranaggio tanti professionisti perdono il senso del loro ruolo, far nascere un bambino o stare in linea ad avvitare bulloni diventa la stessa cosa. Quando un'ostetrica discute delle beghe condominiali con le colleghe mentre sta aiutando una donna a mettere al mondo suo figlio, sta profanando uno dei momenti più sacri dell'esperienza umana, sta trasformando un miracolo in routine, un momento unico in un episodio qualunque della sua giornata lavorativa. Lo stesso vale per l'infermiere che controlla i social mentre in corsia ci sono persone che hanno paura, che soffrono, che aspettano una parola di conforto. Tale comportamento tradisce non solo i pazienti ma anche la nobiltà stessa della professione che ha scelto.

La verità è che un tempo queste professioni erano considerate vocazioni, oggi sono solo un modo di guadagnarsi da vivere e avere uno stipendio sicuro, non una chiamata a servire gli altri nei momenti più vulnerabili della loro esistenza.

Chi lavora in questi ambiti dovrebbe sapere meglio di chiunque altro quanto contino i dettagli per chi sta male, quanto sia importante ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo.

Lavorare nella sanità ha un significato che va oltre il salario a fine mese. Chi sceglie di occuparsi della vita degli altri ha una grande responsabilità, perché quando si ha a che fare con la vita, la sofferenza e la speranza delle persone, non si può mai essere "solo" al lavoro.

Un tempo c'era una dimensione quasi spirituale nel prendersi cura di chi soffre, nell'accompagnare chi nasce o chi muore. Oggi tutto è ridotto a protocolli, turni, stipendi. La persona è diventata un "caso", il dolore una "sintomatologia", la nascita una "procedura". Dalle università e dalle scuole di formazione escono perlopiù burattini gelidi fatti con lo stampino. La tecnica ha preso ormai il sopravvento completo sull’umano.  


Dal nichilismo alla trascendenza: il black metal come fenomeno spirituale

"Dal nichilismo alla trascendenza: il black metal come fenomeno spirituale", Edizioni WI

Un saggio che va oltre la superficie per esplorare l'anima di un movimento rivoluzionario, erroneamente scambiato dai più per una mera espressione di ribellione adolescenziale e di immaturità protratta.

Non è l'ennesimo libro sul metal estremo. È uno studio profondo su cosa significa tale fenomeno culturale nel nostro tempo, sulla sua funzione di specchio implacabile delle contraddizioni contemporanee.

Perché dedicare un saggio a questo argomento? Perché riteniamo il black metal uno specchio fedele delle contraddizioni della nostra epoca: il desiderio di trascendenza in un mondo immanente, la tensione verso l'assoluto in un contesto relativistico.

Il movimento è una forma di diagnosi culturale: attraverso le sue molteplici e contraddittorie manifestazioni, rivela i sintomi di una civiltà che ha perso i propri riferimenti spirituali ma non ha ancora trovato alternative convincenti. È proprio questa instabilità, questa ricerca perpetua e mai conclusa, a renderlo degno di una analisi approfondita.

 

Il testo si rivolge non solo a chi ha vissuto la scena dall'interno, assistendo alle sue metamorfosi, ma anche a chi vuole comprendere un fenomeno culturale che ha attraversato gli ultimi trent'anni senza accontentarsi delle interpretazioni convenzionali. Dietro quel muro di suono e quell' estetica apparentemente impenetrabile si nasconde una riflessione esistenziale che merita di essere esplorata senza pregiudizi. "Dal nichilismo alla trascendenza" è un libro pensato per chi sa guardare oltre le apparenze e riconoscere che anche dalle espressioni più estreme dell'arte possono emergere domande universali e, talvolta, risposte inaspettate. Spesso è proprio dai margini che si comprende meglio il centro.

INDICE

Introduzione

1 - Le origini del black metal

• Un fenomeno culturale

• Cronologia storica del black metal

2 - Sociologia del fenomeno

• Il rifiuto del cristianesimo sociale

• Il ruolo dell' élitarismo

• L’anti-commercialismo

• L'impatto sulla cultura contemporanea

3 - Tematiche e simbolismo

• Le diverse direzioni prese dal movimento

• La nascita del dungeon synth

• Dal satanismo al paganesimo

• L'influenza di Tolkien e la sua reinterpretazione

• Il paradosso apparente: il “christian black metal”

• Il concetto di "purezza" e "verità" nel black metal

• L'estetica guerriera e la metafora bellica

4 - La dimensione spirituale

• La paradossale ricerca del sacro attraverso la dissacrazione

• Il black metal come movimento neospiritualista

• La Via Negativa

5 - Una riflessione critica

• Il black metal come pharmakon: medicina o veleno?

• L’eredità spirituale e letteraria

Conclusione

Appendice – Discografia

200 pagine

Il libro è disponibile fisicamente e online presso:

• Pagan Moon, Via Gaudenzio Ferrari 2, Torino. (Info@paganmoon.eu)

• Libreria Europa, Via Tunisi 3/A, Roma. (https://www.libridelbardo.com/politica-e-societa/2534-dal-nichilismo-alla-trascendenza.html)

• Passaggio al Bosco, Via Borromeo 48, San Casciano V.P. – Firenze. (https://www.passaggioalbosco.it/autori/weltanschauung-italia/)

• Su Amazon (https://www.amazon.it/Dal-nichilismo-alla-trascendenza-spirituale/dp/B0FF35VS8Z)

• Scrivendo a weltanschauungdb@gmail.com

L' "evoluzione" di Puffetta

Casualmente ci capita di guardare con dei bimbi una puntata dei Puffi, la versione recente del 2021. Subito ci salta all’occhio il personaggio di Puffetta.

Nei cartoni animati degli anni ‘60 il suo personaggio era stato creato per sedurre i puffi maschi, era definita dalla sua bellezza e femminilità ed era spesso oggetto di contesa tra i personaggi maschili.

Negli anni '80 e '90, Puffetta sviluppa una personalità più articolata, ma rimane comunque relegata in ruoli tradizionalmente femminili: la premurosa, la pacificatrice, quella che si occupa degli aspetti "domestici" del villaggio.

Arriviamo alla nuova serie, Puffetta versione 4.0, un personaggio totalmente ribaltato, diventa la leader del gruppo, insegna ogni cosa ai maschietti incapaci, è la guida in ogni situazione difficile, prende decisioni autonome e guida le missioni dei maschi tonti. Non ha più bisogno di essere "salvata" dagli altri come in passato, ora è esattamente il contrario. Non più fragile ma guerriera, è maestra d'arti marziali, insegna tecniche di combattimento ai Puffi maschi, è forte fisicamente, ha abilità fisiche superiori, è coraggiosa e affronta i pericoli in prima linea.

In generale la nuova puffetta eccelle in campi tradizionalmente "maschili".

Ehi ma i bambini di oggi hanno bisogno di crescere con modelli di genere più fluidi, avete capito?

Il ribaltamento dell’ennesimo personaggio dei cartoni non dimostra semplicemente un adattamento ai “cambiamenti della società” ma mostra ancora una volta come i media siano potenti strumenti di cambiamento sociale agendo proprio sui bambini.



Ipermedicalizzazione, voci profetiche del Novecento

 "La salute non è un bene che si possiede, ma un modo di essere nel mondo" (Gadamer)

Il noto filosofo del XX secolo Hans-Georg Gadamer, fece grandi riflessioni sul concetto di salute in un mondo dominato dalla medicina tecno-scientifica. Egli criticò l'approccio puramente tecnico della medicina moderna, che tende a ridurre l'essere umano a un insieme di meccanismi, a focalizzarsi sulla malattia piuttosto che sulla persona ignorando la dimensione esistenziale. Per Gadamer il medico deve saper "ascoltare" non solo i sintomi, ma la storia, il vissuto, l'esperienza del paziente. Ogni sintomo va "interpretato" nel contesto della vita del paziente e la guarigione passa attraverso la comprensione poiché il corpo "parla" un linguaggio che richiede ascolto e interpretazione.

Le riflessioni di Gadamer trovano eco nel pensiero di Ivan Illich, che negli stessi anni sviluppa una critica ancora più radicale al sistema medico industriale. Nel suo "Nemesi medica" (1976), Illich denuncia la medicina moderna che, a suo dire, aveva sottratto alle persone la capacità di prendersi cura di sé, trasformando la salute da competenza personale e comunitaria a monopolio professionale.

Nel Novecento anche Michel Foucault fa notare come la medicina moderna eserciti un controllo disciplinare sui corpi, mentre Thomas Szasz denuncia la "medicalizzazione" dei problemi esistenziali. Georges Canguilhem riflette sul concetto di "normalità" in medicina, sostenendo che ogni individuo ha la propria norma vitale e Viktor Frankl, psichiatra e filosofo, sottolinea come la ricerca di senso sia fondamentale per la guarigione.

Tutti questi autori vanno ripresi, leggerli in epoca di ipermedicalizzazione e tecnologia avanzata, ci ricorda che la vera medicina deve essere olistica poiché coinvolge corpo, mente e spirito. Deve essere relazionale e legata al senso e al significato della vita.  Le loro analisi ci ricordano che la salute rimane, fondamentalmente, una questione profondamente umana.

La stampella New Age

I più acuti avranno notato come, ormai da decenni, concetti spirituali orientali vengano selettivamente adottati e reinterpretati per servire logiche economiche dominanti.

Per esempio il concetto di impermanenza (anicca nel buddhismo) o di flusso continuo (nel taoismo) non sono più inerenti alla comprensione della natura transitoria dell'esistenza. Nella loro trasposizione occidentale, attraverso la New Age, vengono ridotti a una giustificazione dell'instabilità lavorativa: "abbraccia il cambiamento", "sii flessibile", "reinventati continuamente". La distorsione è evidente: mentre nelle tradizioni originali l'impermanenza porta alla liberazione dall'attaccamento e alla compassione universale, nella versione neoliberale diventa un imperativo di adattamento alle esigenze del mercato del lavoro.

Oppure, l'enfasi sulla responsabilità individuale ("sei tu che crei la tua realtà") devia l'attenzione dalle strutture sistemiche di potere. Se il lavoratore precario non riesce a "manifestare" stabilità economica, il problema è solo la sua "vibrazione" o la sua mentalità.

La meditazione? Viene proposta come soluzione allo stress lavorativo invece che come strumento per questionare le condizioni che generano quello stress.

Ovviamente coloro che promuovono questa filosofia del "cambiamento continuo" per i lavoratori sono gli stessi che costruiscono imperi dinastici, accumuli patrimoniali e reti di potere estremamente stabili. La precarietà è per gli altri, la stabilità per sé. Le grandi corporation tecnologiche, ad esempio, utilizzano retoriche buddhiste negli ambienti lavorativi mentre implementano strategie di monopolizzazione che contraddicono qualsiasi principio di non-attaccamento o equanimità. La spiritualità autentica dovrebbe includere la critica sociale e la solidarietà collettiva.

Le tradizioni orientali contenevano forti elementi di giustizia sociale: il concetto di karma include la responsabilità verso la comunità, il buddhismo primitivo era egualitario, il taoismo criticava l'artificiosità delle gerarchie sociali. In conclusione la liberazione individuale e quella collettiva sono interconnesse - proprio come insegnano le filosofie orientali nella loro forma integrale, non in quella addomesticata messa in circolo dai padroni.



Accettazione e rassegnazione

La passiva accettazione di fronte a ciò che accade è un atteggiamento ormai normalizzato e sovente accompagnato da frasi di circostanza che sembrano voler giustificare un certo stato di cose. L’impossibilità ad agire, l’avere “le mani legate” ed essere costretti ad adeguarsi alle situazioni se non, addirittura, ad obbedire, sono la via preferita dalla maggior parte delle persone. Un tempo, individui di tal fatta erano definiti ‘ignavi’. Non prendere una posizione, vieppiù in circostanze che richiedevano uno schieramento netto, veniva biasimato e presumibilmente la meta nell’aldilà sarebbe stato l’Antinferno.

Oggi capita raramente sentire qualcuno dissentire rispetto alla maggioranza, prevalgono silenzio e accettazione e quando questi ultimi si estendono su vasta scala producono l’effetto ‘spirale del silenzio’. La maggioranza diventa tiranna e riduce al silenzio chi possiede un’opinione diversa e minoritaria.

I pavidi, gli inetti e gli ignavi si adeguano sempre volentieri, senza porsi troppe domande e lasciando che il tempo languisca e la vita scorra. L’accettazione si trasforma in rassegnazione e si diventa arrendevoli e incapaci di agire. Il risultato, talvolta ancor più tragico, è che gli ignavi riescano ad ottenere ruoli di potere. L’incapacità decisionale associata all’inettitudine diventa rovinosa e trascina con sé, con una forza inaspettata, persino gli spiriti critici. Ribellarsi, controbattere, obiettare, comportano spessore argomentativo e audacia di cui dispongono in pochi, tuttavia per quei pochi dovrebbe essere vissuta come uno stile di vita. 


AM