Spiritualità "New Age"

Certo che ne circolano di personaggi bizzarri.

Ieri ci è capitato di ascoltare qualche minuto di un soggetto che vende "corsi spirituali", costui ad un certo punto esclamava: "perché le cose stanno così, non come dice la New Age!!".

Le comiche, questi si presentano come alternative "autentiche" e "profonde" a quello che definiscono un movimento superficiale e commerciale. Ma esattamente da quale pulpito?  Essi mescolano terminologie prese da tradizioni diverse senza alcuna coerenza dottrinale, fanno esattamente ciò che rimproverano alla New Age, ovvero commercializzano la spiritualità attraverso una sintesi arbitraria di elementi scollegati. 

Sono cani sciolti che fanno marketing, senza alcun collegamento organico con una tradizione autentica. La loro "autorità" si basa esclusivamente sull'auto-proclamazione e sulla capacità di marketing. Quando criticano la New Age per la sua superficialità, dimenticano di spiegare da quale posizione privilegiata possano formulare tale giudizio. Da quale catena di trasmissione tradizionale verificabile arrivano? Da nessuna, parlano a titolo personale, si costruiscono un brand in una spirale infinita di autoreferenzialità.

Stiamo parlando dunque di "newaggiari" che criticano la New Age , di ciarlatani che hanno scelto una strategia per ritagliarsi una nicchia di mercato. 

D'altronde lo sappiamo che in questa epoca si specula sulla ricerca di spiritualità della gente che non trova alternative concrete radicate in tradizioni autentiche, che non conosce maestri delle grandi tradizioni contemplative. 

E così spuntano fuori costantemente i furbetti della spiritualità farlocca, vampiri che guadagnano sugli ingenui.

Diffidare sempre da chi vende "spiritualità".


Parassitaggio

C'è chi cerca compagnia per condividere la propria interiorità e chi invece la cerca per colmare un vuoto. Chi, negli anni, non ha coltivato dentro di sé riflessioni, interessi genuini, creatività e contemplazione, si trova in una condizione di dipendenza emotiva dagli altri. Egli ha fame costante di presenza altrui, non cerca una sana socialità, ha solo paura del silenzio. Perché quando si rimane soli con se stessi o si scopre di essere compagnia interessante per se stessi, oppure ci si accorge di essere estranei alla propria stessa esistenza. Il punto è che chi non sa stare solo non sa nemmeno stare con gli altri. Porta nelle relazioni non un contributo, ma un bisogno, la necessità che l'altro riempia il tempo, distragga dai pensieri, fornisca identità e significato. Questo tipo di compagnia è parassitaria, si nutre dell'energia altrui senza restituire nulla di sostanziale. Al contrario, chi ha imparato a trovare ricchezza nella solitudine porta nelle relazioni valore aggiunto. Sa ascoltare perché sa anche ascoltarsi, sa dare perché ha qualcosa da dare, sa apprezzare l'altro perché non ne ha bisogno. La compagnia degli altri deve essere una scelta, non una necessità, un piacere e non una fuga. Solo se non si ha paura di rimanere soli si può davvero incontrare gli altri, altrimenti è mero parassitaggio, come la gran parte delle relazioni.

Lo sguardo domestico

Osservare con sguardo "domestico" il proprio marito, la propria moglie, il proprio fratello, la propria sorella, i propri figli, crea alienazione. 

La famiglia, quando non è sana, diventa una prigione di etichette cristallizzate. Una volta assegnato un ruolo - il figlio "irresponsabile", la figlia "brava", il fratello "problematico" - diventa quasi impossibile liberarsene. I familiari diventano guardiani inconsapevoli di questa prigione identitaria, perpetuando dinamiche che negano la crescita, l'evoluzione e la trasformazione della persona. Perpetuare la quotidianità in questi contesti, magari per impedimenti economici o sociali, significa sentirsi negati nella propria essenza, ridotti a una caricatura di se stessi. Mentre fuori dal contesto familiare le persone chiedono loro consigli, li rispettano, riconoscono il loro valore, a casa vengono sistematicamente sottovalutati. Essere una persona stimata all'esterno e un fantasma nella propria casa è un fenomeno diffusissimo, che tocca trasversalmente ogni classe sociale e culturale. 

La vicinanza genetica e la condivisione prolungata di spazi e tempi creano una presunzione di conoscenza che blocca la vera comprensione. Alcuni familiari rimangono intrappolati nelle lenti del passato e non riescono a vedere oltre, cristallizzando l'immagine dell'altro in una versione anacronistica e limitante. Questo meccanismo si autoalimenta: più una persona cerca di dimostrare il proprio cambiamento all'interno della famiglia, più viene ricondotta ai vecchi schemi interpretativi. È come se esistesse una resistenza sistemica al riconoscimento dell'evoluzione individuale, una sorta di omeostasi relazionale disfunzionale.

Sono una minoranza le famiglie dove tali dinamiche non si verificano, sono quelle in cui regna una curiosità autentica verso l'altro.

In tanti si ritrovano in queste alienanti situazioni. Non serve la frustrazione, la soluzione migliore è quella di smettere di cercare validazione dove non può essere trovata. Se in famiglia vige questa stagnazione percettiva, è necessario cercare tra gli "estranei" chi sa vedere davvero chi siamo, senza l'utilizzo di lenti statiche e distorte dal peso della storia condivisa. 

La famiglia che non sa riconoscere il valore autentico di chi le appartiene non merita il potere di definirne l'identità. 


Invidia

L'invidia è un sentimento corrosivo che si annida spesso, non tanto negli sconosciuti ma dietro il sorriso dell'amico, di un familiare. É la gioia altrui che diventa veleno in corpo, che trasforma il successo del fratello in una sconfitta personale.

 Attenzione non è un fenomeno raro, è onnipresente. Sant'Agostino scriveva che l'invidia nasce da una perversione dell'amore stesso, dove si dovrebbe gioire per il bene dell'altro, si prova amarezza; ci si ritrova a mormorare nell'ombra. Non vi è una capacità di sentire i suoi traguardi come felicità condivisa, egli diventa un rivale segreto.

Aristotele notava come l'invidioso soffra non tanto per ciò che gli manca, quanto per ciò che l'altro possiede. È una forma peculiare di cecità spirituale che impedisce di vedere l'unicità della propria esistenza, perché troppo impegnati a misurare la distanza che la separa da quella degli altri.

In pochi sono immuni da questo veleno, chi più chi meno. Anche chi dice di non esserlo, spesso cova tali sentimenti all'interno di sé e neppure se ne rende conto.

Chi ha creato i social network lo sa bene, difatti tutto questo sbandieramento di vite "felici" (che in realtà non lo sono) non è altro che materiale per l'ingranaggio dell'invidia. Questa fragilità umana va osservata, accettata e combattuta. Riconoscere che anche nei rapporti più cari può annidarsi l'ombra dell'invidia è onestà e saggezza. Non esiste l'assenza di tentazioni, ma vittoria quotidiana su di esse.

Si guarisce da tale sentimento con la consapevolezza della propria unicità, riconoscendo la propria vita come dono irripetibile e non come una gara da vincere.

Affermare di non essere invidiosi non basta, bisogna osservarsi attentamente. Contro l'invidia che divide, solo una presa di coscienza dei meccanismi umani può prevalere.

"Lo Squalo" di Spielberg e la noia

Ieri sera al cinema proiettavano la versione restaurata de "Lo Squalo" di Spielberg.

Scena a cui abbiamo assistito: un gruppo di adolescenti entra in sala pensando di vedere un film nuovo, dopo neppure metà film, realizzato che si trattava di un film del 1975, si sono alzati e se ne sono andati tra improperi. Il motivo? Il film era "troppo lento". Questi ragazzi, cresciuti nell'era degli squali volanti e degli effetti speciali ipercinetici, non riuscivano a reggere i ritmi di un capolavoro con i suoi dialoghi densi, la tensione costruita gradualmente, l'uso magistrale del non-detto e del non-mostrato, appariva loro noioso, privo di quella stimolazione continua a cui sono abituati.

Questo episodio è l'ennesima conferma di come le nuove generazioni abbiano sviluppato una soglia di attenzione sempre più bassa per tutto ciò che richiede riflessione, pausa, contemplazione. Tutto deve essere veloce, spettacolare, adrenalinico con effetti speciali continui, esplosioni visive, azione costante e zero tempi morti. Deve essere istantaneo con gratificazione immediata e nessuna attesa, stile TikTok. D'altronde sono anche molti genitori ad alimentare questa cultura dell'istantaneo. Invece di educare i figli alla pazienza e alla contemplazione, scelgono la strada più semplice: tablet per calmarli, contenuti veloci per intrattenerli, gratificazioni immediate per evitare capricci. Quanti genitori si siedono con i figli a guardare un film "lento" spiegando loro il valore della costruzione narrativa invece di cambiare canale al primo segno di noia del bambino?

La società va veloce e spinge in questa direzione tiktokiana ma se già tra le mura domestiche si cresce in tal maniera…

Tutto inizia in casa, con scelte quotidiane apparentemente piccole ma dal grande impatto. Un genitore che non ha mai educato il figlio ad aspettare, ad annoiarsi, difficilmente crescerà un ragazzo capace di apprezzare la complessità artistica.

Tabaccherie postmoderne

Quando entriamo nelle tabaccherie rimaniamo sempre perplessi. Quelle che un tempo erano semplici punti vendita di giornali e sigarette si sono trasformate in qualcosa che assomiglia a dei micro-casinò di quartiere. Entrare oggi in una tabaccheria significa essere accolti da un tripudio di stimoli sensoriali calibrati: luci led che lampeggiano incessantemente, suoni elettronici che promettono fortune immediate, schermi che mostrano estrazioni in tempo reale. L'architettura stessa dello spazio è stata ripensata secondo una logica che Michel Foucault avrebbe riconosciuto come disciplinare: ogni elemento è posizionato strategicamente per catturare l'attenzione e indurre comportamenti specifici. Il gratta e vinci, esposto come caramelle colorate alla cassa, normalizza l'idea che la fortuna sia democraticamente accessibile, bastano pochi euro. Le slot machine, un tempo confinate nei casinò, hanno colonizzato questi spazi quotidiani trasformandoli in avamposti della ludopatia legalizzata. Ambienti dunque, progettati per alimentare meccanismi neurobiologici e psicologici noti. Spazi che intercettano e monetizzano fragilità economiche ed emotive, spesso nelle periferie e nei quartieri popolari dove la diseguaglianza sociale è più acuta.

La tabaccheria è oggi un crocevia dove si incontrano diverse forme di dipendenza - nicotina, gioco, consumo compulsivo - con il patrocinio dello Stato che attraverso i monopoli ricava ingenti profitti da queste attività che alimentano dipendenze. Essa è lo specchio di una società che ha trasformato ogni fragilità umana in una nicchia commerciale da sfruttare.