Protesi

Lo smartphone oggi non è semplicemente un oggetto, è una vera e propria protesi cognitiva integrale, un'appendice del nostro sistema nervoso centrale. Estende simultaneamente molteplici dimensioni dell'umano: la memoria (contatti, foto, archivi digitali), la comunicazione (messaggistica, social media, videochiamate), la percezione (fotocamera, GPS, sensori ambientali), il pensiero stesso (ricerche istantanee, intelligenza artificiale, calcoli complessi).

Lo aveva predetto bene McLuhan negli anni sessanta.

Il punto è che quando estendiamo una parte di noi stessi attraverso la tecnologia, quella stessa parte si atrofizza, è matematico.

Qualche esempio base. Perché dovremmo ricordare percorsi, indirizzi, mappe mentali quando Google Maps guida istante per istante? L'orientamento, e la memoria spaziale divengono inutili.

La memoria. Una generazione fa, era normale conoscere decine di numeri. Oggi, c'è chi se perde lo smartphone, non sa nemmeno chiamare i propri figli. La rubrica digitale ha reso superflua la memorizzazione, trasformando i numeri in dati esterni a noi.

Altro esempio, l'ortografia e la grammatica. Il correttore automatico interviene prima ancora che si completino le parole. Non ci si accorge nemmeno più degli errori, perché il telefono li previene. La competenza linguistica si esternalizza, e con essa la consapevolezza della lingua stessa.

E potremmo continuare a lungo l'elenco, con atrofizzazioni sempre più pervasive grazie alle azioni della AI.Lo smartphone plasma le nostre modalità percettive e cognitive.

Ci troviamo in una sorta di ibridazione tra uomo e tecnologia sempre più stretta. Lo smartphone rappresenta al momento il culmine di questo processo: non un semplice strumento esterno, ma una sorta di organo aggiuntivo, un prolungamento del sistema nervoso. Ci sono studi che mostrano che il cervello tratta lo smartphone proprio come un'estensione del sé.

Non stiamo estendendo l'umano, lo stiamo sostituendo. A noi pare evidente che stiamo creando una nuova specie, dipendenti da protesi senza le quali non si riesce più a funzionare.

Sarebbe necessario ogni tanto fermarsi e comprendere come le varie tecnologie ci trasformano in modo da poter scegliere consapevolmente quali estensioni casomai accettare e quali amputazioni si è disposti a subire.

Vita semplice

"Esci dalla tua zona di comfort".

Questa frase la sentiamo ovunque, il semplice fatto di essere soddisfatti è una colpa da espiare.

Cosa significa davvero "zona di comfort"? Oggi è sostanzialmente un'accusa velata, un modo elegante per dire: "Non sei abbastanza. Non fai abbastanza. Non desideri abbastanza".

Ma ribaltiamo la prospettiva, e se quella che chiamano "zona di comfort" è semplicemente la vita che si è scelto con consapevolezza? Se è il frutto di una conoscenza profonda di se stessi, dei propri valori, dei propri limiti e delle proprie autentiche aspirazioni?

Questa prospettiva non piace.

Eppure, cari "guru", in molti casi le cose stanno proprio così.

Epicuro celebrava i piaceri semplici e la vita ritirata. Il Taoismo ci parla del wu wei, l'azione senza sforzo, il fluire naturale con ciò che è.

Quando una persona costruisce una vita semplice, equilibrata, allineata con i propri valori, non è "limitata".

Chi ha stabilito che l'inquietudine perpetua sia superiore alla quiete consapevole? Chi ha deciso che l'espansione costante valga più dell'approfondimento?

Il problema è che molti, spinti dalla retorica dell'auto-miglioramento infinito, abbandonano vite che li rendevano genuinamente felici. Inseguono obiettivi che non sono loro, distruggono equilibri delicati costruiti negli anni, relazioni significative, routine che davano senso alle loro giornate.

E alla fine cosa accade? Il risveglio amaro. Si rendono conto, spesso troppo tardi, che quella "zona di comfort" non era una prigione ma un santuario. Non era pigrizia ma saggezza. Non era mediocrità ma autenticità.

Alcuni non riescono più a tornare indietro. Il lavoro lasciato per inseguire un sogno imposto, la relazione stabile sacrificata per un'idea romantica di "passione" o tante altre varie "zone di comfort" da cui sono fuggiti.

C'è una differenza abissale tra la paura che blocca e impedisce di crescere e la pace che deriva dalla conoscenza di sé e dalla scelta consapevole.

Pertanto, non bisogna farsi condizionare, altro che "uscire dalla propria zona di comfort", bisogna restarci con la forza quando la scelta è consapevole.  Opporsi alla pressione sociale che vuole sempre più ambizione, più velocità, più insoddisfazione.

Rispondere: "Questa vita semplice mi basta, e va bene così".

Prima di distruggere situazioni create con tanta fatica per inseguire l'ennesimo miraggio dell'auto-miglioramento, fermarsi e riflettere.

La vita non è una scalata infinita verso una vetta inesistente.

La riscoperta di Otto Rank

La psicologia moderna scandaglia ogni aspetto della prima infanzia, dimenticando però il momento che precede tutto il resto.

Otto Rank, allievo dissidente di Freud, aveva intuito che il nostro primo trauma non risiede nei complessi edipici o nelle dinamiche familiari, ma nell'atto stesso di venire al mondo.

Nel suo “Il trauma della nascita” (1924), Rank sostenne che il passaggio dal grembo materno alla realtà esterna è uno strappo esistenziale che lascia un'impronta indelebile nell'inconscio. Ogni ansia successiva, sosteneva Rank, sarebbe un'eco di quella prima, primordiale angoscia di separazione.

Trattasi di una intuizione profonda, radicale, la quale suggerisce che il nostro destino psichico si gioca in quei minuti di passaggio tra non-essere e essere.

La psicoanalisi ha preferito concentrarsi su ciò che è narrabile, ricordabile, mentre il trauma perinatale appartiene a una memoria pre-verbale, scritta nel corpo prima che nella mente.

Ci sono studi che si occupano della memoria implicita, dello “stress” perinatale, dell'impatto del tipo di parto (naturale, cesareo, complicato) che mostrano un impatto sullo sviluppo neurologico ed emotivo del bambino. Trattasi di speculazioni, cosa c’è di vero?

C’è chi ha osservato che bambini nati da parti traumatici mostrano schemi comuni. Di questi argomenti non se ne discute, non si parla mai della dimensione psicologica profonda di pratiche quali il parto cesareo. Eppure sarebbe interessante approfondire tali aspetti, perché certi traumi della nascita potrebbero spiegare alcuni inevitabili “disagi” esistenziali che la terapeutica moderna promette di "risolvere”.

Non abbiamo risposte sull’argomento, ci limitiamo ad osservare e ricercare. Riscoprire le opere di Rank oggi può essere utile per riaprire uno spazio di riflessione profondo, per vedere la nascita non solo come inizio biologico, ma come primo atto esistenziale: il momento in cui l'essere umano sperimenta la propria radicale vulnerabilità e la necessità dell'altro. Questo non per patologizzare l'esistenza, ma per comprendere la nostra costitutiva fragilità.

La rinascita delle idee perinatali di Rank non sarebbe un semplice recupero archeologico, ma un punto di partenza per riconsiderare la profondità temporale della psiche e per trattare con attenzione quel confine misterioso dove tutto ha inizio.

Cosmpolis - La fine del capitalismo

Il film Cosmopolis di David Cronenberg del 2012 è passato sotto traccia ed é stato considerato un film minore nell'ampia filmografia del regista canadese. In realtà questo film ha un messaggio potente e la limousine che si vede nella locandina non è altro che la rappresentazione della tomba del capitalismo. 

Il romanzo di Don DeLillo viene trasformato da Cronenberg in un viaggio claustrofobico attraverso il cuore marcio del capitalismo finanziario. La limousine bianca del protagonista Eric Packer è una capsula isolata dalla realtà, un microcosmo dove il denaro si moltiplica attraverso algoritmi incomprensibili mentre fuori il mondo brucia. Cronenberg mostra un sistema in cui l'economia si è completamente staccata dalla vita reale, in cui Packer scommette miliardi sullo yen mentre manifestanti antiglobalizzazione vengono repressi per le strade di New York. 

Un capitalismo ormai autodistruttivo in cui il protagonista non riesce più a connettersi con nulla di concreto. È intrappolato in un universo di transazioni virtuali, previsioni algoritmiche, prostate digitalmente esaminate. Il sistema finanziario contemporaneo ha perso ogni contatto con i bisogni umani reali. Non produce nulla, non crea valore, si limita a speculare su se stesso in una spirale autoreferenziale. E quando crolla – perché crollerà inevitabilmente – trascinerà con sé anche chi credeva di controllarlo. Un film profetico che, a distanza di anni, suona ancora più attuale. 

Palestre moderne

Le palestre moderne, con i loro specchi infiniti e le luci calcolate, sono diventate il tempio di un culto silenzioso.

Premettiamo, il movimento è vita, l'attività fisica è medicina per il corpo e balsamo per la mente. Il punto non è questo.

C'è qualcosa di profondamente diverso tra chi corre per sentirsi vivo e chi solleva pesi per sentirsi visto. Tra chi si muove per abitare il proprio corpo e chi lo scolpisce come un'opera d'arte destinata allo sguardo altrui.

La palestra “narcisistica”, chiamiamola così per intenderci, quella frequentata non per salute ma per apparenza, è un luogo pieno di gente ma che puzza di solitudine. Vi abitano tanti soggetti impegnati in un dialogo ossessivo con la propria immagine riflessa.

Quando il corpo diventa puramente estetico, quando ogni muscolo è calcolato per l'effetto visivo e non per la funzione, non si sta coltivando salute, si sta costruendo un simulacro. Il corpo è uno strumento per abitare il mondo, non una statua da esporre. C'è qualcosa di tragicamente postmoderno in questa riduzione del corpo a superficie.

La palestra “narcisistica” è solo l'ennesima manifestazione della disperata fame di validazione esterna, i cui meccanismi sono ben visibili sui social network.

Lo sport vero insegna l'umiltà della sconfitta, la gioia della collaborazione, il rispetto per l'avversario che ti spinge oltre i tuoi limiti. Ti mette di fronte alla tua fragilità e alla possibilità di superarla non per apparire, ma per diventare. Nel basket ad esempio si impara che il corpo serve a passare, saltare, coordinarsi con altri corpi. Nell'arrampicata si scopre che i muscoli non esistono per essere belli ma per portarti più in alto. Nella danza si capisce che la forma segue il movimento, non il contrario. E così via con gli altri sport.

Ribadiamo che non stiamo demonizzando la palestra in sé, né negando che molti la frequentino con equilibrio e motivazioni sane. Non si può però negare questo visibilissimo fenomeno che trasforma il corpo da mezzo a fine, da strumento di vita a oggetto di esibizione.




La moda del "riconoscere il narcisista"

 " Come riconoscere il narcisista", "Come proteggersi dal narcisista", "Fuggire dal narcisista".

Ecco l’ultima moda. Improvvisamente ci si è accorti di essere circondati da una specie umana distinta e pericolosa, da cui bisogna difendersi.

Il narcisismo patologico, che teoricamente nella psicologia clinica è un disturbo preciso, con caratteristiche definite, è oggi diventato un’etichetta universale, applicabile praticamente a chiunque non corrisponde alle proprie aspettative relazionali.

Ogni comportamento problematico viene ridotto a questa etichetta. Complessità umana, sfumature, contesti? Macché, c’è solo l’etichetta di “narciso”.

D’altronde così tutto diventa rassicurante, “Non è colpa mia, è un narcisista!" – questa frase libera da responsabilità, semplifica il dolore, offre una narrazione chiara.

Diffidare sempre dalle narrazioni nette. Le relazioni falliscono per mille ragioni, le persone feriscono e vengono ferite in dinamiche complesse dove raramente esiste un colpevole assoluto e una vittima perfetta.

Questo sguardo sospettoso, alimentato da “influencer” di ogni genere, avvelena le relazioni prima ancora che possano svilupparsi. Crea barriere preventive, muri eretti per proteggersi dalle famose relazioni “tossiche” (altro termine abusato), rendendosi incapaci di relazioni autentiche.

“I narcisisti non cambiano mai", "non hanno empatia", "sono irrecuperabili", affermazioni ripetute come mantra che negano qualcosa di fondamentale dell'esistenza umana: la possibilità del cambiamento.

Non che sia semplice modificare strutture psichiche profonde, ma negare a priori ogni possibilità di evoluzione, crescita, guarigione, significa condannare eternamente il prossimo. È un modo di pensare che nega la storia personale, il fatto che siamo tutti, in qualche misura, figli del nostro passato, ma non necessariamente suoi prigionieri per sempre.

Queste narrazioni spesso vengono alimentate da chi è avvelenato/a con l’altro sesso, vi è tutta una narrazione di guerra tra uomini e donne. Nella complessità delle relazioni umane l'altro genere oggi diventa il nemico da temere, studiare, evitare. E così, nell’illusione di proteggersi si costruiscono muri, incomprensioni e nuove solitudini. Qualcuno dall’alto ne sarà felice.

Il nostro umile consiglio è di rimanere aperti verso la complessità. Tra quella che chiamano “patologia clinica” e la “normalità” esiste uno spettro infinito di sfumature. Le relazioni sono difficili, richiedono lavoro, comprensione, pazienza. Falliscono per ragioni complesse, raramente riducibili a etichette rassicuranti di questo genere.

Invece di nascondersi e autogiustificarsi dietro patetici schemi, si sviluppi la capacità di vedere le persone nella loro complessità, di riconoscere i comportamenti problematici senza ridurre tutti a etichette erigendo muri invalicabili.



Impostori "spirituali" e abusi

Tra le tante modalità di spiritualità alternative, proliferano ormai da anni sempre più individui che costruiscono la loro autorità su un sincretismo opportunistico, un mix di terminologie yogiche, concetti orientali fraintesi, riferimenti tantrici decontestualizzati e psicologia spiccia per ottenere sesso. Parlano di "energie sottili", di "sbloccare i chakra", di "risveglio della kundalini". Il loro linguaggio é un collage costruito per impressionare chi non ha strumenti critici per valutarlo.

La triste realtà è che dietro molti di questi "santoni" ci sono semplicemente dei cercatori di sesso.

Il meccanismo è sempre lo stesso, si presentano pratiche sessuali come "tecniche iniziatiche", trasformando l'abuso in presunto rito sacro. La vittima viene convinta che la propria resistenza sia "blocco energetico", che il disagio sia "resistenza dell'ego", che la violazione sia in realtà "liberazione".

Il "maestro" si pone come tramite necessario, crea una gerarchia spirituale dove lui occupa il vertice indiscutibile, depositario di conoscenze segrete. Le adepte, selezionate in base alla loro ingenuità e fragilità, vengono gradualmente separate dal proprio giudizio razionale, invitate a "superare la mente", a "arrendersi", a "fidarsi completamente". Ogni dubbio viene reinterpretato come ostacolo alla crescita spirituale.

Se la lei non si lascia andare come dovrebbe allora non è abbastanza "aperta", non ha "lavorato abbastanza su di sé", è "ancora troppo attaccata alle convenzioni". Chi non capisce si sente inadeguato, non osa contestare per paura di rivelare la propria "ignoranza spirituale".

Questo fenomeno è molto più diffuso di quanto si creda. È  figlio di tempi in cui si romanzano le tradizioni orientali, ignorandone la complessità e il rigore. 

Le autentiche tradizioni orientali non hanno nulla a che vedere con tali ciarlatani. Un vero maestro zen, un autentico insegnante di yoga classico, un lama tibetano formato tradizionalmente non userebbe mai la propria posizione per abusi sessuali, perché di questo si tratta.

Tali impostori "spirituali", detta volgarmente, sono semplicemente dei malati di F.

Nulla più. 

Coppie aperte, poliamori e logismoi

Ogni giorno i media mainstream ci informano dell'aumento di coppie aperte, relazioni poliamorose e situazioni di questo genere.

Effettivamente sono fenomeni sempre più diffusi, più di quanto si possa pensare.

C'è qualcosa di profondamente antico in queste dinamiche.

I Padri del deserto – Evagrio Pontico, Giovanni Cassiano – chiamavano logismoi quei pensieri insistenti, quelle suggestioni che iniziano come sussurri innocui nella mente e gradualmente si trasformano in ossessioni capaci di sovvertire l'intera architettura interiore della persona. Ciò che inizia come curiosità, come desiderio di "esperienza", come legittima ricerca di autenticità – "perché dovremmo reprimerci?" – segue la stessa dinamica dei logismoi: un pensiero che bussa alla porta, che promette libertà, espansione, vita più piena. E che, una volta accolto senza discernimento, colonizza progressivamente lo spazio della relazione.

La trasgressione ha sempre esercitato fascino perché promette di liberare dai limiti. 

I Padri del deserto comprendevano qualcosa che l'individualismo moderno fatica a cogliere: eliminare ogni confine non è liberazione, è dissoluzione.

Quando si smantellano questi confini in nome della libertà assoluta, non si trova uno spazio più ampio, ma la dispersione. Come i logismoi che promettevano pace interiore e lasciavano invece frammentazione.

Le relazioni aperte o poliamorose spesso nascono da un'illusione: quella dell'io completamente sovrano, padrone dei propri desideri, capace di compartimentalizzare i sentimenti come se fossero caselle di un'agenda.

I Padri del deserto sapevano che i logismoi prosperano proprio su questa illusione di controllo. "È solo un pensiero, lo gestisco io", diceva il monaco. "È solo un'esperienza, siamo maturi", dicono le coppie. Ma l'eros ha logiche proprie, non negoziabili. La gelosia, l'attaccamento, il senso di unicità non sono "costrutti sociali" facilmente decostruibili: sono strutture profonde della psiche relazionale.

I Padri non condannavano il desiderio in sé, ma insegnavano il discernimento: non ogni pensiero va coltivato, non ogni impulso va assecondato. Esisteva una saggezza dei confini, una comprensione che la libertà autentica non è assenza di limiti, ma capacità di scegliere quali limiti abbracciare per costruire qualcosa di solido.

Oggi questa saggezza appare incomprensibile, per la psicologia moderna trattasi di repressione, paura, mancanza di coraggio. Invece è l'opposto: è il coraggio di dire "questo sì, questo no", di costruire un'identità relazionale definita.

Le testimonianze parlano chiaro, è pieno di coppie distrutte da esperimenti partiti come "innocui". Non per moralismo, ma perché certe porte, una volta aperte, non si richiudono facilmente. 

La tradizione monogamica non nasce solo da convenzione sociale, ma da un'intuizione profonda sulla natura dell'amore tra due persone: che fiorisce in un giardino recintato, non in un campo aperto a tutti i venti.

I logismoi dei Padri e i desideri trasgressivi contemporanei condividono la stessa seduzione: promettono di più, consegnano frammentazione. 

Riflettere.


Pensioni

Si parla spesso di aumento o diminuzione dell'età pensionabile ma questo argomento non viene mai esaminato come si dovrebbe.

La domanda cruciale è: perché lo Stato, in una società che si proclama "libera", deve trattenere forzatamente una porzione del nostro reddito per restituircela decenni dopo? Perché questa insistenza paternalistica su un futuro che potremmo non vedere mai?

La domanda non è meramente economica, è esistenziale. 

Il sistema pensionistico si fonda sul presupposto che vivremo abbastanza a lungo da godere di ciò che ci viene sottratto oggi. Ma la morte non rispetta i piani quinquennali dello Stato. Chi muore a cinquant'anni ha finanziato il riposo altrui, non il proprio. Il suo sacrificio obbligatorio diventa un tributo involontario a sconosciuti più fortunati nella lotteria della longevità.

Dietro la logica previdenziale vi é il paternalismo, i cittadini vengono considerati incapaci di pianificare il proprio futuro, devono essere protetti da se stessi attraverso la coercizione benevola. Lo Stato è il padre che mette da parte i soldi della paghetta, convinto che altrimenti li spenderemmo tutti in caramelle.

Una scelta che dovrebbe essere personale diventa un obbligo collettivo. Trasforma cittadini in dipendenti di un sistema che decide per loro quando, come e quanto del loro stesso denaro potranno utilizzare.

Lo Stato sequestra una porzione significativa del nostro lavoro presente per un futuro ipotetico. Ma il nostro tempo, il nostro lavoro, la nostra vita sono ora. Ogni euro che si guadagna rappresenta ore di esistenza convertite in valore. Perché qualcun altro dovrebbe decidere che una parte di queste ore appartiene non a me oggi, ma a un me stesso settantenne che potrebbe non esistere mai?

Nessuno di noi ha mai avallato questo patto generazionale. Siamo nati dentro un sistema che ci obbliga a finanziare i pensionati di oggi con la promessa che i lavoratori di domani faranno lo stesso per noi. Non c'è possibilità di rifiuto. 

Immaginiamo un sistema diverso: lo Stato restituisce ogni centesimo che attualmente trattiene per la pensione. Sta poi a ciascuno decidere come investire quel denaro. Alcuni potrebbero risparmiare e mettere da parte. Altri potrebbero investire in imprese, immobili, formazione. Altri ancora potrebbero scegliere di vivere pienamente il presente, accettando il rischio di una vecchiaia meno confortevole.

Non sarebbe questo più coerente con i principi di una società "libera"? 

I difensori del sistema attuale invocano la solidarietà intergenerazionale, la protezione dei vulnerabili, il rischio che troppi arrivino alla vecchiaia senza risorse, gravando sulla collettività. Ma questa solidarietà imposta per legge è semplicemente redistribuzione coatta travestita da virtù civica.

La vera solidarietà è la scelta, non la coercizione. 

Chi dovrebbe avere il diritto di decidere come viviamo la nostra vita? Noi stessi, o lo Stato?


Shame, dipendenze e pensieri ossessivi

Shame di Steve McQueen non è un semplice film sulla dipendenza sessuale, ma un'indagine filosofica sulla condizione umana quando il desiderio si trasforma da ricerca di pienezza a meccanismo di fuga.

La dipendenza dal sesso non porta al piacere, ma all'anestesia emotiva, alla lacerazione interiore, al vuoto esistenziale. Ogni "conclusione" sessuale dovrebbe portare sollievo, ma diventa immediatamente necessario ricominciare. È la condanna di Sisifo in versione contemporanea: la compulsione che si rinnova infinitamente, senza mai raggiungere una vera soddisfazione.

Nel film il protagonista Brandon non riesce a fare sesso con la collega di cui si innamora proprio perché c'è un coinvolgimento emotivo reale, mentre riesce a concludere laddove gli incontri sono meccanici, anonimi, svuotati di ogni elemento relazionale. Un circolo vizioso tra compulsione e disgusto di sé.

Anche quando Brandon sembra voler cambiare, il mondo continua a tentarlo. La scena in metropolitana è magistrale nella sua ambiguità: la donna con la fede nuziale ricambia lo sguardo di Brandon. È fidanzata, forse sposata, eppure ammicca. La tentazione non è solo dentro Brandon ma è strutturale alla società contemporanea. Anche chi apparentemente vive nella "normalità" delle convenzioni sociali (il matrimonio, la fedeltà) partecipa a questo gioco di sguardi, di disponibilità sotterranea. Lo stesso accade in discoteca: la donna fidanzata non si sottrae. Il mondo è complice della dipendenza, la alimenta continuamente.

Nelle tradizioni monastiche cristiane, i Padri del Deserto parlavano di logismoi, pensieri ossessivi che assediano l'anima. Non basta il desiderio di purificazione: il mondo, la carne, il demonio - o, in termini contemporanei, la società iper-sessualizzata e la struttura stessa del desiderio - continuano a bussare. La tentazione di Cristo nel deserto non avviene una volta sola: ritorna, si ripresenta sotto nuove forme.

Anche nella tradizione buddhista, Mara - la personificazione dell'illusione e dell'attaccamento - non abbandona il praticante dopo l'illuminazione, ma continua a manifestarsi, richiedendo vigilanza costante.

Non c'è un punto d'arrivo, una guarigione definitiva. C'è solo la scelta continua, rinnovata ogni giorno, ogni ora. La dipendenza, quindi, non porta solo alla distruzione della capacità di amare e connettersi autenticamente. Porta a una forma di inferno esistenziale dove anche il desiderio di cambiare non basta, perché il mondo stesso è strutturato per riattivare continuamente la compulsione.

Spensieratezza rubata

Ci sono bambini di quattro/cinque anni che hanno l'agenda più piena di un manager.

Lunedì inglese, martedì nuoto, mercoledì musica, giovedì calcio, venerdì teatro. Non sia mai che "perdano tempo" o restino "indietro".

A quattro, cinque anni invece di scoprire il mondo con meraviglia, imparare la noia, inventare giochi con due cuscini e una coperta, li riempiono già di aspettative, di obiettivi da raggiungere. 

È pochissimo é poi il tempo che rimane per giocare spontaneamente con gli amici del parco, perché "deve sviluppare i suoi talenti".

I bambini hanno bisogno di noia. Di tempo vuoto da riempire con la fantasia. Di ginocchia sbucciate. Di pomeriggi a non fare "niente di produttivo". Hanno bisogno di provare e riprovare senza pubblico, di essere mediocri in qualcosa senza sentirsi inadeguati.

Non stanno preparando un curriculum. Stanno vivendo una fase della vita meravigliosa.

E invece li si carica di ansia da prestazione prima ancora che sappiano leggere. Li si guarda con sospetto se non sono "al livello" degli altri, se preferiscono giocare con la terra invece che imparare la terza lingua. Come se l'infanzia fosse un investimento da ottimizzare e non un tempo prezioso da vivere.

I bambini devono semplicemente  essere bambini. Correre senza meta, ridere, inventare cose. Crescere senza bruciare le tappe senza entrare nelle logiche della competizione perenne.

Spensieratezza rubata.

Piccoli adulti stressati crescono.



Ulisse e le sirene digitali

Nell' Odissea, Ulisse affronta una delle prove più simboliche del suo viaggio: il passaggio davanti all'isola delle Sirene. Creature ammalianti che promettevano piacere supremo, ma il loro richiamo conduceva alla rovina. L'eroe greco, consapevole del pericolo, si fece legare all'albero della nave mentre i suoi compagni remavano con le orecchie sigillate dalla cera.

Dopo secoli quel mito risuona potentissimo nel nostro quotidiano. Ogni giorno, come moderni Ulisse, si naviga in un mare di tentazioni.

Qualche esempio concreto?

Le sirene digitali, il mondo degli smartphone promette connessione col mondo ma in realtà isola. Lo vediamo cosa è accaduto negli anni, strade vuote, ragazzi che escono assieme ma ognuno sta ricurvo sul suo telefono, coppie e famiglie che quando si ritrovano rifuggono negli schermi e potremmo continuare a lungo con l'elenco.

Le sirene del consumo compulsivo che mascherano il vuoto che nessun oggetto potrà mai colmare.

Le sirene dell'ego tentano con la gloria effimera dei social media, dove tutti si mettono in mostra, dove ogni like diventa una piccola dose di validazione, ogni commento una conferma della propria esistenza. L'ego si gonfia mentre si perde connessione con se stessi.

Le sirene della lussuria digitale che operano nell'ombra della privacy dello schermo. Promettono emozioni intense, evasione dalla routine, eccitazione senza conseguenze. Attraverso app, piattaforme di incontri, sussurrano che possiamo avere tutto senza pagare alcun prezzo. In realtà poi accade che famiglie si disgregano, fiducia accumulata in anni si dissolve in un istante, e ciò che prometteva piacere lascia solo macerie di dolore e rimpianto.

Il tutto esattamente come le sirene antiche le quali promettevano per poi condurre alla distruzione.

La differenza tra noi e Ulisse è che lui conosceva la natura del pericolo e si era preparato. Molti di noi invece navigano sguarniti senza corde che tengano saldi. Ci si racconta che "sono solo curiosità", che "non sta succedendo nulla di male", che "posso controllare", proprio mentre le correnti trascinano verso gli scogli.

La saggezza antica insegna che la libertà non è l'assenza di tentazioni, ma la consapevolezza di esse e la scelta consapevole. È necessario dunque riconoscere le sirene per ciò che sono: illusioni che promettono ciò che non possono dare, che offrono piacere momentaneo in cambio di tesori duraturi come l'integrità, la fedeltà, la fiducia reciproca. Gli ancoraggi sono la meditazione, la preghiera, la riflessione onesta su ciò che realmente conta, la coltivazione di relazioni autentiche e la presenza consapevole. È l'impegno verso questi elementi la corda che tiene saldi all'albero maestro.

Videogiochi e social network

Non tutti gli schermi sono uguali.  

I tanto criticati classici videogiochi da console distruggevano la capacità di concentrazione dei ragazzi? Avevano lo stesso effetto dei social media che frammentano l'attenzione?

In un classico videogioco (non parliamo ovviamente dei giochini passatempo dopaminici da smartphone), si è dentro un mondo, c'è un obiettivo, una sfida, un percorso. L'attenzione non viene dispersa ma concentrata, orientata verso un fine.

I social media, al contrario, sono un flusso infinito di frammenti sconnessi. Non c'è una meta, non c'è una narrazione. Si scrolla in un eterno presente discontinuo, dove ogni contenuto nega quello precedente e annuncia quello successivo, senza mai costruire un senso compiuto.

Quando l'attenzione di un giovanissimo viene costantemente frammentata, è l' identità ad andare in confusione poiché l'io si costituisce attraverso la continuità dell'esperienza, attraverso un filo narrativo. Se questo filo si spezza ogni tre secondi, si diventa una collezione di istanti sconnessi. 

Il filosofo William James scriveva che "la mia esperienza è ciò a cui acconsento a prestare attenzione". Ma quando l'attenzione è catturata, algoritmo dopo algoritmo, da meccanismi progettati per trattenerla, cosa rimane?

I social media sfruttano un principio ancestrale della mente: l'attrazione verso il nuovo. Offrono novità come fine a sé stessa, come pura stimolazione senza contenuto.

L'attenzione è la forma più pura di libertà che si possiede. Decidere a cosa prestare attenzione significa tutto, a partire dal tipo di persona che si vuole diventare. 

Quando si cede il controllo dell'attenzione a meccanismi esterni, si diventa inautentici, guidati dal flusso impersonale della distrazione collettiva.