Non tutti gli schermi sono uguali.
I tanto criticati classici videogiochi da console distruggevano la capacità di concentrazione dei ragazzi? Avevano lo stesso effetto dei social media che frammentano l'attenzione?
In un classico videogioco (non parliamo ovviamente
dei giochini passatempo dopaminici da smartphone), si è dentro un mondo, c'è un
obiettivo, una sfida, un percorso. L'attenzione non viene dispersa ma
concentrata, orientata verso un fine.
I social media, al contrario, sono un flusso infinito di frammenti sconnessi. Non c'è una meta, non c'è una narrazione. Si scrolla in un eterno presente discontinuo, dove ogni contenuto nega quello precedente e annuncia quello successivo, senza mai costruire un senso compiuto.
Quando l'attenzione di un giovanissimo viene costantemente frammentata, è l' identità ad andare in confusione poiché l'io si costituisce attraverso la continuità dell'esperienza, attraverso un filo narrativo. Se questo filo si spezza ogni tre secondi, si diventa una collezione di istanti sconnessi.
Il filosofo William James scriveva che "la mia esperienza è ciò a cui acconsento a prestare attenzione". Ma quando l'attenzione è catturata, algoritmo dopo algoritmo, da meccanismi progettati per trattenerla, cosa rimane?
I social media sfruttano un principio ancestrale della mente: l'attrazione verso il nuovo. Offrono novità come fine a sé stessa, come pura stimolazione senza contenuto.
L'attenzione è la forma più pura di libertà che si possiede. Decidere a cosa prestare attenzione significa tutto, a partire dal tipo di persona che si vuole diventare.
Quando si cede il controllo dell'attenzione a meccanismi esterni, si diventa inautentici, guidati dal flusso impersonale della distrazione collettiva.