Il caso di Paderno e la complicità con l'ingiustizia

Alla mezzanotte del diciottesimo compleanno un individuo si trasforma magicamente da minore bisognoso di tutela a adulto pienamente responsabile. La biologia e la neurologia ci dicono di no, ma il nostro sistema giuridico finge che accada proprio questo. Il limite dei 18 anni è, filosoficamente parlando, completamente arbitrario. Non esiste alcuna base scientifica che giustifichi questa soglia specifica. Il cervello umano, in particolare la corteccia prefrontale responsabile del controllo degli impulsi e del ragionamento complesso, continua a svilupparsi fino ai 25 anni circa. 

Il 18 è una necessità pratica, la società ha bisogno di linee nette, di confini chiari, non potendo valutare caso per caso la maturità di ogni individuo. Ma questa necessità pratica non cancella l'assurdità filosofica del sistema. 

Il paradosso penale di cui parlavamo ieri ne è un esempio. Un diciassettenne che pianifica e esegue un triplice omicidio e dimostra una capacità di premeditazione, controllo e consapevolezza delle conseguenze, viene trattato dalla legge come se fosse incapace di comprendere la gravità dei suoi atti. 

Il concetto di "maggiore età" a 18 anni è relativamente recente. Per secoli, la maturità sociale coincideva con quella fisica: si diventava adulti con la pubertà, spesso intorno ai 12-14 anni. Il prolungamento dell'adolescenza è un lusso delle società moderne e benestanti. La scelta dei 18 anni deriva da considerazioni storiche contingenti, come l'età del servizio militare o del diritto di voto. Non da una reale riflessione sulla natura umana. Ma quando un essere umano diventa moralmente responsabile al 100%? Aristotele parlava di akrasia (debolezza della volontà) come condizione umana universale. Anche gli adulti agiscono spesso contro la propria ragione. Se un adulto di 40 anni può commettere un crimine "in un momento di follia", perché un diciassettenne non può essere ritenuto pienamente responsabile di un atto lucido e premeditato? 

Il caso Paderno evidenzia l'assurdità: se quel ragazzo avesse compiuto il massacro tre mesi dopo, sarebbe stato ergastolo. La differenza non sta nella sua maturità, nella sua comprensione del male, nella sua pericolosità sociale. Sta solo nel calendario. È come dire che la gravità morale di un atto dipende dalla posizione della Terra nell'orbita solare al momento del crimine. 

L'idea di soglie nette va combattuta. Serve valutare caso per caso la maturità cognitiva ed emotiva del soggetto. Il limite dei 18 anni è una finzione giuridica, magari necessaria, ma filosoficamente insostenibile. Quando un minore dimostra attraverso i suoi atti una maturità criminale degna di un adulto, trattarlo come un bambino non è giustizia: è complicità con l'ingiustizia. 

Le previsioni di Ray Kurzweil, fantascienza?

Di recente stiamo leggendo un testo dell'inventore americano Ray Kurzweil, un personaggio spesso preso poco sul serio per le sue utopie sull'intelligenza artificiale. Eppure sembra proprio che costui, negli anni, abbia saputo leggere traiettorie tecnologiche con una precisione profetica. Partendo dalle previsioni degli anni '90 sulla diffusione di Internet, alla nascita dei social media, sino alle ultime sull'AI. A suo dire siamo vicinissimi alla fusione definitiva tra mente umana e artificiale.

Per Kurzweil non si tratterà solo di una crescita tecnologica ma di un vero e proprio salto evolutivo, è convinto che entro il 2045 aumenteremo le nostre capacità cognitive attraverso degli impianti neurali, fondendoci letteralmente con le macchine.

Può far sorridere detta così ma le previsioni di Kurzweil non sono affatto così fantascientifiche.

Kurzweil vede in questo scenario solo trionfi e conquiste, dipinge un futuro radioso di immortalità digitale e capacità cognitive illimitate.

Lasciamo stare per un attimo i giudizi su quanto appena descritto, la domanda è: "chi" dovrebbe controllare poi questo processo?

Ed è proprio qui che l'ottimismo di Kurzweil si scontra con una realtà molto più inquietante. Se le sue previsioni dovessero avverarsi, ci troveremo di fronte ad una concentrazione senza precedenti del potere nelle mani di pochissimi attori privati.

Già oggi assistiamo a come le grandi corporation tecnologiche - Google, Meta, Apple, Microsoft - controllino aspetti fondamentali della nostra esistenza digitale. Detengono i nostri dati, modellano le nostre interazioni sociali, influenzano le nostre decisioni di acquisto e persino le nostre opinioni politiche. Ma quello che Kurzweil prospetta è qualcosa di molto più radicale: il controllo diretto della nostra mente.

Chi possiederà le tecnologie di potenziamento cognitivo? Chi stabilirà a chi concedere l'accesso agli impianti neurali? Chi definirà i parametri di funzionamento di queste interfacce cervello-computer? La risposta è semplice e terrificante: le stesse multinazionali che oggi monopolizzano il settore tecnologico.

Immaginiamo un mondo dove l'intelligenza potenziata diventa la norma per accedere ai migliori lavori, alle migliori opportunità educative, persino alle relazioni sociali più significative. Chi non potrà permettersi questi "upgrade" neurali - e parliamo di tecnologie che inizialmente costeranno fortune - si troverà relegato in una sottoclasse cognitiva, escluso dai circuiti che contano.

Ma il problema va oltre la mera stratificazione sociale. Stiamo parlando di aziende private che avranno accesso diretto ai nostri pensieri, ai nostri ricordi, ai nostri processi decisionali più intimi. Quello che oggi raccolgono attraverso i nostri click e le nostre ricerche, domani potrebbero estrarlo direttamente dalle nostre sinapsi.

Le masse, quelle che Kurzweil vede beneficiarie di questo progresso, rischiano invece di trovarsi in una condizione di dipendenza totale da questi intermediari tecnologici. Non più semplici consumatori di servizi digitali, ma letteralmente cyborg la cui componente artificiale sarà proprietà di qualcun altro.

La vera domanda non è se le previsioni di Kurzweil si avvereranno, ma se saremo in grado di evitare che questa evoluzione tecnologica si trasformi nella più sofisticata forma di controllo sociale mai concepita. Perché quando il confine tra mente umana e artificiale si dissolverà, chi controllerà l'artificiale controllerà l'umano.


Trump il Messia

Negli ultimi anni si è consolidato un fenomeno particolare nell'ambiente di una certa controinformazione: la percezione di Donald Trump come figura messianica che combatte segretamente i "poteri forti" attraverso strategie complesse che solo i "risvegliati" riuscirebbero a decifrare.

Ogni azione di Trump viene reinterpretata come parte di una strategia superiore.

I sostenitori di questa teoria partono dalla conclusione (Trump è buono e combatte il male) e reinterpretano ogni evidenza per farla coincidere con questa premessa. Non importa cosa faccia concretamente Trump, quali effettivi poteri decisionali abbia - tutto viene riletto attraverso questa lente interpretativa. Qualsiasi cosa accade finisce inghiottito all'interno della visione dell'ottantenne con il cappellino rosso impegnato a "trollare" tutti e combattere il "Deep State". Sono convinti, nulla può scalfire la loro fede cieca nella narrativa di Trump che battaglia contro i poteri forti mentre finge di fare il contrario. Se domattina si gratta una palpebra loro ci vedono un messaggio di minaccia a qualche loggia massonica.

La verità è che chi aderisce a queste teorie si sente parte di una élite cognitiva che "vede oltre le apparenze". Questa sensazione di superiorità intellettuale rinforza l'adesione al sistema di credenze, creando un circolo vizioso.

E' un fenomeno che mostra chiaramente il bisogno di senso di quest’epoca, l'idea che esista un piano segreto ma benevolo offre rassicurazione e ordine. Il sentirsi parte di una battaglia cosmica tra bene e male dà significato e importanza alla propria esistenza.

Sono circuiti tossici in cui si distorce la percezione della realtà politica, si impediscono analisi critiche approfondite, si alimentano polarizzazioni e si sottraggono energie costruttive.

Il fenomeno Trump-salvatore rappresenta un caso di studio perfetto di come funzionano i bias cognitivi di tanta controinformazione. 

La disponibilità infinita di contenuti sul web può essere preziosa per chi è sinceramente in ricerca, ma deleteria per tutti coloro che finiscono per costruire narrazioni completamente autoreferenziali, dove ogni elemento che contraddice la teoria viene scartato o reinterpretato.

Inutile smontare queste narrative, ci si scontra con vere e proprie sette di fanatici. piuttosto c’è da comprendere i bisogni profondi che esse soddisfano e provare a proporre alternative di visione per dare senso alla complessità del mondo contemporaneo.

Adolescenti e passioni

C'è un fenomeno silenzioso che attraversa molte case: adolescenti che non hanno interessi di alcun genere. Non parliamo dei classici momenti di ribellione o crisi tipici dell'età. Parliamo di ragazzi che galleggiano in una sorta di limbo emotivo, senza che nulla - proprio nulla - riesca ad accendere in loro una scintilla di curiosità o passione. Ai genitori sembra non interessare, si limitano a osservare i voti scolastici, essi pensano che in fondo vada tutto bene dal momento che a scuola avanzano senza difficoltà. E invece no, in realtà questi ragazzi trascinano i doveri scolastici come automi perfettamente programmati. Studiano, prendono voti decenti, ma dietro quella facciata di normalità c'è il vuoto. Nessuna curiosità autentica, nessuna domanda che va oltre il compito assegnato, nessuna passione che li tenga svegli la notte. 

Scenario tipico: 

- Cosa ti piace fare? "Non lo so." 

- Cosa ti emoziona? Silenzio. 

Non è pigrizia. È come se si fossero disconnessi dal proprio mondo interiore, dalla capacità di sentire bruciare qualcosa dentro. Genitori preoccupatevi. L'adolescenza dovrebbe essere l'età delle scoperte, delle ossessioni, delle passioni travolgenti. Un tredicenne dovrebbe essere completamente assorbito da qualche sport, dalla musica, dall'arte, dalla scrittura, dalla lettura o da qualsiasi altra cosa. Queste passioni sono il carburante dello sviluppo identitario. Un adolescente senza interessi è un adolescente che non sta costruendo se stesso.

Prendere bei voti ma non fare mai domande che vanno oltre il programma scolastico, non avere hobby, passioni o attività, rispondere sempre "non lo so" quando gli si chiede cosa gli piace, non entusiasmarsi per nulla, nemmeno per le cose tipiche della propria età, vivere in modalità “pilota automatico”, NON È NORMALE. E non basta dire "trova un hobby". Questi ragazzi vanno accompagnati nella riscoperta del proprio mondo interiore, per riaccendere curiosità e fuochi.

"L'andare bene a scuola" purtroppo inganna ancora troppe persone mentre il nulla esistenziale e l'apatia avanzano creando cinici automi che vivono d’inerzia.




Catturare la vita

"Non è da tutti catturare la vita, non disprezzare chi non ce la fa"- così cantava Branduardi in suo famoso brano.

Alcuni nascono con una naturale capacità di afferrare l'essenza delle cose, di trovare senso nel caos quotidiano, di trasformare il dolore in saggezza. Altri invece si dibattono nell'incomprensione, intrappolati in meccanismi mentali che rendono ogni giorno una fatica. La differenza non sta solo nella volontà, ma anche in qualcosa di più profondo e misterioso.

Quando si giudica chi "non ce la fa", si dimentica di stare osservando dall'esterno una battaglia interiore di cui non si conoscono le regole. Il fallimento apparente può nascondere lotte titaniche contro demoni invisibili. La mediocrità evidente può essere il risultato di una resa dopo battaglie che non si è mai dovuto combattere.

Il disprezzo per chi non riesce a "catturare la vita" rivela l’incapacità di riconoscere la complessità dell'esistenza altrui. È l'arroganza di chi, avendo ricevuto gli strumenti giusti al momento giusto, si convince di esserne l'unico artefice.

Ciascuno nasce in un territorio psichico diverso. Alcuni si ritrovano in pianure fertili dove ogni seme germoglia facilmente. Altri in terre aride dove ogni piccola crescita richiede sforzi enormi. Chi nasce nella pianura non ha meriti particolari, così come chi nasce nel deserto non ha colpe.

La "cattura della vita" non è una gara a chi arriva primo, ma un processo unico e irripetibile per ciascuno. Alcuni ci arrivano presto e con apparente facilità. Altri impiegano decenni. Altri ancora non ci arrivano mai.

Non disprezzare chi non ce la fa significa riconoscere che l'esistenza è un enigma che non tutti riescono a decifrare. Significa accettare che il fallimento esistenziale non è sempre una questione di carattere, ma spesso di circostanze, di strumenti, di misteriose alchimie interiori, di destini incomprensibili alle logiche umane.

L’atto di "cattura della vita" consiste nello smettere di misurare il valore umano sulla capacità di riuscita, e iniziare a riconoscere la dignità intrinseca di ogni tentativo, anche di quelli apparentemente falliti.

Chi ha davvero "catturato la vita" è colui che comprende che la vita non si cattura, ma si accoglie. E nell'accoglienza trova spazio anche per chi non riesce ad accogliere, per chi si perde, per chi si arrende. Perché anche il loro smarrimento fa parte del grande disegno dell'esistenza.



Hipsterismo

L'hipster contemporaneo è quel soggetto urbano, generalmente di classe media, che costruisce la propria identità attraverso il consumo di prodotti e culture "alternative". Il suo habitus si basa sulla ricerca ossessiva dell'autenticità e dell'unicità: ascolta band "che non conosce nessuno", pratica hobby di nicchia, ostenta competenze culturali raffinate. Mentre si presenta come critico del consumismo di massa e del mainstream, l'hipster ha in realtà dato vita a un mercato di nicchia estremamente redditizio. Dietro le apparenze difatti si nasconde la più raffinata delle operazioni di marketing: la commercializzazione della ribellione. Mentre predicano il rifiuto del mainstream, gli hipster hanno semplicemente creato un nuovo mercato di nicchia, altrettanto vorace e manipolatorio. Quel caffè "artigianale" da 5 euro? Quella t-shirt vintage da 80 euro? Quegli occhiali "unici" prodotti in serie da brand che si spacciano per indipendenti? Non è altro che capitalismo mascherato da controcultura. L'industria ha capito perfettamente il gioco: basta appiccicare l'etichetta "artigianale", "indie" o "vintage" su qualsiasi prodotto per moltiplicarne il prezzo. E gli hipster, nella loro ricerca disperata di distinguersi, cadono nella trappola ogni volta. Il risultato? Persone che credono di essere ribelli mentre alimentano un sistema economico peggiore di quello che pretendono di combattere. Almeno McDonald's non fa finta di essere filosofia. L'hipsterismo non è ribellione, è privilegio economico travestito da sensibilità culturale. È la classe media che si inventa un'identità di nicchia per sentirsi speciale, mentre perpetua le stesse dinamiche di consumo che finge di rifiutare.

Le predizioni hollywoodiane

Quante volte Hollywood si è rivelato precursore della realtà? I film dell'industria americana tante volte sembrano possedere una sorta di "sfera di cristallo", anticipando eventi, tecnologie e fenomeni che si materializzano anni o decenni dopo. Potemmo fare tantissimi esempi in merito, vediamone solo qualcuno. 

"2001: Odissea nello Spazio" di Kubrick del 1968 anticipa videoconferenze, tablet e intelligenza artificiale.

"Blade Runner" di Ridley Scott del 1982 anticipa gli schermi pubblicitari giganti, le videochiamate, il riconoscimento vocale. 

"Ritorno al futuro II" di Zemeckis del 1989 con tv a schermo piatto, scansioni e impronte digitali. 

"Demolition Man" del 1993, di cui avevamo già parlato in passato, mostrò tecnologie che si sono poi realizzate, come le auto elettriche a guida autonoma, i tablet e i telefoni portatili che accedono a Internet, la valuta digitale, il controllo del linguaggio, l'attenzione breve tipica dei modi di comunicazione social. 

"The Truman Show" del 1998 anticipó reality show pervasivi, influencer che vivono in diretta e sorveglianza costante. 

"Minority Report" del 2002 mostró interfacce gestuali, pubblicità personalizzata e la sorveglianza predittiva. 

La serie tv "Black Mirror" in ogni episodio sembra anticipare distopie tecnologiche. 

Oppure se parliamo di eventi, pensiamo a "The China Syndrome" del 1979, un film che esce 12 giorni prima del disastro nucleare di Three Mile Island. 

Che dire poi di Super Mario Bros del 1993 e la scena sulle torri gemelle che si disintegrano? 

E "Contagion" del 2011 che descrisse una pandemia globale molto simile al covid19 con tanto di mascherine, lockdown e corsa al vaccino? Sono giusto alcuni esempi, in realtà se si osservano tante produzioni si possono notare molti "indizi" sorprendentemente profetici. 

Trattasi solo di intuizioni distopiche o qualcuno usa l'intrattenimento per "preparare" psicologicamente le masse a cambiamenti pianificati?

Vivere in città

Si legge che nel 2030 circa il 70% delle persone vivrà in città. Per molti aspetti sembra impossibile vivere lontano dai centri urbani perché ciò significa dover far fronte a diverse scomodità come la carenza di servizi, di alcuni beni di consumo e di trasporti pubblici.
Una forte spinta all’urbanizzazione si verificò con la seconda Rivoluzione industriale, quando masse di contadini si trasferirono nelle zone periferiche delle città per soddisfare la richiesta di forza lavoro a basso costo nelle fabbriche. Ancora oggi le città rappresentano una forte attrattiva, meta di rilevanti flussi migratori, e questa tendenza non riguarda solo le metropoli del sud del mondo; le megalopoli come Tokyo, Shanghai, Giacarta e Nuova Delhi sono le più popolose, con una popolazione che supera i 30 milioni di abitanti. Veri e propri formicai in cui si sopravvive accatastati gli uni sugli altri, respirando aria inquinata, bevendo acqua in bottiglia e rintronandosi di rumori di folla e di traffico. La gestione istituzionale delle città è spesso fallimentare: la miriade di rifiuti, la delinquenza, l’accattonaggio, gli ingorghi stradali, il moltiplicarsi di richieste di assistenza sociale, l’impatto energetico, ecc.
Nonostante gran parte della popolazione mondiale si trasferirà nelle città nel prossimo futuro, è indubbio che gli ambienti urbani siano invivibili: vivere in condizioni di sovraffollamento, come è già stato osservato negli animali da allevamento intensivo, causa sofferenza psichica e aggressività.

Il famoso etologo Konrad Lorenz, nel 1973, scriveva: “l’accalcarsi di molti individui in uno spazio ristretto” dà luogo a “manifestazioni di disumanità, ma scatena anche direttamente il comportamento aggressivo”, inoltre “l’amore per il prossimo, per un prossimo troppo numeroso e troppo vicino, si diluisce sino a svanire senza lasciare più traccia.”
Peraltro vivere in città significa esporsi maggiormente al controllo sociale, al confinamento in caso di pretestuose nuove emergenze (ecologiche, sanitarie, terroristiche, energetiche) o al razionamento di risorse.
I tentativi di depopolamento, che si può immaginare si faranno progressivamente più violenti e più mirati, avranno come punto di partenza le città, un facile obiettivo data l’alta concentrazione di persone. 


AM

La retorica dell'insegnante "intoccabile"

Abbiamo appena letto l’ennesimo articolo in cui si leggono affermazioni di questo tenore: “Prima un insegnante era visto come una figura di riferimento in continuità con la famiglia. Ora il suo ruolo è messo in discussione, così come quello della scuola."

Basta con la retorica dell'insegnante come figura intoccabile. Oggi, per come è strutturata la scuola, per come vengono scelti gli insegnanti (spesso ignoranti con lauree a crocette), il genitore DEVE essere vigile. Sentiamo spesso dire che "una volta l'insegnante era rispettato, ora no". Ma rispetto per cosa? Per il ruolo o per la competenza? Perché se parliamo di competenza, allora bisogna prendere atto che sempre meno insegnanti sono all'altezza del compito educativo dei nostri figli.

La cattedra non è un pulpito. La laurea non è un salvacondotto per l'incompetenza. E il nostro silenzio da genitori non è rispetto, è negligenza. Quando affidiamo i nostri figli alla scuola, non stiamo consegnando un pacco. Stiamo condividendo la responsabilità più grande che abbiamo: l'educazione delle nuove generazioni. Questo significa conoscere chi insegna ai nostri figli, verificare la qualità e i programmi dell'insegnamento, intervenire quando necessario. Non è "mancanza di rispetto" chiedere spiegazioni a un insegnante. Non è "ingerenza" pretendere qualità e chiarezza. Non è "essere genitori invasivi" volere il meglio per i propri figli. È semplicemente essere genitori responsabili.

Ovviamente vigilanza non significa difesa aprioristica. Il genitore vigile non è quello che va a scuola a fare scenate per ogni voto basso o richiamo. Non è quello che trasforma ogni segnalazione negativa in un attacco personale al proprio figlio. Il genitore responsabile sa distinguere tra un insegnante incompetente che va contestato e uno competente che sta facendo il proprio lavoro educativo. Perché sì, è vero, esiste anche l'altra faccia della medaglia: genitori che scambiano la protezione del figlio con la negazione della realtà. Che preferiscono accusare l'insegnante piuttosto che affrontare le difficoltà o i comportamenti problematici dei propri figli. Ma questo è un altro discorso.

Bisogna intanto rendersi conto che oggi l'insegnamento raramente è in mano a persone competenti e rigettare la stantia retorica dell’insegnante intoccabile solo per il suo status.

I nostri figli devono avere insegnanti validi. E se questi insegnanti non ci sono, è nostro dovere accorgercene ed agire. 



L'ideologia del successo

"Tutto è possibile se ci credi davvero". Questa affermazione, apparentemente liberatoria, nasconde in realtà una trappola culturale di proporzioni enormi.

"Trasformati, dedicati completamente e conquista i tuoi obiettivi": è un imperativo che riecheggia ossessivamente sui canali digitali.

Dietro la facciata di competenza autorevole di un consulente, la mitologia della realizzazione si manifesta frequentemente come un'accettazione acritica dell'architettura sociale in cui siamo immersi, portata ai suoi estremi più radicali. L'adorazione per il paradigma liberista si trasforma in un'estetica esistenziale, cessando di essere un semplice orientamento politico per diventare un modo di essere nel mondo: l'individualista perpetuamente motivato.

Brillante, determinato e pervaso da un ottimismo incrollabile: questo è il prototipo umano che viene promosso come via verso la realizzazione. Il guru si presenta come colui che, avendo raggiunto il successo, possiede le chiavi per svelare agli altri come capitalizzare le illimitate possibilità che il mondo offre, apparentemente nascoste dietro veli di inerzia e mancanza di determinazione.

Il segreto della realizzazione, tanto nella sfera professionale quanto in quella privata, viene ridotto a una ipotetica metamorfosi dell'individuo che esclude completamente qualsiasi possibilità di trasformazione del contesto sociale.

La progressione professionale, concepita come una competizione isolata che sacrifica ogni altro aspetto dell'esistenza, diventa l'unico teatro in cui dimostrare il proprio valore umano.

La visione del mondo promossa dai guru digitali non è altro che un sostegno ideologico del modello socioeconomico in cui siamo inseriti. L'estetica del trionfo non si configura come una filosofia di vita personale, ma piuttosto come un rinforzo politico di un sistema che opprime sistematicamente i cosiddetti "falliti" della società.

Chi fallisce di fronte a tale “ideologia del successo” sviluppa stati d'animo come l’ansia, il narcisismo patologico e la depressione, fallimenti personali di cui provare vergogna.

Questa narrazione tossica del successo a ogni costo non rappresenta una liberazione individuale, ma una forma sofisticata di controllo sociale. Dietro la retorica motivazionale si nasconde un meccanismo che trasforma le disuguaglianze strutturali in fallimenti personali, scaricando sull'individuo la responsabilità di problemi sistemici.


L'Uomo con Nessun Nome

Clint Eastwood è un artista che ha attraversato oltre sei decenni di carriera mantenendo sempre una visione personale e indipendente, sfidando costantemente le convenzioni di Hollywood e creando un linguaggio cinematografico inconfondibile.

Eastwood inizia la sua carriera come attore negli anni '50, ma è con la trilogia del Dollaro di Sergio Leone che diventa un'icona mondiale. L'Uomo con Nessun Nome non è solo un personaggio, ma l'archetipo di un nuovo tipo di eroe: silenzioso, enigmatico, moralmente ambiguo.

La sua filosofia è chiara fin dall'inizio: mantenere il controllo creativo totale sui propri progetti.  Nel 1967 difatti Eastwood fonda la sua casa di produzione, la Malpaso Productions, una mossa visionaria che gli garantisce libertà creativa assoluta. Questa decisione gli permette di scegliere personalmente i progetti da sviluppare, mantenere il controllo artistico su ogni aspetto della produzione, lavorare con budget contenuti ma efficaci, girare rapidamente senza le pressioni degli studios.

L'universo narrativo di Eastwood è caratterizzato da temi profondi e universali come la redenzione, la violenza e le sue conseguenze, i contraddittori miti americani, l’invecchiamento e la morte.

Il suo linguaggio cinematografico è caratterizzato da minimalismo espressivo, nessuno spazio per virtuosismi gratuiti. La macchina da presa serve la storia, non il contrario. I suoi film respirano con il tempo della vita reale, senza forzature narrative.

Eastwood ha dimostrato che è possibile fare cinema d'autore dentro il sistema hollywoodiano. In un'industria dominata da logiche propagandistiche e commerciali, rappresenta un esempio di come sia possibile mantenere la propria visione artistica senza compromessi. I suoi film non seguono le mode del momento ma attingono a temi universali e senza tempo.

Da sottolineare la sua resistenza alle convenzioni del linguaggio politicamente corretto. Clint ha sempre mantenuto un approccio critico verso i nuovi codici comunicativi imposti dall'industria dell'intrattenimento, i suoi film non seguono i diktat della sensibilità contemporanea sui linguaggi inclusivi o sulle rappresentazioni "corrette" dei personaggi.  

Non aderire ai modelli propagandistici hollywoodiani, per una icona di quel sistema, è una medaglia al valore.

Leggenda vivente.



Surrogati

La scuola, componente strutturale di una società, dovrebbe svolgere un ruolo fondamentale di inculturazione, acculturazione e, direbbe Talcott Parsons, di integrazione e mantenimento dei modelli latenti.  Eppure, questa labile istituzione, invece di ergersi a baluardo dei repentini e spesso irragionevoli mutamenti sociali spesso indotti da poteri sovrastrutturali che hanno il solo intento di modellare la società secondo i propri fini, si piega passivamente o peggio, di buon grado, alle imposizioni provenienti dall’alto. Al ritmo di incalzanti corsi di formazione finanziati dall’esiziale Pnrr, la scuola apre i boccaporti alla digitalizzazione e così si riempiono le stive di corsi destinati ai docenti per imparare a usare gli algoritmi di IA nella didattica: lezioni, verifiche e slide vengono realizzate usando ChatGPT di OpenAI, Gemini di Google o Llama di Meta.
Caricata di zavorra, la scuola si barcamena nelle torbide e insidiose acque delle aziende del digitale che si infiltrano nelle crepe del sistema scolastico. L’assoggettamento dei docenti è facile: per lo più si tratta di una mandria che a malapena sa usare gli indici per digitare goffamente sulla tastiera, guarda con occhi bovini lo schermo e propina agli adolescenti lezioncine piatte e banali intervallate da film e lavori di gruppo.
Negli anni la scuola ha accettato di tutto: dal progetto CLIL (lezioni su argomenti curricolari in lingua straniera: l’abominio di studiare Platone in inglese), all’educazione alla legalità (carabinieri in divisa che spiegano, portando ad esempio i propri figli, quanto sia illecito drogarsi o bullizzare i compagni di classe), o ancora le lezioncine sulla pericolosità delle fake news (meglio affidarsi ai ‘professionisti dell’informazione’ come Open).
Come una nave stracarica di cianfrusaglie, la scuola affonda trascinando con sé quei pochi docenti e alunni che vorrebbero una scuola diversa, tradizionale e autentica, capace di contrapporsi orgogliosamente ad un mondo esterno marcescente, che si conservi integra, rimanendo se stessa, un fortino dalle mura spesse e impenetrabili, dove la cultura, i libri, le lezioni frontali, socratiche e peripatetiche risuonino fiere nelle sue stanze.
Ma forse il suo destino, frutto di un accumulo di docenti che non supererebbe nemmeno il test di Turing, è proprio quello di trasformarsi in una macchina al servizio di surrogati dell’insegnante: chat bot che assistano emotivamente gli alunni, che si rivolgano a loro con una didattica personalizzata, che li supportino nel loro percorso di obbedienti subalterni. 



AM