Shame, dipendenze e pensieri ossessivi

Shame di Steve McQueen non è un semplice film sulla dipendenza sessuale, ma un'indagine filosofica sulla condizione umana quando il desiderio si trasforma da ricerca di pienezza a meccanismo di fuga.

La dipendenza dal sesso non porta al piacere, ma all'anestesia emotiva, alla lacerazione interiore, al vuoto esistenziale. Ogni "conclusione" sessuale dovrebbe portare sollievo, ma diventa immediatamente necessario ricominciare. È la condanna di Sisifo in versione contemporanea: la compulsione che si rinnova infinitamente, senza mai raggiungere una vera soddisfazione.

Nel film il protagonista Brandon non riesce a fare sesso con la collega di cui si innamora proprio perché c'è un coinvolgimento emotivo reale, mentre riesce a concludere laddove gli incontri sono meccanici, anonimi, svuotati di ogni elemento relazionale. Un circolo vizioso tra compulsione e disgusto di sé.

Anche quando Brandon sembra voler cambiare, il mondo continua a tentarlo. La scena in metropolitana è magistrale nella sua ambiguità: la donna con la fede nuziale ricambia lo sguardo di Brandon. È fidanzata, forse sposata, eppure ammicca. La tentazione non è solo dentro Brandon ma è strutturale alla società contemporanea. Anche chi apparentemente vive nella "normalità" delle convenzioni sociali (il matrimonio, la fedeltà) partecipa a questo gioco di sguardi, di disponibilità sotterranea. Lo stesso accade in discoteca: la donna fidanzata non si sottrae. Il mondo è complice della dipendenza, la alimenta continuamente.

Nelle tradizioni monastiche cristiane, i Padri del Deserto parlavano di logismoi, pensieri ossessivi che assediano l'anima. Non basta il desiderio di purificazione: il mondo, la carne, il demonio - o, in termini contemporanei, la società iper-sessualizzata e la struttura stessa del desiderio - continuano a bussare. La tentazione di Cristo nel deserto non avviene una volta sola: ritorna, si ripresenta sotto nuove forme.

Anche nella tradizione buddhista, Mara - la personificazione dell'illusione e dell'attaccamento - non abbandona il praticante dopo l'illuminazione, ma continua a manifestarsi, richiedendo vigilanza costante.

Non c'è un punto d'arrivo, una guarigione definitiva. C'è solo la scelta continua, rinnovata ogni giorno, ogni ora. La dipendenza, quindi, non porta solo alla distruzione della capacità di amare e connettersi autenticamente. Porta a una forma di inferno esistenziale dove anche il desiderio di cambiare non basta, perché il mondo stesso è strutturato per riattivare continuamente la compulsione.

Spensieratezza rubata

Ci sono bambini di quattro/cinque anni che hanno l'agenda più piena di un manager.

Lunedì inglese, martedì nuoto, mercoledì musica, giovedì calcio, venerdì teatro. Non sia mai che "perdano tempo" o restino "indietro".

A quattro, cinque anni invece di scoprire il mondo con meraviglia, imparare la noia, inventare giochi con due cuscini e una coperta, li riempiono già di aspettative, di obiettivi da raggiungere. 

È pochissimo é poi il tempo che rimane per giocare spontaneamente con gli amici del parco, perché "deve sviluppare i suoi talenti".

I bambini hanno bisogno di noia. Di tempo vuoto da riempire con la fantasia. Di ginocchia sbucciate. Di pomeriggi a non fare "niente di produttivo". Hanno bisogno di provare e riprovare senza pubblico, di essere mediocri in qualcosa senza sentirsi inadeguati.

Non stanno preparando un curriculum. Stanno vivendo una fase della vita meravigliosa.

E invece li si carica di ansia da prestazione prima ancora che sappiano leggere. Li si guarda con sospetto se non sono "al livello" degli altri, se preferiscono giocare con la terra invece che imparare la terza lingua. Come se l'infanzia fosse un investimento da ottimizzare e non un tempo prezioso da vivere.

I bambini devono semplicemente  essere bambini. Correre senza meta, ridere, inventare cose. Crescere senza bruciare le tappe senza entrare nelle logiche della competizione perenne.

Spensieratezza rubata.

Piccoli adulti stressati crescono.