Il legame strutturale tra malattia e cultura

In un articolo del '36 Eliade si sofferma sull'idea che le malattie caratteristiche di un'epoca – quali ad esempio la peste nel medioevo, o la sifilide nella modernità – intrattengano una solidarietà tutt'altro che accidentale con la cultura e la visione del mondo propria del loro tempo. In altre parole, se da un lato il modo in cui una società ha definito il proprio modello di salute ci rivela la condizione umana che essa incoraggia e che ritiene desiderabile, dall'altro la via in cui concepisce il malato e la malattia ci svelano le paure, le ossessioni e i tabù di una civiltà. Il suggerimento di Eliade è prezioso perché indica un percorso ermeneutico che solo in parte è stato affrontato, e perlopiù ponendo l'accento sui legami tra dispositivo sanitario e prassi del potere – Foucault docet – piuttosto che in direzione di una filosofia della cultura che abbia come chiave di volta il modo in cui l'uomo ha concepito salubrità e patologia.

Lo snodo epocale che stiamo vivendo, avendo il proprio evento fondante nel mito della pandemia, e avendo legittimato la progressiva ristrutturazione dei rapporti di potere su esigenze di ordine sanitario, si rivela un terreno particolarmente fecondo per sondare l'ipotesi di un legame strutturale tra malattia e cultura. Difficilmente sarebbe infatti pensabile che, senza un preesistente background culturale adeguato, l'ideologia pandemica avrebbe attecchito con tale forza ed efficacia. La nostra ipotesi è che l'uomo solidale con tale pensiero abbia caratteristiche specifiche riscontrabili solo nell'epoca postmoderna, e che non sia l'emergenza sanitaria a favorirle, ma piuttosto queste ultime a secernere l'ideologia pandemica come riflesso della propria natura.

In un orizzonte in cui l'uomo è ridotto essenzialmente alla dimensione biologica, la salute fisica è il bene primario. Tale salute coincide con l'astratta condizione di assenza di qualsiasi disturbo, ossia uno stato percepito costantemente come precario ed eccezionale. L'uomo astrattamente sano è concretamente sempre malato, o a rischio di malattia, e pertanto ogni aspetto della vita sociale deve essere adeguato – e può essere sacrificato – in vista della salvaguardia della salute del singolo. La minaccia principale è costituita da agenti invisibili e inafferrabili, che solo la tecnologia e il suo progresso illimitato permettono di contrastare, e che, in un futuro costantemente procrastinato, sapranno sconfiggere in modo definitivo. Nel frattempo, lo stato di precarietà sancito come costitutivo si traduce politicamente in uno stato permanente – tuttalpiù intermittente – di emergenza, e socialmente in una forma di mobilitazione totale di tipo sanitario.

La radice postmoderna di questo impianto è evidente. Da una parte abbiamo le varie forme di riduzionismo materialista, le quali portano l'essere umano a identificarsi esclusivamente con il proprio sostrato fisico e biologico. Dall'altra, il relativismo etico e lo scientismo, combinandosi, danno luogo al modello tecnocratico, ossia una concezione del potere in cui la dimensione politica, svuotatasi, è risolta in una serie di automatismi affidati a tecnici e specialisti, o all'intelligenza artificiale. L'individualismo, nella sua veste moralista, ben si presta a favorire l'atomizzazione sociale, travestita però da cura del collettivo, la quale altro non è che una proiezione dell'egoismo su scala comunitaria. Infine, i processi avanzati di secolarizzazione propri del contemporaneo portano a trasporre le ansie apocalittiche e messianiche, eredità tipicamente moderna, all'interno di un immaginario clinico e tecnologico, dove il perenne senso di precarietà dell'uomo indifeso e abbandonato a sé stesso è compensato dal suo superamento in chiave transumanista.