La maturazione di P.P.Pasolini

Sulla sua figura di Pier Paolo Pasolini negli anni si è già detto tutto e il contrario di tutto, nel bene e nel male.
Quando ci si trova di fronte a una figura di spessore, e Pasolini lo è stata, bisogna provare ad inquadrarla sotto angolature differenti. Molti sono quelli che lo hanno elogiato solo dopo la sua tragica morte, tutt'oggi misteriosa, manifestando la solita ipocrisia che Pasolini aveva già ampiamente denunciato. Quando era in vita, la quasi totalità degli intellettuali lo aveva attaccato, i "compagni" lo fecero espellere dal partito, e ci viene in mente ad esempio il disprezzo che manifestava un certo Umberto Eco nei suoi confronti.  

Pasolini fu uno studioso molto profondo e per certi versi “contraddittorio”. Ed è proprio questa contraddizione che vogliamo sottolineare. 
La contraddizione, ma è più corretto parlare di maturazione, la si può riscontrare distinguendo due fasi della sua vita.
La prima comincia con le sue prime esperienze letterarie e cinematografiche e si estende nell'arco di trent'anni, dagli anni quaranta a metà degli anni sessanta, in cui domina in lui un'impostazione molto marxista e storicista che lo risucchiò spessissimo nelle cause tipiche dell’ antifascismo di maniera influenzato dalla propaganda comunista di allora. 
Nella seconda fase invece, prevale una lucidità differente, in alcuni passaggi si coglie come il Pasolini degli ultimi anni avesse cominciato a rendersi conto di una dimensione metastorica. Negli appunti finali di Petrolio, nel capitolo in cui racconta di una “festa antifascista”, pare cominciare a prendere in considerazione una visione ciclica opposta all'idea di una storia unilineare. 

“Su ciò si era fondato tutto il razionalismo occidentale moderno, proprio mentre la scienza dimostrava che il tempo non era affatto fondato sull’unilinearità e successività e anzi addirittura non esisteva, tutto essendo compresente (come già avevano insegnato le religioni dravidiche).”

Pasolini scrisse di una storia in cui tutto coesiste in principio. Ed in quest’ottica opere come Medea, ma anche Edipo Re, acquistano una valenza significativa. Medea rappresentava la tradizione, Giasone il mondo moderno, mentre il finale tragico non fu altro che un’ allegoria dell'inevitabile degrado dell'umanità. 
A prova della crescita intellettuale che stava avendo Pasolini, poco prima di essere barbaramente ucciso, riportiamo un passo direttamente dalle Lettere Corsare in cui affermava di essersi emozionato nella lettura di un libro di Ananda Coomaraswamy:

"Coomaraswamy si rivolge con grande cura al lettore occidentale, riferendosi con precisione filologica ai testi di cui cita parole, frasi o frammenti, dandone anche sempre, tra parentesi, il testo in lingua originale; non solo, ma fornendo anche l’analogo concetto in quella lingua universale della filosofia che è il greco di Platone, oppure addirittura citando testi mistici occidentali (esprimenti sempre analoghi concetti, soprattutto Meister Eckhart, e, con grande pertinenza, il Dante del Purgatorio e del Paradiso)” 

Ma la parte più sorprendente è come Pasolini riuscì a captare aspetti gerarchici del Medioevo e del sistema Indù: 

“In realtà il reazionarismo della religione indù è un errore di ottica, come osserva Ananda Coomaraswamy. E ha ragione: la Chiesa Cattolica non era reazionaria nel Medioevo. La cultura del feudatario e quella del contadino erano la stessa cultura. Se posso ripeterlo ancora una volta, la rassegnazione non ha niente da invidiare alla rivolta, naturalmente in una società sostanzialmente non contraddittoria: dove il figlio assume il ruolo del padre, e la obbedienza che – nelle società antiche – porta a questo, è suprema dignità. L’assimilazione al padre e la riassunzione dei suoi doveri, che divengono casi ereditari, è la causa prima della divisione della società in caste, secondo il credente Ananda Coomaraswamy. Certo non lo è unicamente, ma che importa? Chi pativa e viveva questa forma arcaica di «divisione del lavoro» ci credeva fermamente e l’accettava: un «universo umano» conta solo visto dal suo interno. Inoltre, dal testo di Ananda Coomaraswamy, veniamo a sapere una cosa sorprendente. Non è vero che un individuo sia legato alla sua casta dalla vita alla morte. Egli può uscire da questo determinismo sociale – che a noi sembra così imperdonabilmente ingiusto – attraverso il «risveglio». Il Risvegliato, che giunge al quarto e ultimo grado di conoscenza, cioè all’apatia e alla morte in vita, e vive assolutamente privo di tutto, può provenire dalla casta dei regnanti o dei sacerdoti, ma può provenire anche dalla casta dei paria. Ciò che dà uguaglianza e libertà è la santità, cioè la liberazione dalla coscienza del bene e del male, e l’abbandono non solo dei beni della vita, ma anche del rituale religioso e della stessa teologia! Il supremo insegnamento (per noi) della religione indiana è infatti il seguente: «Una chiesa o una società che non fornisca i mezzi per svincolarsi dalle sue proprie istituzioni, che impedisca ai suoi membri di liberarsi da essa, riduce a nulla la sua suprema ragione di essere».”

Ed ancora, Pasolini si dice attratto dalle conclusioni “pratiche” di un sistema Tradizionale monarchico : 

“Ma, da occidentale viziato (benché, ripeto, molto emozionato dalla bellezza e verità del mito) ciò che mi ha più attratto sono state ancora delle conclusioni pratiche. Primo: il rapporto del «Risvegliato» – cioè dell’uomo che giunge alla conoscenza del Sé reale – con l’etica. Secondo: il rapporto del Risvegliato con la società. La filosofia indiana è sempre apparsa una filosofia politicamente reazionaria, conservatrice cioè di un potere monarchico o feudale.”
  
Inoltre trovo molto interessante anche il suo ultimo “Divina Mimesis” dove Pasolini nell'introduzione afferma: 

“Ah, non so dire, bene, quando è incominciata: forse da sempre. Chi può segnare il momento in cui la ragione comincia a dormire, o meglio a desiderare la propria fine? Chi può determinare le circostanze in cui essa comincia a uscire, o a tornare là dove non era ragione, abbandonando la strada che per tanti anni aveva creduto giusta, per passione, per ingenuità, per conformismo? Ma come giunsi, in quel mio sogno fuori dalla ragione – di breve durata, e così definitivo per il resto della mia esistenza (così almeno immagino) – ai piedi di un «Colle», in fondo a quella orribile «Valle» – che mi aveva talmente riempito il cuore di terrore per la vita, e per la poesia – guardai in alto, e vidi, lassù in cima, una luce, una luce (quella del vecchio sole rinato) che mi accecava: come quella «vecchia verità», su cui non c’è più nulla da dire. Ma che riempie di gioia il fatto di aver ritrovata, anche se porta con sé, essa sì, realmente, la fine di tutto.”

Interessante esplorare anche il rapporto tra Pasolini ed Ezra Pound, di cui l’artista friulano nutriva profondo rispetto. In una famosa intervista, Pasolini intervistando il vecchio Pound ad un certo punto infilò nel discorso una considerazione progressista alchè Pound sospirò e rispose con la sua solita calma:  

"Lei dice “nazioni industrializzate e quindi culturalmente avanzate”... è questo “quindi” che non mi va...".
  
Pasolini capì e nel post intervista scrisse:

“Pound chiacchiera nel cosmo. Ciò che lo spinge lassù con le sue incantevoli ecolalie è un trauma che lo ha reso perfettamente inadattabile a questo mondo. L’ulteriore scelta del fascismo è stata per Pound un modo sia per mascherare la sua inadattabilità, sia un alibi per farsi credere presente. In che cosa è consistito questo trauma? Nella scoperta di un mondo contadino all'interno di un mondo industrializzato, di molti decenni in anticipo sull' Europa. Pound ha capito, con abnorme precocità, che il mondo contadino e il mondo industriale sono due realtà inconciliabili: l’esistenza dell’una vuol dire la morte (la scomparsa) dell’ altra".

E’ evidente che entrambi avevano compreso con grande lucidità come dietro le concezioni progressiste ci fosse già in agguato un nuovo potere omologante pronto a distruggere “le varie realtà particolari”, sostituendole con  “valori alienanti e falsi”. 

La weltanschauung di Pasolini, per quanto stesse maturando esponenzialmente, era ancora incompleta. Se son si fosse lasciato trascinare dalla società moderna, vivendone le contraddizioni in modo così estremo, probabilmente in futuro avrebbe continuato ad allargare ulteriormente i suoi orizzonti.
Egli dedicò la propria esistenza a combattere, attraverso l’arte, la società dei consumi. Capì sin troppo bene il cambiamento che stava avvenendo nei valori, l'alienazione sociale, il bluff dell'Italia neoindustriale del miracolo economico, ma da una prospettiva parziale che stava però man mano ampliando.  

Il grande intuito e l’intelligenza fuori dall'ordinario di Pasolini, nel tempo lo stavano portando a percorrere vie inesplorate che gli stavano aprendo una nuova visione del mondo, lontana dal materialismo marxista.


"Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d'ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più".
(P.Pasolini)



La propaganda di Veit Harlan, un problema metastorico

Süss l'ebreo (Jud Süß) è un film di propaganda nazionalsocialista diretto da Veit Harlan, fu una delle pellicole preferite di Heinrich Himmler.

Il lungometraggio di Harlan prende spunto dalla vicenda di Joseph Süß Oppenheimer, un finanziere di origine ebraica che visse nel ducato del Württemberg nel ‘700.

Nel film si narra la storia di questo tranquillo paesino tedesco nel quale un ebreo di nome Süss tenta di ingannare i suoi concittadini germanici attraverso un sistema di prestiti e conseguenti debiti di talleri verso il Duca. Pian piano egli diviene ministro delle finanze e la situazione degenera.

La trama dell'opera assomiglia al Faust di Goethe (con le dovute proporzioni qualitative) in chiave propagandistica, dove Faust è Suss, Mefistofele è la cultura ebraica, Gretchen è Dorothea e l'Arcangelo è la volontà "pura" del popolo del Wurttemberg, impavido nel ristabilire ordine, moralità e pulizia in una società avvelenata dall’avidità di potere di Opphenaimer.

Dal punto di vista filmico, il lavoro di Harlan e i suoi collaboratori fu davvero impeccabile, montaggio, fotografia, colonne sonore, costumi, attori e sceneggiatura straordinari.

Tuttavia, nonostante il valore del film, pesò la macchia propagandistica “antisemita”.

Ma trattasi davvero di un film così pericoloso? Proviamo a capirlo.

Innanzitutto bisogna cominciare a comprendere cosa significa la parola antisemitismo.

I “semiti” sono una famiglia di popoli che si è diffusa fra il Mediterraneo e l'Arabia meridionale, per poi estendersi anche nel Nordafrica, mentre l’aggettivo “semitico” corrisponde alla famiglia linguistica corrispondente. Pertanto l’accostamento che oggi si fa di questi due termini con “ebreo” ed “ebraico” è errato. Ne consegue che antisemita = antiebraico non è corretto, poiché il temine antisemita dovrebbe indicare l’ostilità totale verso l’intera famiglia semitica che oggi trova la sua componente più numerosa nelle popolazioni di lingua araba.

Detto ciò, il film non è certamente così macabro come lo si descrive considerando che non vi è una sostanziale differenza tra il lavoro di Harlan e “Il Mercante di Venezia” di Shakespeare, ritenuto all’unanimità un capolavoro mondiale, dove l’ebreo Shylock fu dipinto in maniera ancora più perfida rispetto a Suss.

Certo, chiaramente la difformità sta nell’utilizzo che si è fatto della pellicola in questione, dal momento che fu il più grande successo cinematografico della propaganda di Goebbels.

Ed è proprio questo il punto, l’ NSDAP utilizzò reali aspetti culturali, per estrarne un messaggio finalizzato a condizionare la coscienza del popolo tedesco durante la seconda guerra mondiale.

Ai tempi di Hitler, i documentari di propaganda mostravano come tutte le posizioni più rilevanti della società fossero occupate da ebrei, si creò così nella gente un sentimento di frustrazione nel momento in cui gli venne mostrata questa sopraffazione, ci si convinse che il popolo tedesco fosse alla mercé di un potere occulto e che il comunismo marxista (da Marx a Trotzky ) fosse una minaccia, anch'esso di derivazione ebraica.

La questione fondamentale però da porsi è questa: come mai nella storia si è ripresentato più volte il “problema ebraico”?

Le spiegazioni che si potrebbero dare a una domanda del genere sono molteplici ma partiamo da alcune basi.

Gli ebrei non costituiscono:

- una comunità religiosa (esistono difatti ebrei atei, agnostici, giudei, ortodossi, ebrei convertiti ad altro ecc)
- un gruppo nazionale (abbiamo ebrei israeliani, americani, russi, francesi, italiani ecc.)
- un gruppo linguistico (parlano inglese, francese, tedesco ecc), gli unici che parlano una lingua semitica sono quelli trasferitesi in Palestina.
- e soprattutto non sono una razza (troviamo ebrei bianchi, neri, gialli).

Ecco che dunque il “problema” entra in sfere più complesse.

Bisogna comprendere come questa “unità” abbia conservato nei secoli un' attitudine precisa verso funzioni sociali ed economiche molto particolari, come sia possibile che una percentuale così bassa dell’umanità sia sempre riuscita ad insediarsi nelle posizioni alte della società ed abbia spesso mostrato determinate caratteristiche, come per esempio la spiccata intelligenza in senso critico-matematico o le notevoli capacità commerciali ed economiche.

Per entrare nel cuore di tutto questo bisogna per forza di cose muoversi oltre il tangibile, attraverso il gioco delle azioni e reazioni concordanti, di cause ed effetti, ma al di là di orizzonti ristretti e materialistici.
Ogni qualvolta un effetto sopravanza e trascende le sue cause tangibili, ci si deve proiettare in una dimensione tridimensionale della storia per comprendere cosa rappresentano determinate ideologie sociali, politiche o religiose.

Esiste una relazione bidirezionale che regola la vita politica e la spiritualità.

L’ebreo come razza antropologica non esiste, bensì esiste come forma spirituale che ha dei caratteri dominanti.

Chi è interessato all’argomento può cominciare a studiare i fondamenti teologici della Torah, dello Zohar ed il Talmud. Letture complesse che richiedono tanto tempo e formazione.

Ma torniamo al film di Veit Harlan, che giustamente uscì innocente dal processo di Norimberga.

Prima abbiamo citato lo Shylock di Shakespeare, ma è pieno di esempi simili sia della storia recente che non.

Facciamone giusto qualcuno, F.Dostojevsky ne “I Demoni” dipinse in un determinato modo l’ebreo Ljàmsin, ne “Diario di uno scrittore” attaccava con furore il potere internazionale ebraico, e ne ”I Fratelli Karamazov” poi non mancano altri riferimenti.
Ma se si analizzano le opere di altri grandissimi autori, riconosciuti all’unanimità, è davvero pieno di rimandi, da Tolstoj che in "Guerra e Pace" fa comparire ebrei in qualità di trafficanti e usurai, in Gogol che in "Taras Bul'ba" dipinge l'ebreo Jankel come un prestatore di denaro, le lettere antisemite di Thomas Elliot, la cena dei Daudet descritta da Proust, la Divina Commedia di Dante, dai pamphlet terribili di Celinè (l’apice irraggiungibile dell’antiebraismo).

Ma non solo, Voltaire spese delle parole tremende, così come Martin Lutero (che viene anche citato nel film tramite alcuni versetti), gli anarchici Bakunin e Proudhon idem, stessa cosa dicasi per Napoleone, Cicerone, Tertulliano, Tacito, Orazio, Maometto sino a giungere all’epoca A.C con Diodoro o con le civiltà egizie.

Vi sono dunque inclinazioni precise, documentate storicamente, pertanto sorge la necessità di navigare tra storia, metastoria, leggi di natura, leggi metafisiche per una comprensione reale di questo fenomeno.

Quel che ha rappresentato la cultura ebraica da millenni è da un lato argomento di studio serio e complesso, dall’altro una tematica molto pericolosa poiché la presa di coscienza di determinate tendenze e caratteristiche può spesso far sfociare nell’astio.

D’altronde il fanatismo, incline a vedere dappertutto l’ebreo come il deus ex machina è una posizione banale.

Smuovere le masse rimanendo in superficie di questioni metastoriche, così come è stato fatto più volte in passato, ha creato, come sappiamo, violenza e distruzione.

E' necessario invece inquadrare un più vasto ordine di cause, prenderne coscienza e comprendere davvero un popolo antichissimo, certamente meritevole di rispetto con i suoi pregi e difetti.