Educazione siberiana di Nicolai Lilin

Transnistria, ex Urss, repubblica autoproclamatasi indipendente nel 1990, non riconosciuta da nessuno stato. Regione aspra, gelida, inospitale. Terra di tutti e di nessuno, landa desolata, grigia, cupa, sovente teatro di scontri, criminalità, misfatti d'ogni sorta, dove convivono, in apparente contraddizione, onore ed illegalità, altruismo e disumana ferocia, amore puro ed odio cieco. È qui, in questo luogo dimenticato da Dio, quasi stagliante su un'immaginaria scogliera oltre le colonne d'Ercole del conosciuto, che Nicolai Lilin ambienta il suo "Educazione siberiana". Caratterizzata da una prosa disidratata ed uno stile agile, veloce e tagliente, denso di contenuti e descrizioni dettagliate, l'opera si presenta come un viaggio all'interno di un microcosmo a noi sconosciuto, un diario di bordo dove il protagonista, Kolima, racconta con dovizia di particolari la sua esistenza turbolenta, le sue drammatiche vicissitudini, la sua "educazione", le sue radici, il profondo senso d'appartenenza che lo caratterizza, i rigidi codici comportamentali imposti dalla sua comunità. Il testo, ricco di incisi e flashback, dipinge, con squarciante energia, scenari illuminati da una luce quasi caravaggesca, dove la tradizione che affonda le sue radici nella notte dei tempi, assume un'aura sacra, inscalfibile, che rende il mondo dove la storia si sviluppa e prende forma chiuso, lontano, quasi inaccessibile. Reale, intenso, toccante, per nulla scontato, il romanzo pone il lettore in una condizione inusuale, che lo porta quasi a parteggiare per il "male", trasportandolo in una dimensione affascinante, spaventosa, cupa, distante anni luce dalle abitudini, dal consumismo, dai valori e dallo stile di vita occidentale. Un testo iconico, particolare, a tratti filosofico, specchio fedele di uno spaccato di vita cruenta, fiera, dolorosa, che non lascia indifferenti e fa immergere chi si inoltra tra le sue pagine, in un universo costellato di simboli, rituali, ancestrale saggezza e brutale verità. Lilin ci dona, dunque, un affresco impietoso, carico d'umanità, dove sacro e profano, giusto e sbagliato, vita e morte, si fondono in uno straordinario e continuo ossimoro, tipico di un mondo affascinante e crudele, a tratti incomprensibile, spesso in totale contrasto con la nostra visione del tangibile. Ben aderiscono al testo in questione gli immortali versi di Fabrizio De Andrè: "Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior". È forse questo il senso ultimo, intimo, rivoluzionario che vuole comunicarci, a suo modo, l'autore. Dalla turpitudine più completa, può nascere un bene molto più forte, avvolto da una luce ancor più fulgida e pura, capace, talvolta, di squarciare con la sua veemenza, anche la notte più oscura dell'anima.