Scuola e retorica progressista - G.Papini

Ma cosa hanno mai fatto i ragazzi, gli adolescenti, i giovanotti che dai sei fino ai dieci, ai quindici, ai venti, ai ventiquattro anni chiudete tante ore del giorno nelle vostre bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello? Con quali traditori pretesti vi permettete di scemare il loro piacere e la loro libertà nell'età più bella della vita e di compromettere per sempre la freschezza e la sanità della loro intelligenza? Non venite fuori con la grossa artiglieria della retorica progressista: le ragioni della civiltà, l'educazione dello spirito, l'avanzamento del sapere… Noi sappiamo con assoluta certezza che la civiltà non è venuta fuor dalle scuole e che le scuole intristiscono gli animi invece di sollevarli e che le scoperte decisive della scienza non son nate dall'insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola o non v'insegnavano. Sappiamo ugualmente e con la stessa certezza che la scuola, essendo per sua necessità formale e tradizionalista, ha contribuito spessissimo a pietrificare il sapere e a ritardare con testardi ostruzionismi le più urgenti rivoluzioni e riforme intellettuali. Essa non è, per sua natura, una creazione, un'opera spirituale ma un semplice organismo e strumento pratico. Non inventa le conoscenze ma si vanta di trasmetterle. E non adempie bene neppure a quest'ultimo ufficio - perché le trasmette male o trasmettendole impedisce il più delle volte, disseccando e storcendo i cervelli ricevitori, il formarsi di altre conoscenze nuove e migliori. Le scuole, dunque, non son altro che reclusori per minorenni istruiti per soddisfare a bisogni pratici e prettamente borghesi. Per i maestri c'è soprattutto la ragione di guadagnarsi pane, carne e vestiti con una professione ritenuta "nobile" e che offre, in più, tre mesi di vacanza l'anno e qualche piccola beneficiata di vanità. Aggiungete poi a questo la sadica voluttà di potere annoiare, intimorire e tormentare impunemente, in capo alla vita, qualche migliaio di bambini o di giovani. Nessuno - fuorché a discorsi - pensa al miglioramento della nazione, allo sviluppo del pensiero e tanto meno a quello cui si dovrebbe pensar di più: al bene dei figliuoli. L'uomo, nelle tre mezze dozzine d'anni decisive nella sua vita (dai sei ai dodici, dai dodici ai diciotto, dai diciotto ai ventiquattro), ha bisogno, per vivere, di libertà. Libertà per rafforzare il corpo e conservarsi la salute, libertà all'aria aperta: nelle scuole si rovina gli occhi, i polmoni, i nervi (quanti miopi, anemici e nevrastenici possono maledire giustamente le scuole e chi l'ha inventate!) Libertà per svolgere la sua personalità nella vita aperta dalle diecimila possibilità, invece che in quella artificiale e ristretta delle classi e dei collegi. Libertà per imparare veramente qualcosa perché non s'impara nulla di importante dalle lezioni ma soltanto dai grandi libri e dal contatto personale con la realtà. Nella quale ognuno s'inserisce a modo suo e sceglie quel che gli è più adatto invece di sottostare a quella manipolazione disseccatrice e uniforme ch'è l'insegnamento. Nelle scuole, invece, abbiamo la reclusione quotidiana in stanze polverose piene di fiati - l'immobilità fisica più antinaturale - l'immobilità dello spirito obbligato a ripetere invece che a cercare - lo sforzo disastroso per imparare con metodi imbecilli moltissime cose inutili - e l'annegamento sistematico di ogni personalità, originalità e iniziativa nel mar nero degli uniformi programmi. Fino a sei anni l'uomo è prigioniero di genitori, bambinaie e istitutrici; dai sei ai ventiquattro è sottoposto a genitori e professori; dai ventiquattro è schiavo dell'ufficio, del caposezione, del pubblico e della moglie; tra i quaranta e i cinquanta vien meccanizzato e ossificato dalle abitudini (terribili più d'ogni padrone) e servo, schiavo, prigioniero, forzato e burattino rimane fino alla morte.

Lasciateci almeno la fanciullezza e la gioventù per godere un po' d'igienica anarchia! L'unica scusa (non mai bastante) di tale lunghissimo incarceramento scolastico sarebbe la sua riconosciuta utilità per i futuri uomini. Ma su questo punto c'è abbastanza concordia fra gli spiriti più illuminati. La scuola fa molto più male che bene ai cervelli in formazione. Insegna moltissime cose inutili, che poi bisogna disimparare per impararne molte altre da sé. Insegna moltissime cose false o discutibili e ci vuol poi una bella fatica a liberarsene - e non tutti ci arrivano. Abitua gli uomini a ritenere che tutta la sapienza del mondo consista nei libri stampati. Non insegna quasi mai ciò che un uomo dovrà fare effettivamente nella vita, per la quale occorre poi un faticoso e lungo noviziato autodidattico. Insegna (pretende d'insegnare) quel che nessuno potrà mai insegnare: la pittura nelle accademie; il gusto nelle scuole di lettere; il pensiero nelle facoltà di filosofia; la pedagogia nei corsi normali; la musica nei conservatori. Insegna male perché insegna a tutti le stesse cose nello stesso modo e nella stessa quantità non tenendo conto delle infinite diversità d'ingegno, di razza, di provenienza sociale, di età, di bisogni ecc. Non si può insegnare a più d'uno. Non s'impara qualcosa dagli altri che nelle conversazioni a due, dove colui che insegna si adatta alla natura dell'altro, rispiega, esemplifica, domanda, discute e non detta il suo verbo dall'alto. Quasi tutti gli uomini che hanno fatto qualcosa di nuovo nel mondo o non sono mai andati a scuola o ne sono scappati presto o sono stati "cattivi" scolari. (I mediocri che arrivano nella vita a fare onorata e regolare carriera e magari a raggiungere una certa fama sono stati spesso i "primi" della classe). La scuola non insegna precisamente quello di cui si ha più bisogno: appena passati gli esami e ottenuti i diplomi bisogna rivomitare tutto quel che s'è ingozzato in quei forzati banchetti e ricominciare da capo.


Tratto da: "Chiudiamo le scuole!", G.Papini (Luni editrice)