Lo sguardo domestico

Osservare con sguardo "domestico" il proprio marito, la propria moglie, il proprio fratello, la propria sorella, i propri figli, crea alienazione. 

La famiglia, quando non è sana, diventa una prigione di etichette cristallizzate. Una volta assegnato un ruolo - il figlio "irresponsabile", la figlia "brava", il fratello "problematico" - diventa quasi impossibile liberarsene. I familiari diventano guardiani inconsapevoli di questa prigione identitaria, perpetuando dinamiche che negano la crescita, l'evoluzione e la trasformazione della persona. Perpetuare la quotidianità in questi contesti, magari per impedimenti economici o sociali, significa sentirsi negati nella propria essenza, ridotti a una caricatura di se stessi. Mentre fuori dal contesto familiare le persone chiedono loro consigli, li rispettano, riconoscono il loro valore, a casa vengono sistematicamente sottovalutati. Essere una persona stimata all'esterno e un fantasma nella propria casa è un fenomeno diffusissimo, che tocca trasversalmente ogni classe sociale e culturale. 

La vicinanza genetica e la condivisione prolungata di spazi e tempi creano una presunzione di conoscenza che blocca la vera comprensione. Alcuni familiari rimangono intrappolati nelle lenti del passato e non riescono a vedere oltre, cristallizzando l'immagine dell'altro in una versione anacronistica e limitante. Questo meccanismo si autoalimenta: più una persona cerca di dimostrare il proprio cambiamento all'interno della famiglia, più viene ricondotta ai vecchi schemi interpretativi. È come se esistesse una resistenza sistemica al riconoscimento dell'evoluzione individuale, una sorta di omeostasi relazionale disfunzionale.

Sono una minoranza le famiglie dove tali dinamiche non si verificano, sono quelle in cui regna una curiosità autentica verso l'altro.

In tanti si ritrovano in queste alienanti situazioni. Non serve la frustrazione, la soluzione migliore è quella di smettere di cercare validazione dove non può essere trovata. Se in famiglia vige questa stagnazione percettiva, è necessario cercare tra gli "estranei" chi sa vedere davvero chi siamo, senza l'utilizzo di lenti statiche e distorte dal peso della storia condivisa. 

La famiglia che non sa riconoscere il valore autentico di chi le appartiene non merita il potere di definirne l'identità. 


Invidia

L'invidia è un sentimento corrosivo che si annida spesso, non tanto negli sconosciuti ma dietro il sorriso dell'amico, di un familiare. É la gioia altrui che diventa veleno in corpo, che trasforma il successo del fratello in una sconfitta personale.

 Attenzione non è un fenomeno raro, è onnipresente. Sant'Agostino scriveva che l'invidia nasce da una perversione dell'amore stesso, dove si dovrebbe gioire per il bene dell'altro, si prova amarezza; ci si ritrova a mormorare nell'ombra. Non vi è una capacità di sentire i suoi traguardi come felicità condivisa, egli diventa un rivale segreto.

Aristotele notava come l'invidioso soffra non tanto per ciò che gli manca, quanto per ciò che l'altro possiede. È una forma peculiare di cecità spirituale che impedisce di vedere l'unicità della propria esistenza, perché troppo impegnati a misurare la distanza che la separa da quella degli altri.

In pochi sono immuni da questo veleno, chi più chi meno. Anche chi dice di non esserlo, spesso cova tali sentimenti all'interno di sé e neppure se ne rende conto.

Chi ha creato i social network lo sa bene, difatti tutto questo sbandieramento di vite "felici" (che in realtà non lo sono) non è altro che materiale per l'ingranaggio dell'invidia. Questa fragilità umana va osservata, accettata e combattuta. Riconoscere che anche nei rapporti più cari può annidarsi l'ombra dell'invidia è onestà e saggezza. Non esiste l'assenza di tentazioni, ma vittoria quotidiana su di esse.

Si guarisce da tale sentimento con la consapevolezza della propria unicità, riconoscendo la propria vita come dono irripetibile e non come una gara da vincere.

Affermare di non essere invidiosi non basta, bisogna osservarsi attentamente. Contro l'invidia che divide, solo una presa di coscienza dei meccanismi umani può prevalere.

"Lo Squalo" di Spielberg e la noia

Ieri sera al cinema proiettavano la versione restaurata de "Lo Squalo" di Spielberg.

Scena a cui abbiamo assistito: un gruppo di adolescenti entra in sala pensando di vedere un film nuovo, dopo neppure metà film, realizzato che si trattava di un film del 1975, si sono alzati e se ne sono andati tra improperi. Il motivo? Il film era "troppo lento". Questi ragazzi, cresciuti nell'era degli squali volanti e degli effetti speciali ipercinetici, non riuscivano a reggere i ritmi di un capolavoro con i suoi dialoghi densi, la tensione costruita gradualmente, l'uso magistrale del non-detto e del non-mostrato, appariva loro noioso, privo di quella stimolazione continua a cui sono abituati.

Questo episodio è l'ennesima conferma di come le nuove generazioni abbiano sviluppato una soglia di attenzione sempre più bassa per tutto ciò che richiede riflessione, pausa, contemplazione. Tutto deve essere veloce, spettacolare, adrenalinico con effetti speciali continui, esplosioni visive, azione costante e zero tempi morti. Deve essere istantaneo con gratificazione immediata e nessuna attesa, stile TikTok. D'altronde sono anche molti genitori ad alimentare questa cultura dell'istantaneo. Invece di educare i figli alla pazienza e alla contemplazione, scelgono la strada più semplice: tablet per calmarli, contenuti veloci per intrattenerli, gratificazioni immediate per evitare capricci. Quanti genitori si siedono con i figli a guardare un film "lento" spiegando loro il valore della costruzione narrativa invece di cambiare canale al primo segno di noia del bambino?

La società va veloce e spinge in questa direzione tiktokiana ma se già tra le mura domestiche si cresce in tal maniera…

Tutto inizia in casa, con scelte quotidiane apparentemente piccole ma dal grande impatto. Un genitore che non ha mai educato il figlio ad aspettare, ad annoiarsi, difficilmente crescerà un ragazzo capace di apprezzare la complessità artistica.

Tabaccherie postmoderne

Quando entriamo nelle tabaccherie rimaniamo sempre perplessi. Quelle che un tempo erano semplici punti vendita di giornali e sigarette si sono trasformate in qualcosa che assomiglia a dei micro-casinò di quartiere. Entrare oggi in una tabaccheria significa essere accolti da un tripudio di stimoli sensoriali calibrati: luci led che lampeggiano incessantemente, suoni elettronici che promettono fortune immediate, schermi che mostrano estrazioni in tempo reale. L'architettura stessa dello spazio è stata ripensata secondo una logica che Michel Foucault avrebbe riconosciuto come disciplinare: ogni elemento è posizionato strategicamente per catturare l'attenzione e indurre comportamenti specifici. Il gratta e vinci, esposto come caramelle colorate alla cassa, normalizza l'idea che la fortuna sia democraticamente accessibile, bastano pochi euro. Le slot machine, un tempo confinate nei casinò, hanno colonizzato questi spazi quotidiani trasformandoli in avamposti della ludopatia legalizzata. Ambienti dunque, progettati per alimentare meccanismi neurobiologici e psicologici noti. Spazi che intercettano e monetizzano fragilità economiche ed emotive, spesso nelle periferie e nei quartieri popolari dove la diseguaglianza sociale è più acuta.

La tabaccheria è oggi un crocevia dove si incontrano diverse forme di dipendenza - nicotina, gioco, consumo compulsivo - con il patrocinio dello Stato che attraverso i monopoli ricava ingenti profitti da queste attività che alimentano dipendenze. Essa è lo specchio di una società che ha trasformato ogni fragilità umana in una nicchia commerciale da sfruttare.



"La filosofia nel Medioevo" di Étienne Gilson

Il libro di Étienne Gilson "La filosofia nel Medioevo" è uno strumento prezioso per chi vuole comprendere davvero un'epoca ridotta a stereotipi.

Non è un testo che si può leggere velocemente o distrattamente. Gilson presenta sistemi di pensiero complessi che si sono sviluppati nell'arco di secoli. Ogni capitolo merita una lettura attenta, possibilmente accompagnata da appunti sui collegamenti tra i diversi filosofi e le loro scuole.

L'autore non si limita alla pura esposizione dottrinale, ma situa ogni pensatore nel suo ambiente culturale e sociale. Questa dimensione storica è fondamentale per comprendere come le idee filosofiche medievali fossero tutt'altro che astratte elucubrazioni.

Il Medioevo non è stato un blocco monolitico. Gilson mostra come questioni filosofiche centrali - il rapporto tra fede e ragione, il problema degli universali, la natura della conoscenza - abbiano trovato soluzioni diverse e sofisticate attraverso i secoli.

Filosofi come Anselmo d'Aosta, Tommaso d'Aquino, Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham hanno elaborato sistemi filosofici di notevole complessità e rigore.

L'approccio di Gilson dimostra come il Medioevo sia stato un periodo di intenso lavoro intellettuale, caratterizzato da dibattiti filosofici raffinati e da una continua ricerca di sintesi tra diverse tradizioni di pensiero.

Trattasi di una lettura limpida senza i filtri deformanti dei luoghi comuni sul Medioevo.

 Nel leggerlo ci va pazienza e calma, in modo tale da comprendere linguaggi e categorie concettuali diversi dai nostri. Solo così è possibile scoprire che dietro l'etichetta semplicistica di "oscurantismo" si nasconde una civiltà intellettuale di grande profondità.

Venditori di pseudo-trascendenza

Credevamo che il fenomeno dei "maestri spirituali" si fosse un po' affievolito, invece notiamo che i "corsi" di questi soggetti continuano a raccogliere parecchi adepti e ne saltano fuori sempre di nuovi.

Quando ci capita di ascoltare qualche minuto di questi fenomeni rimaniamo sempre allibiti. Proclamano certezze assolute su questioni che da millenni sfuggono alla comprensione umana, trasformando il mistero ontologico in merce di consumo.
Ieri ne abbiamo visto uno che, con grande sicumera, spiegava perché e in che cosa le persone si reincarnano, senza dubbio alcuno e la gente lo ascoltava estasiata.

Il principio apofatico del non sapere? E che cos'è? Questi "guru" spiegano la reincarnazione con la sicurezza di un manuale dell'Ikea.
Nessun rispetto per la complessità del reale, nessuna onestà intellettuale che ogni autentica ricerca spirituale dovrebbe comportare.

Vendono corsi di "risveglio spirituale" con la logica del profitto che penetra negli spazi più intimi dell'esistenza umana, trasformando la ricerca di senso in prodotto di consumo per masse secolarizzate e smarrite.

Tali cialtroni, perché solo così si possono chiamare, operano attraverso meccanismi psicologici e sociali studiati a tavolino per guadagnare. Ecco che i chakra diventano leve da azionare, la reincarnazione una certezza, la crescita spirituale un algoritmo da seguire.

"Guru" che promettono di rendere accessibile ciò che è per natura elitario non in senso sociale, ma in senso esistenziale poiché richiede dedizione, sacrificio, e soprattutto la capacità di stare nell'incertezza.

Venditori di una pseudo-trascendenza prefabbricata, che non chiede di attraversare la notte oscura dell'anima, non richiede anni di disciplina e dubbio, non pretende il sacrificio dell'ego. Offrono invece una spiritualità pronta per l'uso, compatibile con lo stile di vita consumistico.

A tali soggetti non va opposto uno scetticismo cinico. Basterebbe recuperare quella che Pierre Hadot chiamava la filosofia come esercizio spirituale. Una pratica di vita che integra rigore intellettuale e trasformazione esistenziale.
Coltivare l'incertezza come spazio di crescita autentica, preservare il senso del mistero contro ogni riduzionismo. Continuare a farsi domande invece di comprare risposte.

La crescita spirituale non è mai un prodotto da acquistare, ma un cammino di dubbio, meraviglia e umiltà.



"Dal mito al materialismo" di Attilio Mordini

Nell’opera “Dal mito al materialismo”, opera visionaria di Attilio Mordini, pubblicata nel 1966, viene affrontata la perdita progressiva della dimensione spirituale nella civiltà occidentale.

Mordini ci conduce in un viaggio attraverso la trasformazione culturale che ha portato l'umanità dal mondo del mito - colmo di simboli e significati trascendenti - alla mentalità materialista contemporanea, dove tutto è ridotto a materia e quantità.

Vi sono analisi delle fiabe tradizionali e del loro significato simbolico profondo, letture sul declino della civiltà occidentale attraverso l'abbandono dei valori spirituali e riflessioni lucide sul "progressismo" come forza distruttiva dell'ordine tradizionale.

Per Mordini il mito non è favola, ma veicolo di verità eterne. La sua opera è un monito contro una civiltà che, perdendo il contatto con il sacro, perde se stessa. Un libro che ancora oggi, a distanza di quasi sessant'anni, interroga sulla direzione della nostra cultura e sul prezzo pagato per il "progresso" materiale. 

Maghi

Il pensiero non è mero spettatore della realtà, ma un suo architetto silenzioso. Osserviamo.

Gli ermetisti lo chiamavano "Mentis vis creativa" – la forza creatrice della mente. I mistici orientali parlavano dell'illusione che diventa concreta attraverso la focalizzazione cosciente. La fisica quantistica, con il principio dell'osservatore che influenza l'osservato, conferma intuizioni millenarie. 

Tutte queste visioni, separate da secoli e continenti, convergono verso un dato: la realtà è malleabile, e la mente ne è lo strumento primario di modellazione.

Non stiamo ovviamente parlando del banale "pensiero positivo" della spiritualità commerciale New Age, né di facili promesse di manifestazione istantanea. Parliamo di qualcosa di più profondo e, per questo, più pericoloso – qualcosa che possiamo osservare nella trama sottile della nostra realtà quotidiana.

Quando fissiamo con intensità un'idea, un evento, una persona, creiamo una forma-pensiero che inizia a vivere di vita propria, nutrendosi della nostra energia psichica finché non trova il modo di manifestarsi nel mondo tangibile. È un processo lento, impercettibile, che opera attraverso meccanismi psicologici profondi: l'attenzione selettiva, la conferma cognitiva, l'attivazione reticolare che ci fa notare ciò che risuona con i nostri pensieri dominanti.

Ciò che chiamiamo "coincidenze" sono solo i primi vagiti di realtà che abbiamo inconsapevolmente partorito nelle camere segrete del nostro pensiero. Sincronicità che Jung definiva come "coincidenze significative" – eventi che non hanno connessione causale evidente eppure portano un messaggio, una direzione, una conferma di schemi interiori.

Bisogna essere consapevoli di essere potenziali maghi, pericolosi apprendisti stregoni della propria esistenza. 

Ogni pensiero è un seme gettato nel fertile buio dell'ignoto. 


L'Arte oltre l'Artista

Specialmente negli ultimi anni di coercizioni e lasciapassare, ci sono stati momenti di rottura quando si è scoperto che artisti apprezzati stavano sostenendo idee ripugnanti o compiendo azioni contraddittorie rispetto a quanto espresso nella propria arte. Gli esempi che potremmo fare sono davvero tanti, ma questo è un discorso generale, non rivolto ad un periodo specifico. Si può ancora apprezzare quell'artista che ci aveva esaltato e commosso? La questione non è meramente estetica, ma tocca il cuore stesso di cosa significhi creare e fruire arte.

Quando un pittore dipinge, quando un musicista compone, quando un poeta scrive, stanno forse semplicemente trasferendo sulla tela o sulla carta le loro convinzioni personali? O accade qualcosa di più misterioso e complesso? Come se fossero "attraversati" da qualcos'altro? L'ispirazione opera secondo logiche diverse da quelle della razionalità quotidiana. È come se l'artista diventasse un medium attraverso cui qualcosa di più grande si manifesta - che sia l'inconscio collettivo, l'essenza umana universale, o semplicemente la capacità della mente di attingere a verità che trascendono le limitazioni della personalità cosciente. L'arte parla di qualcosa che va oltre le limitazioni personali, attingendo a quella dimensione dell'esperienza umana che è universale e atemporale. Il problema nasce quando confondiamo l'artista con la persona. L'artista non è l'individuo biografico con le sue opinioni e le sue debolezze, ma è quel canale attraverso cui si manifesta una visione che può essere molto più ampia e profonda delle sue convinzioni personali. Questo non significa ignorare tutto ciò che si compie sul piano personale, ma riconoscere che l'arte opera su un piano diverso e la sua capacità di rivelare verità profonde sull'esistenza umana può emergere anche dalle contraddizioni e dalle imperfezioni di chi la crea. Non passa giorno che non sentiamo frasi del tipo "quello lì ha sostenuto quella coercizione, quell'altro non si è schierato contro quella situazione geopolitica, l'altro ha idee pessime e mi sta antipatico" ecc.

Riusciamo semplicemente a cogliere quella scintilla di verità universale che l'opera d'arte può contenere, indipendentemente dalle limitazioni di chi l'ha creata? Perché se non riusciamo a fare questo, probabilmente è meglio non ascoltare, né guardare le opere di nessuno. Se ci aspettassimo che le idee di un artista coincidessero con le nostre, probabilmente gli artisti ‘degni’ si conterebbero sulle dita di una mano.

Pratici

Tutti sognano che i propri figli diventino ingegneri, medici, avvocati, professioni da "colletto bianco". Ma quando si rompe il rubinetto, quando salta la corrente, quando crolla un muro o quando l'auto non parte, chi si chiama disperatamente? L'idraulico. L'elettricista. Il muratore. Il meccanico. C'è poco rispetto per le mani che tengono in piedi tutto, per quei mestieri incredibilmente considerati "di serie B". Fino al momento del bisogno però, perché poi diventano improvvisamente le professioni più preziose del mondo. 

Il lavoro manuale non è solo una professione, è una forma di sapienza antica. È la capacità di trasformare la materia, di risolvere problemi concreti, di creare qualcosa di tangibile e duraturo. L'elettricista non si limita a "sistemare i fili", garantisce la sicurezza delle case, il muratore non "mette solo mattoni" ma costruisce le fondamenta dell'esistenza. L'idraulico non "ripara solo tubi" ma assicura igiene e benessere. Il meccanico non "aggiusta solo motori", ma mantiene in movimento la società. 

Si parla tanto di AI che sostituirà molti lavori umani, be' non saranno certo quelli manuali. Qui si continuano a spingere figli solo verso università e master, creando generazioni che non sanno piantare un chiodo. Una società di teorici che dipende completamente da una classe di pratici sempre più ristretta e straniera, perché i figli degli italiani han deciso di non sporcarsi più le mani. Va restituita dignità al lavoro manuale. Non è affatto un ripiego per chi "non ce l'ha fatta negli studi". È una scelta di vita, peraltro, se vogliamo metterla sul piano economico, a volte anche più sicura di molte professioni "intellettuali". 

C'è gente che guarda dall'alto in basso chi "lavora con le mani" finché non ne ha bisogno, poi quando serve si rende conto che la vita non è fatta solo di camici bianchi e cravatte ma anche di tute blu e mani sporche di lavoro onesto. Questa mentalità va affossata.


Cognitivamente compromessi

Bambini di tre anni in spiaggia, seduti immobili sulla sabbia che invece di essere immersi tra castelli, palette e rastrelli, stanno con gli occhi incollati a uno schermo. 

Famiglie intere al ristorante, immerse in un silenzio innaturale, con sto smartphone acceso, appoggiato ad un bicchiere per tenere incollati i piccoli. 

Scene imbarazzanti.

Genitori incapaci di sostenere il peso della presenza, hanno trovato nel digitale il perfetto sostituto della propria responsabilità. Lo smartphone è il nuovo ciuccio, la nuova tata, il nuovo tutto.

Non servono neppure studi (che ci sono) per capire che questo modus operandi porta a modifiche in aree importanti per le funzioni cognitive di ordine superiore. Una sorta di riscrittura fisica del cervello in formazione. Chi lavora nelle scuole può confermare quanto siano in aumento il calo del livello di attenzione, la minore comprensione e la minore capacità di memoria. 

Abbiamo generazioni cognitivamente compromesse, incapaci di sostenere la fatica della concentrazione, dell'attesa, del silenzio fecondo.

Ogni minuto che un bambino trascorre davanti a uno schermo è un minuto sottratto alla costruzione di sé. È un minuto in meno di gioco libero, di noia creativa, di scoperta del mondo attraverso i sensi. È un minuto rubato alla formazione delle sinapsi.

Questi genitori che preferiscono la pace artificiale del loro bambino, ipnotizzandolo davanti allo schermo piuttosto che affrontare la fatica educativa di proporre alternative, di essere presenti, dovrebbero abdicare al loro ruolo. 

Non riproducetevi, l'umanità ve ne sarà grata.

Guru e paranoie

Avrete notato l'ormai dilagante presenza di reel di sedicenti esperti di psicologia che promettono di insegnare a riconoscere i manipolatori, i narcisisti. 

Ecco a voi "I 10 segnali del narcisista nascosto", "Come smascherare un manipolatore in 5 mosse" ecc

Un vero e proprio mercato della paranoia relazionale che genera milioni di visualizzazioni e giri di soldi.

L'attenzione è sempre rivolta verso l'esterno: il partner, il collega, l'amico, sono tutti potenziali minacce da decifrare attraverso liste di comportamenti preconfezionati che i guru ti spiegano, ovviamente a pagamento. 

Tali guru del riconoscimento manipolatorio utilizzano proprio le tecniche che dicono di combattere. Sfruttano le insicurezze delle persone, alimentano ansie relazionali, creano dipendenza dai loro contenuti attraverso la paura dell'inganno. Promettono sicurezza emotiva vendendo diffidenza sistematica.

Il meccanismo è perfetto: più si consumano questi contenuti, più si diventa sospettosi, più si cercano conferme delle proprie paure, più si torna a cercare nuovi "segnali da riconoscere". Un circolo vizioso che trasforma la ricerca di protezione in una prigione di paranoia.

Si creano così eserciti di grotteschi "detective" armati di liste nere psicologiche, convinti di possedere strumenti infallibili per smascherare le intenzioni altrui. Tali soggetti diventano man mano essi stessi manipolativi, applicando schemi interpretativi rigidi alle relazioni, etichettando comportamenti normali come pericolosi e trasformando ogni interazione in un campo di battaglia psicologico.

Che disastro. 

State lontani da questi ambienti.

Disertare

Credere oggi di potersi opporre al sistema è il più raffinato meccanismo attraverso cui il sistema stesso si riproduce.

Ogni forma di ribellione è prevista, calcolata, metabolizzata ancora prima che prenda forma. Il sistema non è un nemico esterno che si può combattere. È un organismo vivente che include ogni sua componente, perfino - e soprattutto - coloro che si illudono di stargli contro. La rivolta non è una minaccia, ma un ingranaggio necessario al suo funzionamento.

Quando un giovane urla contro il potere, quando un intellettuale critica le strutture sociali, quando un movimento protesta nelle piazze, non stanno facendo altro che svolgere una funzione precisa. Sono valvole di sfogo, meccanismi di scarico che impediscono l'accumulo di tensione, che rendono il sistema più flessibile e insieme più forte. Il sistema produce al suo interno gli anticorpi contro sé stesso. Genera i propri critici, alimenta i propri oppositori, crea gli spazi dove la protesta può manifestarsi senza mai minacciare realmente l'equilibrio complessivo. È come un organismo che include e neutralizza contemporaneamente ogni forma di conflitto.

Chi crede di essere fuori dal sistema, ne è dentro. Chi pensa di combatterlo, ne è già parte integrante.

Ogni strategia di opposizione frontale è destinata al fallimento. Non perché il sistema sia invincibile, ma perché la sua forza sta proprio nella capacità di riassorbire ogni spinta critica, ogni tentativo di rottura.

Per combattere il sistema al punto in cui siamo bisogna comprenderne le logiche. Non opporsi, ma disertare. Non gridare, ma sottrarsi. Non distruggere, ma disegnare spazi di autonomia che sfuggano alla sua logica di cattura.

Di questi tempi la libertà è una strategia di sottrazione silenziosa.



Complessità e complicazione

Essere complessi ed essere complicati sono due cose molto diverse. La complessità è nella realtà stessa: i sentimenti umani sono complessi, le relazioni sono complesse, il mondo è complesso. Ma questo non significa che dobbiamo renderli incomprensibili quando ne parliamo. Siamo stanchi di pensatori che trasformano intuizioni in labirinti di parole, filosofi che impiegano cento pagine per dire quello che si sarebbe potuto esprimere in dieci righe. La loro non è profondità, è nebbia. Quando qualcuno non riesce a farsi capire, il problema non è che il concetto è troppo elevato, è lui stesso a non avere chiarezza interiore. Chi ha davvero compreso qualcosa, sa anche come trasmetterlo. 

Non è questione di semplificare per farsi capire. Ci sono argomenti che per loro natura resistono alla semplificazione - la meccanica quantistica, aspetti filosofici, dinamiche psicologiche profonde - e pretendere di ridurli all'osso significherebbe tradirli. Ma anche di fronte alla complessità più irriducibile, l'intelligenza sta nel trovare ponti, analogie, esempi che permettano alle persone di avvicinarsi al cuore del problema. Essere intelligenti significa essere in grado di attraversare la complessità e restituirla in forma cristallina, o almeno il più trasparente possibile. 

"Strani"

Per tutti quelli che si sono sempre sentiti gli unici "strani" in una stanza piena di gente "normale". 

C'è una categoria di persone, e siamo sicuri che tanti che seguono questo canale sono così, che si sente invisibile. Sono quelli che in una serata di gruppo restano spesso in silenzio mentre tutti parlano del nulla, che preferiscono una conversazione profonda con un amico piuttosto che cento chiacchiere vuote, che vengono etichettati come "strani" o "asociali" solo perché cercano qualcosa di più autentico. Preferire il silenzio al caos, la qualità alla quantità, la profondità alla superficie, non significa essere "strani" e non ci si deve forzare di diventare qualcun altro per far sentire gli altri più a loro agio. È deleterio per l'anima. Mai adattarsi alla maggioranza, il mondo ha bisogno di chi sa ascoltare davvero, di chi pensa prima di parlare, di chi offre presenza autentica invece di esibizioni vuote. Ha bisogno di chi costruisce ponti invece di accumulare conoscenze superficiali. Mai sentirsi "diversi" o fuori posto. Questa "diversità" è fondamentale, serve a ricordare a tutti che esistono altri modi di essere, più lenti, più veri, più profondi. Essere una testimonianza viva.




John Calhoun , Universo 25

I celebri esperimenti di John Calhoun sui topi e sui ratti mostrarono una società che, quando godeva di risorse illimitate, sprofondava lentamente nel caos e nell’alienazione a causa dell’eccessiva densità e della disgregazione dei legami sociali.

Molto interessante notare il legame tra sovraffollamento e l’isolamento emotivo. Nel suo “Universo 25”, i topi avevano acqua, cibo e comfort. Ma l'aumento di soggetti negli stessi spazi portò pian piano ad apatia, perdita delle relazioni tra individui, disinteresse per la procreazione e infine estinzione. Calhoun sosteneva che sia nei roditori sia negli esseri umani esiste una soglia massima di interazioni significative che si possono gestire; superarla genera effetti negativi sulla coesione collettiva. Leggendolo vengono in mente le città ultramoderne. Si può difatti fare un parallelo con il crescente isolamento nelle metropoli, la densità urbana e la perdita delle reti di vicinato che facilitano fenomeni simili a quella che lui chiamava "behavioral sink", ovvero apatia civica, crisi identitaria, ritiro sociale, comportamenti sessuali anomali, trascuratezza della prole e aumento di problemi di salute mentale.

In questo scenario vi era un declino delle nascite e perdita di scopo. Non è forse vero che in molte società avanzate il tasso di natalità crolla? Non solo per ragioni economiche, ma anche perché, come nei topi di Calhoun, la perdita di relazioni significative e di senso del futuro paralizza la volontà di procreare e costruire. Da un lato, grandi città e reti sociali virtuali colmano di “presenze”, dall'altro svuotano di senso le relazioni.

Calhoun avvertí che ambienti costruiti senza attenzione ai limiti della socialità, spingono una società nel baratro della “behavioral sink”. Egli sosteneva bisognasse ripensare le città, i ritmi quotidiani e le relazioni umane.

Chiaramente gli esseri umani hanno capacità cognitive e sociali molto più complesse dei topi, i fattori che influenzano natalità e benessere nelle nostre società sono molto più articolati di quelli osservati nei topi, ciononostante, gli esperimenti di Calhoun rimangono uno strumento interpretativo interessante per riflettere su come la densità abitativa e la struttura sociale possano influenzare i comportamenti collettivi anche nelle grandi concentrazioni urbane contemporanee.



Cosa significa "fare carriera?"

Cosa significa realmente "scegliere la carriera"? 

La "carriera", nella sua accezione moderna, rappresenta una delle più sottili forme di controllo sociale che il capitalismo contemporaneo abbia mai concepito. Non è affatto il naturale sviluppo delle proprie competenze e passioni, ma un concetto sempre più relativo. È una scala di Giacobbe secolarizzata, dove il paradiso promesso non si sa bene dove sia.

Mentre si "costruisce la carriera" si fanno rinunce, si accettano compromessi a discapito della propria autenticità, si sacrificano parti di se stessi sull'altare dell'avanzamento professionale, si indossano maschere quotidiane, si adottano comportamenti che non ci appartengono.

Nel percorso verso il “successo professionale”, si trascurano gli affetti più cari, molti rinunciano a costruirsi una famiglia, a mettere al mondo dei figli, convinti che questo possa compromettere la “scalata professionale”.

Poi una volta raggiunta questa fatidica ricchezza materiale, essa si rivela insufficiente a colmare il vuoto lasciato da ciò che si è sacrificato. Ci si sveglia un giorno dal torpore, ma è tardi. Si prende consapevolezza che la corsa verso l'autorealizzazione professionale ci ha solo reso ingranaggi perfetti al servizio di ricche multinazionali. Le energie migliori, gli anni più creativi, le intuizioni più brillanti sono state regalate a organizzazioni che vedono le persone solo come numeri su un foglio di calcolo.

La "carriera" è il loro profitto, l’ ambizione il loro carburante. Mentre le persone inseguono il riconoscimento e la gratificazione personale, loro accumulano ricchezza e potere utilizzando la fame di successo come leva.

È importante però distinguere tra l'ambizione professionale genuina e il concetto distorto di carriera qui descritto. L'ambizione sana nasce dalla passione autentica per il proprio lavoro, dal desiderio di contribuire al mondo attraverso le proprie competenze e dalla volontà di crescere senza perdere di vista ciò che realmente conta. Chi coltiva un'ambizione sana mantiene l'equilibrio tra professione e vita personale. Non sacrifica le relazioni più care sull'altare del successo, ma cerca di integrarle armoniosamente nel proprio percorso. Questa persona lavora per realizzare i propri valori attraverso la professione non per conformarsi. L'ambizione autentica si distingue dalla carriera alienante perché nasce da una vocazione interiore, mantiene la coerenza con i propri principi, considera il benessere collettivo oltre al proprio tornaconto personale e preserva spazi per la la contemplazione e l'affettività. Chi persegue un'ambizione sana dice di no a opportunità che contraddicono i propri valori, anche se economicamente vantaggiose. Sa riconoscere quando il prezzo del successo diventa troppo alto in termini umani. Soprattutto, comprende che la vera realizzazione professionale non può mai essere disgiunta dalla realizzazione come persona.

Il problema non è quindi l'ambizione in sé, ma la sua distorsione in un sistema che premia l'arrivismo a discapito dell'autenticità, la competizione spietata invece della collaborazione.

Questo generico “fare carriera” fa molto comodo a chi sta in alto.

In realtà il vero percorso di ognuno dovrebbe essere in primis quello di mantenere la propria autenticità, di rimanere fedeli a se stessi, coltivando relazioni significative non fondate su tornaconti personali e contribuendo sinceramente al benessere collettivo.

"Maturità", consapevolezza o fuga?

Oggi fanno clamore dei giovani che, già promossi, rifiutano l'orale di maturità. Bisogna capire bene quali sono le argomentazioni che portano.

C'era una volta Julius Evola che iscritto alla facoltà di ingegneria dell'università di Roma, completò il corso di studi ma senza conseguire la laurea. Motivi? "Disprezzo del titolo". Evola aveva completato gli studi tecnici e matematici, ma decise di non sostenere la discussione della tesi finale per conseguire formalmente la laurea. Non voleva essere associato a titoli accademici come "dottore" e "ingegnere". Una scelta che rifletteva la sua ribellione giovanile contro i valori borghesi e convenzionali della società del tempo. Evola vedeva il titolo accademico come un simbolo di conformismo sociale che contrastava con la sua ricerca di una via spirituale e intellettuale alternativa. La mancanza della laurea, ovviamente, non impedì a Evola di diventare un prolifico scrittore e filosofo, pubblicando numerose opere di grande spessore.

Tornando ai nostri giorni, quello di questi ragazzi è un atto di resistenza contro un sistema in cui l'esame di maturità è una pantomima burocratica? Dove un ragazzo che ha letto centinaia di libri per passione rischia di prendere un voto peggiore di chi ha memorizzato i riassunti giusti da chatgpt? Si ribellano contro l'idea che la scuola debba essere principalmente un tirocinio per la sottomissione, un addestramento alla rassegnazione? Hanno capito che quella che viene spacciata per "preparazione alla vita" è in realtà una preparazione alla rinuncia, un allenamento sistematico a non fare domande scomode, a non mettere in discussione l'autorità, a non cercare strade alternative? Non vogliono essere complici di un meccanismo che trasforma l'apprendimento in una gara, la conoscenza in merce di scambio, la crescita intellettuale in accumulo di crediti formativi? Si schierano contro insegnanti ottusi che spesso scelgono di ricoprire quel ruolo unicamente per la pagnotta a fine mese spendendo solo poche ore al giorno sparando lezioncine confezionate nel programma statale, attingendo da un sommario di propaganda calato dall’alto?

Se queste sono le motivazioni, massimo supporto.

Se invece si tratta di fragilità emotive e generici discorsi di desiderio di “essere compresi”, scambiando la scuola per un percorso terapeutico, allora è solo una fuga dalle proprie responsabilità, un non saper affrontare a testa alta il sistema, anche se lo si contesta.


"Il Sole Nudo" di Isaac Asimov

Nel 1957, Isaac Asimov pubblicava "Il Sole Nudo", secondo capitolo del ciclo dei Robot. Un testo poco noto in cui viene immaginata una società, il pianeta Solaria, con gli abitanti terrorizzati dal contatto fisico e confinati nelle loro dimore. Questi solariani vivono in un mondo dove il contatto fisico è tabù, dove ogni interazione avviene attraverso la "visione" (ologrammi tridimensionali) e dove la "presenza" reale è ormai considerata volgare e pericolosa. 

Asimov non si limitava a immaginare l'isolamento fisico. Descriveva una società dove la tecnologia aveva creato una dipendenza totale: i solariani non riuscivano più a concepire l'esistenza senza i loro robot e le loro protezioni tecnologiche. 

La società di Solaria era nata dal desiderio di "sicurezza": eliminare malattie, conflitti, disagi emotivi. Ma questo paradiso sterile condusse all'atrofia dell'umanità stessa. I solariani erano diventati incapaci di emozioni genuine, di creatività, di crescita personale. 

Ma un in mondo dove i bambini giocano più con i tablet che all'aperto, dove le relazioni nascono e muoiono sui social media, dove per molti il mondo digitale è diventato più confortevole di quello reale, dove gli smartphone sono diventati estensioni del corpo e l'intelligenza artificiale prende decisioni al posto nostro, cosa ci fa pensare che lo scenario descritto da Asimov sia qualcosa che vada oltre la fantascienza? I solariani con i loro robot delegavano sempre più aspetti della loro vita alla tecnologia e atrofizzavano man mano le loro competenze, ma, ehi, cosa ci fa credere che stiamo lentamente scivolando verso Solaria? Suvvia è solo fantascienza di un visionario. 

Ne "Il Sole Nudo" Asimov suggeriva che in futuro il progresso tecnologico avrebbe trasformato i nostri strumenti di liberazione in catene invisibili. Che ingenuo questo Asimov.




"Sport" e ipocrisia

“Lo avrei fatto anche io, non siamo ipocriti!”

Quanto volte abbiamo sentito questa frase di fonte ad una notizia in cui un calciatore sceglie di accettare offerte in cui triplica il suo stipendio? Come se si stesse parlando di un lavoratore qualsiasi.

Signori, quando un calciatore guadagna già 4 milioni all'anno, il salto a 12 milioni rappresenta davvero un cambiamento di vita? O è piuttosto la manifestazione di un'avidità che ha perso ogni misura? Il paragone con l'operaio è fuorviante e quasi offensivo. L'operaio che passa da 1000 a 3000 euro cambia realmente la sua esistenza: può permettersi una casa migliore, le vacanze per i figli, la sicurezza economica per la famiglia. Ma quando si è già multimilionari, l'ulteriore accumulo di ricchezza diventa un gioco di numeri astratti, cifre su un conto corrente che non modificano sostanzialmente la qualità della vita.

Quello a cui stiamo assistendo è l'erosione sistematica di valori che una volta definivano lo sport: l'ambizione competitiva, la ricerca dell'eccellenza, il desiderio di misurarsi con i migliori. Il calcio saudita, rimane un campionato di second'ordine rispetto alle grandi leghe europee. Un giovane talento che sceglie Riyadh invece di Manchester, Milano o Madrid sta rinunciando alla possibilità di scrivere la storia del calcio, di vincere coppe, di giocare Mondiali da protagonista con una nazionale competitiva alimentata da un campionato di livello.

Vogliamo poi parlare dell'accettazione di contesti autoritari? Proprio da quell’Occidente che fa quotidianamente retorica sui “diritti”? Quando un calciatore sceglie l'Arabia Saudita, non sta solo prendendo una decisione economica - sta implicitamente avallando un sistema dove i diritti umani, specialmente quelli delle donne, sono sistematicamente violati. Le mogli e le figlie di questi calciatori si trovano a vivere in un paese dove non possono guidare liberamente, dove devono coprirsi, dove la loro libertà è limitata. È questo il prezzo che si è disposti a pagare per qualche milione in più?  I grandi valori degli occidentali.

Quando un ventenne sceglie il denaro facile dell'Arabia invece della sfida europea, che messaggio trasmette, che esempio dà alle nuove generazioni? Che l'ambizione sportiva è meno importante del conto in banca. Che i valori si possono vendere al miglior offerente.

Questa deriva del calcio è solo lo specchio di una società dove tutto ha un prezzo e niente ha un valore. Dove il successo si misura esclusivamente in termini monetari e dove la ricerca del profitto giustifica qualsiasi compromesso etico.

Il calcio ha sempre avuto una componente economica, ma quando questa diventa l'unica bussola, si perde l'essenza stessa della competizione sportiva. Possiamo ancora chiamarlo sport quando le decisioni sono dettate esclusivamente da logiche finanziarie?  

"Funzionari" della tecnica

Quando Martin Heidegger scriveva "La questione della tecnica" nel 1954, non immaginava smartphone, intelligenza artificiale o social media. Eppure, le sue riflessioni descrivono con precisione questi tempi.

Heidegger introdusse il concetto di Gestell (impianto, dispositivo) per descrivere l'essenza della tecnica moderna: non è uno strumento neutro, ma un modo di rivelare il mondo che trasforma tutto in "fondo disponibile" (Bestand).

Oggi, questa logica ci pervade. I social media trasformano le relazioni in metriche (like, follower, condivisioni), le piattaforme ottimizzano i desideri in algoritmi, e noi stessi diventiamo "risorse umane" da massimizzare.

La realtà non esiste più come tale, ma solo come informazione da estrarre e utilizzare.

Heidegger avvertì che l'uomo rischiava di diventare il "funzionario" della tecnica anziché il suo padrone. Non è forse quello che accade quando si controllano compulsivamente le notifiche o si scorrono i reel? O quando i ritmi biologici si adattano agli schermi, quando le decisioni vengono delegate agli algoritmi di raccomandazione?

La tecnica non ci sta servendo: siamo noi a servirla.

C’ è bisogno di prendere consapevolezza e riscoprire momenti di "presenza" non mediata da dispositivi, coltivare il pensiero critico oltre l'immediatezza digitale. Ma la domanda a questo punto è, si è in grado di pensare la tecnologia senza essere pensati da essa? 

Sanitari senza vocazione

C'è qualcosa di profondamente sbagliato quando chi detiene la vita altrui nelle proprie mani si comporta come se stesse svolgendo il più banale dei lavori.

Ci è capitato molte volte di assistere a scene incresciose: infermieri che giocano con lo smartphone mentre in sala d'attesa ci sono persone che soffrono, OSS scorbutici, ostetriche che chiacchierano di gossip da condominio mentre stanno assistendo al miracolo di una nascita, medici che sembrano annoiati dalla presenza del paziente che hanno di fronte.

Cari soggetti che lavorate nella sanità, i vostri non sono mestieri qualunque. Sono professioni che toccano i momenti più delicati dell'esistenza umana: la nascita, la malattia, la paura, il dolore, la speranza. Eppure spesso, chi le esercita sembra non conoscere il peso di quello che fa.

Non parliamo di competenze tecniche, ma della consapevolezza del proprio ruolo, del rispetto per chi si affida alle tue cure, della comprensione di essere tutto in un determinato momento per quella persona.

Una volta entrati nell’ingranaggio tanti professionisti perdono il senso del loro ruolo, far nascere un bambino o stare in linea ad avvitare bulloni diventa la stessa cosa. Quando un'ostetrica discute delle beghe condominiali con le colleghe mentre sta aiutando una donna a mettere al mondo suo figlio, sta profanando uno dei momenti più sacri dell'esperienza umana, sta trasformando un miracolo in routine, un momento unico in un episodio qualunque della sua giornata lavorativa. Lo stesso vale per l'infermiere che controlla i social mentre in corsia ci sono persone che hanno paura, che soffrono, che aspettano una parola di conforto. Tale comportamento tradisce non solo i pazienti ma anche la nobiltà stessa della professione che ha scelto.

La verità è che un tempo queste professioni erano considerate vocazioni, oggi sono solo un modo di guadagnarsi da vivere e avere uno stipendio sicuro, non una chiamata a servire gli altri nei momenti più vulnerabili della loro esistenza.

Chi lavora in questi ambiti dovrebbe sapere meglio di chiunque altro quanto contino i dettagli per chi sta male, quanto sia importante ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo.

Lavorare nella sanità ha un significato che va oltre il salario a fine mese. Chi sceglie di occuparsi della vita degli altri ha una grande responsabilità, perché quando si ha a che fare con la vita, la sofferenza e la speranza delle persone, non si può mai essere "solo" al lavoro.

Un tempo c'era una dimensione quasi spirituale nel prendersi cura di chi soffre, nell'accompagnare chi nasce o chi muore. Oggi tutto è ridotto a protocolli, turni, stipendi. La persona è diventata un "caso", il dolore una "sintomatologia", la nascita una "procedura". Dalle università e dalle scuole di formazione escono perlopiù burattini gelidi fatti con lo stampino. La tecnica ha preso ormai il sopravvento completo sull’umano.  


Dal nichilismo alla trascendenza: il black metal come fenomeno spirituale

"Dal nichilismo alla trascendenza: il black metal come fenomeno spirituale", Edizioni WI

Un saggio che va oltre la superficie per esplorare l'anima di un movimento rivoluzionario, erroneamente scambiato dai più per una mera espressione di ribellione adolescenziale e di immaturità protratta.

Non è l'ennesimo libro sul metal estremo. È uno studio profondo su cosa significa tale fenomeno culturale nel nostro tempo, sulla sua funzione di specchio implacabile delle contraddizioni contemporanee.

Perché dedicare un saggio a questo argomento? Perché riteniamo il black metal uno specchio fedele delle contraddizioni della nostra epoca: il desiderio di trascendenza in un mondo immanente, la tensione verso l'assoluto in un contesto relativistico.

Il movimento è una forma di diagnosi culturale: attraverso le sue molteplici e contraddittorie manifestazioni, rivela i sintomi di una civiltà che ha perso i propri riferimenti spirituali ma non ha ancora trovato alternative convincenti. È proprio questa instabilità, questa ricerca perpetua e mai conclusa, a renderlo degno di una analisi approfondita.

 

Il testo si rivolge non solo a chi ha vissuto la scena dall'interno, assistendo alle sue metamorfosi, ma anche a chi vuole comprendere un fenomeno culturale che ha attraversato gli ultimi trent'anni senza accontentarsi delle interpretazioni convenzionali. Dietro quel muro di suono e quell' estetica apparentemente impenetrabile si nasconde una riflessione esistenziale che merita di essere esplorata senza pregiudizi. "Dal nichilismo alla trascendenza" è un libro pensato per chi sa guardare oltre le apparenze e riconoscere che anche dalle espressioni più estreme dell'arte possono emergere domande universali e, talvolta, risposte inaspettate. Spesso è proprio dai margini che si comprende meglio il centro.

INDICE

Introduzione

1 - Le origini del black metal

• Un fenomeno culturale

• Cronologia storica del black metal

2 - Sociologia del fenomeno

• Il rifiuto del cristianesimo sociale

• Il ruolo dell' élitarismo

• L’anti-commercialismo

• L'impatto sulla cultura contemporanea

3 - Tematiche e simbolismo

• Le diverse direzioni prese dal movimento

• La nascita del dungeon synth

• Dal satanismo al paganesimo

• L'influenza di Tolkien e la sua reinterpretazione

• Il paradosso apparente: il “christian black metal”

• Il concetto di "purezza" e "verità" nel black metal

• L'estetica guerriera e la metafora bellica

4 - La dimensione spirituale

• La paradossale ricerca del sacro attraverso la dissacrazione

• Il black metal come movimento neospiritualista

• La Via Negativa

5 - Una riflessione critica

• Il black metal come pharmakon: medicina o veleno?

• L’eredità spirituale e letteraria

Conclusione

Appendice – Discografia

200 pagine

Il libro è disponibile fisicamente e online presso:

• Pagan Moon, Via Gaudenzio Ferrari 2, Torino. (Info@paganmoon.eu)

• Libreria Europa, Via Tunisi 3/A, Roma. (https://www.libridelbardo.com/politica-e-societa/2534-dal-nichilismo-alla-trascendenza.html)

• Passaggio al Bosco, Via Borromeo 48, San Casciano V.P. – Firenze. (https://www.passaggioalbosco.it/autori/weltanschauung-italia/)

• Su Amazon (https://www.amazon.it/Dal-nichilismo-alla-trascendenza-spirituale/dp/B0FF35VS8Z)

• Scrivendo a weltanschauungdb@gmail.com

L' "evoluzione" di Puffetta

Casualmente ci capita di guardare con dei bimbi una puntata dei Puffi, la versione recente del 2021. Subito ci salta all’occhio il personaggio di Puffetta.

Nei cartoni animati degli anni ‘60 il suo personaggio era stato creato per sedurre i puffi maschi, era definita dalla sua bellezza e femminilità ed era spesso oggetto di contesa tra i personaggi maschili.

Negli anni '80 e '90, Puffetta sviluppa una personalità più articolata, ma rimane comunque relegata in ruoli tradizionalmente femminili: la premurosa, la pacificatrice, quella che si occupa degli aspetti "domestici" del villaggio.

Arriviamo alla nuova serie, Puffetta versione 4.0, un personaggio totalmente ribaltato, diventa la leader del gruppo, insegna ogni cosa ai maschietti incapaci, è la guida in ogni situazione difficile, prende decisioni autonome e guida le missioni dei maschi tonti. Non ha più bisogno di essere "salvata" dagli altri come in passato, ora è esattamente il contrario. Non più fragile ma guerriera, è maestra d'arti marziali, insegna tecniche di combattimento ai Puffi maschi, è forte fisicamente, ha abilità fisiche superiori, è coraggiosa e affronta i pericoli in prima linea.

In generale la nuova puffetta eccelle in campi tradizionalmente "maschili".

Ehi ma i bambini di oggi hanno bisogno di crescere con modelli di genere più fluidi, avete capito?

Il ribaltamento dell’ennesimo personaggio dei cartoni non dimostra semplicemente un adattamento ai “cambiamenti della società” ma mostra ancora una volta come i media siano potenti strumenti di cambiamento sociale agendo proprio sui bambini.



Ipermedicalizzazione, voci profetiche del Novecento

 "La salute non è un bene che si possiede, ma un modo di essere nel mondo" (Gadamer)

Il noto filosofo del XX secolo Hans-Georg Gadamer, fece grandi riflessioni sul concetto di salute in un mondo dominato dalla medicina tecno-scientifica. Egli criticò l'approccio puramente tecnico della medicina moderna, che tende a ridurre l'essere umano a un insieme di meccanismi, a focalizzarsi sulla malattia piuttosto che sulla persona ignorando la dimensione esistenziale. Per Gadamer il medico deve saper "ascoltare" non solo i sintomi, ma la storia, il vissuto, l'esperienza del paziente. Ogni sintomo va "interpretato" nel contesto della vita del paziente e la guarigione passa attraverso la comprensione poiché il corpo "parla" un linguaggio che richiede ascolto e interpretazione.

Le riflessioni di Gadamer trovano eco nel pensiero di Ivan Illich, che negli stessi anni sviluppa una critica ancora più radicale al sistema medico industriale. Nel suo "Nemesi medica" (1976), Illich denuncia la medicina moderna che, a suo dire, aveva sottratto alle persone la capacità di prendersi cura di sé, trasformando la salute da competenza personale e comunitaria a monopolio professionale.

Nel Novecento anche Michel Foucault fa notare come la medicina moderna eserciti un controllo disciplinare sui corpi, mentre Thomas Szasz denuncia la "medicalizzazione" dei problemi esistenziali. Georges Canguilhem riflette sul concetto di "normalità" in medicina, sostenendo che ogni individuo ha la propria norma vitale e Viktor Frankl, psichiatra e filosofo, sottolinea come la ricerca di senso sia fondamentale per la guarigione.

Tutti questi autori vanno ripresi, leggerli in epoca di ipermedicalizzazione e tecnologia avanzata, ci ricorda che la vera medicina deve essere olistica poiché coinvolge corpo, mente e spirito. Deve essere relazionale e legata al senso e al significato della vita.  Le loro analisi ci ricordano che la salute rimane, fondamentalmente, una questione profondamente umana.

La stampella New Age

I più acuti avranno notato come, ormai da decenni, concetti spirituali orientali vengano selettivamente adottati e reinterpretati per servire logiche economiche dominanti.

Per esempio il concetto di impermanenza (anicca nel buddhismo) o di flusso continuo (nel taoismo) non sono più inerenti alla comprensione della natura transitoria dell'esistenza. Nella loro trasposizione occidentale, attraverso la New Age, vengono ridotti a una giustificazione dell'instabilità lavorativa: "abbraccia il cambiamento", "sii flessibile", "reinventati continuamente". La distorsione è evidente: mentre nelle tradizioni originali l'impermanenza porta alla liberazione dall'attaccamento e alla compassione universale, nella versione neoliberale diventa un imperativo di adattamento alle esigenze del mercato del lavoro.

Oppure, l'enfasi sulla responsabilità individuale ("sei tu che crei la tua realtà") devia l'attenzione dalle strutture sistemiche di potere. Se il lavoratore precario non riesce a "manifestare" stabilità economica, il problema è solo la sua "vibrazione" o la sua mentalità.

La meditazione? Viene proposta come soluzione allo stress lavorativo invece che come strumento per questionare le condizioni che generano quello stress.

Ovviamente coloro che promuovono questa filosofia del "cambiamento continuo" per i lavoratori sono gli stessi che costruiscono imperi dinastici, accumuli patrimoniali e reti di potere estremamente stabili. La precarietà è per gli altri, la stabilità per sé. Le grandi corporation tecnologiche, ad esempio, utilizzano retoriche buddhiste negli ambienti lavorativi mentre implementano strategie di monopolizzazione che contraddicono qualsiasi principio di non-attaccamento o equanimità. La spiritualità autentica dovrebbe includere la critica sociale e la solidarietà collettiva.

Le tradizioni orientali contenevano forti elementi di giustizia sociale: il concetto di karma include la responsabilità verso la comunità, il buddhismo primitivo era egualitario, il taoismo criticava l'artificiosità delle gerarchie sociali. In conclusione la liberazione individuale e quella collettiva sono interconnesse - proprio come insegnano le filosofie orientali nella loro forma integrale, non in quella addomesticata messa in circolo dai padroni.