Vivere in città

Si legge che nel 2030 circa il 70% delle persone vivrà in città. Per molti aspetti sembra impossibile vivere lontano dai centri urbani perché ciò significa dover far fronte a diverse scomodità come la carenza di servizi, di alcuni beni di consumo e di trasporti pubblici.
Una forte spinta all’urbanizzazione si verificò con la seconda Rivoluzione industriale, quando masse di contadini si trasferirono nelle zone periferiche delle città per soddisfare la richiesta di forza lavoro a basso costo nelle fabbriche. Ancora oggi le città rappresentano una forte attrattiva, meta di rilevanti flussi migratori, e questa tendenza non riguarda solo le metropoli del sud del mondo; le megalopoli come Tokyo, Shanghai, Giacarta e Nuova Delhi sono le più popolose, con una popolazione che supera i 30 milioni di abitanti. Veri e propri formicai in cui si sopravvive accatastati gli uni sugli altri, respirando aria inquinata, bevendo acqua in bottiglia e rintronandosi di rumori di folla e di traffico. La gestione istituzionale delle città è spesso fallimentare: la miriade di rifiuti, la delinquenza, l’accattonaggio, gli ingorghi stradali, il moltiplicarsi di richieste di assistenza sociale, l’impatto energetico, ecc.
Nonostante gran parte della popolazione mondiale si trasferirà nelle città nel prossimo futuro, è indubbio che gli ambienti urbani siano invivibili: vivere in condizioni di sovraffollamento, come è già stato osservato negli animali da allevamento intensivo, causa sofferenza psichica e aggressività.

Il famoso etologo Konrad Lorenz, nel 1973, scriveva: “l’accalcarsi di molti individui in uno spazio ristretto” dà luogo a “manifestazioni di disumanità, ma scatena anche direttamente il comportamento aggressivo”, inoltre “l’amore per il prossimo, per un prossimo troppo numeroso e troppo vicino, si diluisce sino a svanire senza lasciare più traccia.”
Peraltro vivere in città significa esporsi maggiormente al controllo sociale, al confinamento in caso di pretestuose nuove emergenze (ecologiche, sanitarie, terroristiche, energetiche) o al razionamento di risorse.
I tentativi di depopolamento, che si può immaginare si faranno progressivamente più violenti e più mirati, avranno come punto di partenza le città, un facile obiettivo data l’alta concentrazione di persone. 


AM

La retorica dell'insegnante "intoccabile"

Abbiamo appena letto l’ennesimo articolo in cui si leggono affermazioni di questo tenore: “Prima un insegnante era visto come una figura di riferimento in continuità con la famiglia. Ora il suo ruolo è messo in discussione, così come quello della scuola."

Basta con la retorica dell'insegnante come figura intoccabile. Oggi, per come è strutturata la scuola, per come vengono scelti gli insegnanti (spesso ignoranti con lauree a crocette), il genitore DEVE essere vigile. Sentiamo spesso dire che "una volta l'insegnante era rispettato, ora no". Ma rispetto per cosa? Per il ruolo o per la competenza? Perché se parliamo di competenza, allora bisogna prendere atto che sempre meno insegnanti sono all'altezza del compito educativo dei nostri figli.

La cattedra non è un pulpito. La laurea non è un salvacondotto per l'incompetenza. E il nostro silenzio da genitori non è rispetto, è negligenza. Quando affidiamo i nostri figli alla scuola, non stiamo consegnando un pacco. Stiamo condividendo la responsabilità più grande che abbiamo: l'educazione delle nuove generazioni. Questo significa conoscere chi insegna ai nostri figli, verificare la qualità e i programmi dell'insegnamento, intervenire quando necessario. Non è "mancanza di rispetto" chiedere spiegazioni a un insegnante. Non è "ingerenza" pretendere qualità e chiarezza. Non è "essere genitori invasivi" volere il meglio per i propri figli. È semplicemente essere genitori responsabili.

Ovviamente vigilanza non significa difesa aprioristica. Il genitore vigile non è quello che va a scuola a fare scenate per ogni voto basso o richiamo. Non è quello che trasforma ogni segnalazione negativa in un attacco personale al proprio figlio. Il genitore responsabile sa distinguere tra un insegnante incompetente che va contestato e uno competente che sta facendo il proprio lavoro educativo. Perché sì, è vero, esiste anche l'altra faccia della medaglia: genitori che scambiano la protezione del figlio con la negazione della realtà. Che preferiscono accusare l'insegnante piuttosto che affrontare le difficoltà o i comportamenti problematici dei propri figli. Ma questo è un altro discorso.

Bisogna intanto rendersi conto che oggi l'insegnamento raramente è in mano a persone competenti e rigettare la stantia retorica dell’insegnante intoccabile solo per il suo status.

I nostri figli devono avere insegnanti validi. E se questi insegnanti non ci sono, è nostro dovere accorgercene ed agire. 



L'ideologia del successo

"Tutto è possibile se ci credi davvero". Questa affermazione, apparentemente liberatoria, nasconde in realtà una trappola culturale di proporzioni enormi.

"Trasformati, dedicati completamente e conquista i tuoi obiettivi": è un imperativo che riecheggia ossessivamente sui canali digitali.

Dietro la facciata di competenza autorevole di un consulente, la mitologia della realizzazione si manifesta frequentemente come un'accettazione acritica dell'architettura sociale in cui siamo immersi, portata ai suoi estremi più radicali. L'adorazione per il paradigma liberista si trasforma in un'estetica esistenziale, cessando di essere un semplice orientamento politico per diventare un modo di essere nel mondo: l'individualista perpetuamente motivato.

Brillante, determinato e pervaso da un ottimismo incrollabile: questo è il prototipo umano che viene promosso come via verso la realizzazione. Il guru si presenta come colui che, avendo raggiunto il successo, possiede le chiavi per svelare agli altri come capitalizzare le illimitate possibilità che il mondo offre, apparentemente nascoste dietro veli di inerzia e mancanza di determinazione.

Il segreto della realizzazione, tanto nella sfera professionale quanto in quella privata, viene ridotto a una ipotetica metamorfosi dell'individuo che esclude completamente qualsiasi possibilità di trasformazione del contesto sociale.

La progressione professionale, concepita come una competizione isolata che sacrifica ogni altro aspetto dell'esistenza, diventa l'unico teatro in cui dimostrare il proprio valore umano.

La visione del mondo promossa dai guru digitali non è altro che un sostegno ideologico del modello socioeconomico in cui siamo inseriti. L'estetica del trionfo non si configura come una filosofia di vita personale, ma piuttosto come un rinforzo politico di un sistema che opprime sistematicamente i cosiddetti "falliti" della società.

Chi fallisce di fronte a tale “ideologia del successo” sviluppa stati d'animo come l’ansia, il narcisismo patologico e la depressione, fallimenti personali di cui provare vergogna.

Questa narrazione tossica del successo a ogni costo non rappresenta una liberazione individuale, ma una forma sofisticata di controllo sociale. Dietro la retorica motivazionale si nasconde un meccanismo che trasforma le disuguaglianze strutturali in fallimenti personali, scaricando sull'individuo la responsabilità di problemi sistemici.


L'Uomo con Nessun Nome

Clint Eastwood è un artista che ha attraversato oltre sei decenni di carriera mantenendo sempre una visione personale e indipendente, sfidando costantemente le convenzioni di Hollywood e creando un linguaggio cinematografico inconfondibile.

Eastwood inizia la sua carriera come attore negli anni '50, ma è con la trilogia del Dollaro di Sergio Leone che diventa un'icona mondiale. L'Uomo con Nessun Nome non è solo un personaggio, ma l'archetipo di un nuovo tipo di eroe: silenzioso, enigmatico, moralmente ambiguo.

La sua filosofia è chiara fin dall'inizio: mantenere il controllo creativo totale sui propri progetti.  Nel 1967 difatti Eastwood fonda la sua casa di produzione, la Malpaso Productions, una mossa visionaria che gli garantisce libertà creativa assoluta. Questa decisione gli permette di scegliere personalmente i progetti da sviluppare, mantenere il controllo artistico su ogni aspetto della produzione, lavorare con budget contenuti ma efficaci, girare rapidamente senza le pressioni degli studios.

L'universo narrativo di Eastwood è caratterizzato da temi profondi e universali come la redenzione, la violenza e le sue conseguenze, i contraddittori miti americani, l’invecchiamento e la morte.

Il suo linguaggio cinematografico è caratterizzato da minimalismo espressivo, nessuno spazio per virtuosismi gratuiti. La macchina da presa serve la storia, non il contrario. I suoi film respirano con il tempo della vita reale, senza forzature narrative.

Eastwood ha dimostrato che è possibile fare cinema d'autore dentro il sistema hollywoodiano. In un'industria dominata da logiche propagandistiche e commerciali, rappresenta un esempio di come sia possibile mantenere la propria visione artistica senza compromessi. I suoi film non seguono le mode del momento ma attingono a temi universali e senza tempo.

Da sottolineare la sua resistenza alle convenzioni del linguaggio politicamente corretto. Clint ha sempre mantenuto un approccio critico verso i nuovi codici comunicativi imposti dall'industria dell'intrattenimento, i suoi film non seguono i diktat della sensibilità contemporanea sui linguaggi inclusivi o sulle rappresentazioni "corrette" dei personaggi.  

Non aderire ai modelli propagandistici hollywoodiani, per una icona di quel sistema, è una medaglia al valore.

Leggenda vivente.



Surrogati

La scuola, componente strutturale di una società, dovrebbe svolgere un ruolo fondamentale di inculturazione, acculturazione e, direbbe Talcott Parsons, di integrazione e mantenimento dei modelli latenti.  Eppure, questa labile istituzione, invece di ergersi a baluardo dei repentini e spesso irragionevoli mutamenti sociali spesso indotti da poteri sovrastrutturali che hanno il solo intento di modellare la società secondo i propri fini, si piega passivamente o peggio, di buon grado, alle imposizioni provenienti dall’alto. Al ritmo di incalzanti corsi di formazione finanziati dall’esiziale Pnrr, la scuola apre i boccaporti alla digitalizzazione e così si riempiono le stive di corsi destinati ai docenti per imparare a usare gli algoritmi di IA nella didattica: lezioni, verifiche e slide vengono realizzate usando ChatGPT di OpenAI, Gemini di Google o Llama di Meta.
Caricata di zavorra, la scuola si barcamena nelle torbide e insidiose acque delle aziende del digitale che si infiltrano nelle crepe del sistema scolastico. L’assoggettamento dei docenti è facile: per lo più si tratta di una mandria che a malapena sa usare gli indici per digitare goffamente sulla tastiera, guarda con occhi bovini lo schermo e propina agli adolescenti lezioncine piatte e banali intervallate da film e lavori di gruppo.
Negli anni la scuola ha accettato di tutto: dal progetto CLIL (lezioni su argomenti curricolari in lingua straniera: l’abominio di studiare Platone in inglese), all’educazione alla legalità (carabinieri in divisa che spiegano, portando ad esempio i propri figli, quanto sia illecito drogarsi o bullizzare i compagni di classe), o ancora le lezioncine sulla pericolosità delle fake news (meglio affidarsi ai ‘professionisti dell’informazione’ come Open).
Come una nave stracarica di cianfrusaglie, la scuola affonda trascinando con sé quei pochi docenti e alunni che vorrebbero una scuola diversa, tradizionale e autentica, capace di contrapporsi orgogliosamente ad un mondo esterno marcescente, che si conservi integra, rimanendo se stessa, un fortino dalle mura spesse e impenetrabili, dove la cultura, i libri, le lezioni frontali, socratiche e peripatetiche risuonino fiere nelle sue stanze.
Ma forse il suo destino, frutto di un accumulo di docenti che non supererebbe nemmeno il test di Turing, è proprio quello di trasformarsi in una macchina al servizio di surrogati dell’insegnante: chat bot che assistano emotivamente gli alunni, che si rivolgano a loro con una didattica personalizzata, che li supportino nel loro percorso di obbedienti subalterni. 



AM

Il pericolo dell'AI

Il pericolo dell'era digitale non risiede nella possibilità che le macchine ci superino in capacità computazionale o efficienza operativa. La minaccia più insidiosa è che l’uomo scelga di subordinare la propria umanità agli algoritmi e a coloro che li controllano. È una forma di sottomissione volontaria.

Esiste nell'essere umano un nucleo irriducibile che nessuna tecnologia, per quanto sofisticata, potrà mai replicare o sostituire. Questo nucleo è costituito dalla coscienza di sé, quella capacità di riconoscersi come individuo unico e pensante. È la facoltà del libero arbitrio, che ci permette di compiere scelte e di assumere la responsabilità delle nostre azioni. È il potere del dubbio, quella capacità critica che ci spinge a interrogarci, a mettere in discussione le certezze e a cercare significati più profondi.

Sono i sentimenti, con la loro ricchezza e complessità, a colorare l’esistenza di sfumature che nessun algoritmo può decifrare completamente. L'amore, la paura, la gioia, la malinconia non sono semplici reazioni chimiche da catalogare, ma esperienze che ci definiscono come esseri viventi e senzienti.

O si riconosce e valorizza la propria essenza unica, quella dimensione che ci distingue dal mondo delle macchine, altrimenti smarrendo tale consapevolezza ci si ridurrà ad un ingranaggio meccanico in un sistema sempre più automatizzato.

Non ci troviamo di fronte ad una competizione impossibile con le macchine, ma ad una presa di consapevolezza della natura umana. Solo in tal maniera si potrà cavalcare l'era dell'intelligenza artificiale senza perdere l’anima perché la tecnologia deve rimanere uno strumento al servizio dell'uomo, non il contrario.



Carlo Terracciano, un pensatore dimenticato

 "Chi dimentica le proprie radici è condannato a un presente senza significato e a un futuro senza direzione."

Carlo Terracciano è stato un intellettuale il cui contributo merita di essere ricordato. Spesso etichettato semplicisticamente con l'etichetta di "rossobruno", in realtà Terracciano aveva un pensiero geopolitico che combinava elementi del marxismo con visioni eurasiatiche e critiche all'egemonia occidentale. Difficile inquadrarlo in schemi convenzionali. Il termine "rossobrunismo" stesso è problematico perché spesso viene usato polemicamente per screditare posizioni che sfuggono alle categorie destra-sinistra, senza analizzarne la complessità teorica. Nel caso di Terracciano, la sua riflessione geopolitica è partita da una critica radicale al sistema capitalistico occidentale e all'imperialismo americano, temi tradizionalmente di sinistra, ma approdando a conclusioni che valorizzavano elementi di tradizione e identità culturale, più vicini a certe destre. Piuttosto che etichettarlo come "rossobruno", sarebbe più corretto considerarlo un intellettuale eterodosso che ha cercato di superare le divisioni politiche novecentesche per elaborare una visione geopolitica alternativa, con tutti i limiti e le contraddizioni che questo comportava.

Uno dei filoni centrali del suo pensiero è stata la critica alla modernità e ai suoi presupposti. Nelle sue opere, ha analizzato come l'epoca moderna abbia portato a una progressiva desacralizzazione del mondo, sostituendo la dimensione spirituale con il dominio della tecnica e del materialismo. Questa prospettiva lo ha avvicinato ad autori come Julius Evola e René Guénon, pur mantenendo una sua originalità interpretativa. Terracciano, oltre ad essere un chirurgico studioso di geopolitica, ha esplorato il concetto di tradizione, non intesa come semplice conservatorismo o nostalgia del passato, ma come connessione con princìpi perenni che trascendono il tempo. Ha indagato le radici della civiltà europea, esplorando il rapporto tra eredità classica, cristianesimo e specificità nazionali. Ha esaminato come la perdita di riferimenti valoriali stabili abbia prodotto una crisi esistenziale profonda, proponendo la riscoperta di una spiritualità autentica e di un rapporto rinnovato con la tradizione.

Riscoprire Carlo Terracciano significa orientarsi in geopolitica e confrontarsi con uno dei pensieri più profondi del secolo scorso.


Diritto di proprietà

Centocinquanta anni di etnografia hanno dimostrato che il concetto di proprietà, seppur labile presso alcune società tribali, è componente fondamentale dell’esistenza.
Possedere qualcosa, averlo acquisito tramite la fatica ed il lavoro e dunque non dover dipendere dalla carità altrui, rappresenta una conquista individuale che conferisce valore e dignità all’individuo, contribuendo anche a determinarne l’identità psichica.
Il diritto di proprietà, in quanto diritto naturale, secondo John Locke è pre-esistente il patto sociale e va garantito dallo Stato: uno Stato ha il dovere di tutelare la proprietà e nel caso in cui infranga tale diritto, il cittadino ha il dovere di ribellarsi contro un potere divenuto illegittimo.
Più recentemente è stato il filosofo Robert Nozick a soffermarsi sulla rilevanza, ancor prima della proprietà di qualcosa, della proprietà di sé. L’io individuale prevale rispetto alla società, per questa ragione il possesso non deve essere limitato in alcun modo. Lo Stato quindi, oltre a ricoprire un ruolo minimo, deve rispettare la premessa kantiana secondo cui l’individuo deve essere trattato sempre come un fine, mai come un mezzo. Per Nozick è inaccettabile che l’individuo venga subordinato alla società, sebbene ciò possa significare redistribuire la ricchezza per offrire maggiori opportunità di vita alle persone. Il fautore delle proprie chance di vita è l’individuo stesso, allo Stato compete il solo compito di proteggere i diritti naturali dei cittadini.
Scardinare il concetto di proprietà si sta rivelando funzionale alla realizzazione dell’organizzazione sociale del futuro: se la proprietà è il fondamento della libertà, sottrarre gradualmente la proprietà permetterà di ridurre le persone ad uno stato di dipendenza sempre maggiore. Il sistema di pagamento rateale e le agenzie di prestiti hanno trasformato le persone in debitori: tutti vogliono salire sulla giostra capitalistica, acchiappare le opportunità e al contempo disprezzare la miseria di chi non può permetterselo; nessuno vuole rinunciare alle promesse di felicità e successo.
Il desiderio di possesso ed il diritto a possedere sono diventati il cavallo di Troia con cui il biopotere si sta appropriando delle persone: proprio la convinzione di possedere qualcosa rende l’individuo sempre pronto all’acquisto o all’indebitamento e pertanto eterodiretto nelle sue scelte di acquisto o di contrazione di debito. La sete di possesso viene usata per trasformare le persone in mezzi di profitto utili per cambiare gradualmente l’ordine sociale. Vivere in una casa, usare un cellulare, guidare una macchina, guardare la televisione e indossare abiti che non si possiedono realmente finché non si finiranno di pagare, significa non essere liberi anzi, si diventa semplici mezzi per accrescere il profitto di qualcun altro, di oligopoli che governano il mondo ben al di sopra degli Stati. Nel prossimo futuro non si sarà proprietari neppure del denaro, ridotto a moneta digitale programmabile ed impalpabile; non ci apparterranno neppure i nostri rifiuti, pesati e analizzati da bidoni intelligenti apribili col codice a barre.
Oltre a non essere completamente artefici del proprio agire, evidentemente eterodiretto, non si è neppure proprietari di se stessi, dei propri pensieri, indotti dall’esterno, dall’onnipresente connessione digitale. Quest’ultima ha aperto la strada alla colonizzazione dell’opinione pubblica, dell’immaginario collettivo e dell’immagine di sé. Il digitale rapisce la mente, induce uno stato di trance cognitivo la cui modulazione è riconducibile al ritmo digitale. Lo scroll compulsivo ha un effetto soporifero e de-centrante che separa dall’esser-ci e recide le radici dell’abitare, dell’esistere, del prendersi cura.  


AM

Incomprensioni e silenzi

Nel penultimo testo “Fragmenta” avevamo parlato del fenomeno del “ghosting”, ovvero quella tendenza delle nuove generazioni a sparire improvvisamente senza dare spiegazioni.

In realtà, anche se non in modo così plateale, facendolo diventare persino una moda di cui vantarsi, lo “sparire” è un atto molto comune anche nel mondo di gente “matura”.

Sempre più “amicizie” svaniscono nel silenzio. Relazioni fragili, costruite giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, crollano all'improvviso, senza preavviso, lasciando solo macerie. È un fenomeno sempre più frequente nella nostra società: amicizie "profonde" che si dissolvono come nebbia al sole, senza una parola, senza un confronto. Una forma di "ghosting" appunto, applicato alle amicizie. Una persona si sente ferita o incompresa e, invece di affrontare il problema, sceglie la via apparentemente più semplice: sparire. Interrompe ogni comunicazione, cancellando anni di condivisione come se nulla fosse mai esistito.

Questa incapacità di comunicare è sintomatica di un’epoca in cui si è costantemente connessi eppure profondamente disconnessi. I messaggi istantanei hanno sostituito le conversazioni faccia a faccia, rendendo più facile nascondersi dietro uno schermo o, peggio ancora, dietro il silenzio. Il confronto richiede coraggio. Significa esporsi, mostrare la propria vulnerabilità, rischiare di non essere capiti. È più semplice tagliare i ponti, convincersi che l'altro "non vale lo sforzo" o che "tanto non capirebbe". Ma questa è una forma di immaturità emotiva che sta diventando una vera e propria epidemia sociale. Quando qualcuno sparisce senza spiegazioni, non fa solo male all'altro, ma nega a entrambi la possibilità di crescita che ogni conflitto porta con sé. Le incomprensioni, se affrontate con onestà, possono rafforzare un legame invece di spezzarlo.

Rarissimo è diventato il confronto autentico, il dialogo scomodo ma necessario. Il dire "mi hai ferito" invece di scomparire. Di chiedere "cosa è successo tra noi?" invece di fingere che l'altro non sia mai esistito. Le relazioni significative meritano questo sforzo. Meritano parole, anche difficili, anche dolorose, ma sempre preferibili al vuoto assordante del silenzio che porta con sé solamente scorie.


"Il Padiglione d'oro" di Y.Mishima

"La bellezza ha questo di terribile, che non può esistere se non nell'annientamento. Se non si distrugge, prima o poi, si finisce per distruggere se stessi."

"Il Padiglione d'oro" è uno dei romanzi più belli di Yukio Mishima.

Pubblicato nel 1956, il libro si ispira a un fatto realmente accaduto nel 1950: l'incendio doloso del tempio buddhista Kinkaku-ji di Kyoto, patrimonio culturale del Giappone, per mano di un giovane monaco.

Il protagonista della trama è Mizoguchi, un ragazzo timido, balbuziente e di umili origini che, sin dall'infanzia, è ossessionato dall'immagine del Padiglione d'oro, un tempio buddhista descritto con toni mitici dal padre. Divenuto novizio presso il tempio, Mizoguchi sviluppa un rapporto contraddittorio con l'edificio: da un lato ne è affascinato, dall'altro prova un senso di inferiorità e frustrazione per non riuscire a possedere quella bellezza.

Mishima esplora qui il paradosso per cui la bellezza perfetta, proprio per la sua irraggiungibilità, può generare un impulso distruttivo in chi la contempla. Indaga come le nostre aspettative e idealizzazioni possano diventare fonte di delusione e alienazione quando confrontate con l'esperienza concreta.

Sullo sfondo del romanzo si staglia il Giappone del secondo dopoguerra, sospeso tra tradizione e modernizzazione occidentale. Il Padiglione d'oro diventa così simbolo di un'eredità culturale minacciata dal cambiamento, e il suo incendio è una metafora della crisi identitaria del Giappone contemporaneo.

La prosa di Mishima è ricca di simbolismi e di descrizioni dettagliate, in cui si alternano momenti di lucida analisi filosofica a passaggi di grande intensità lirica.

"Il Padiglione d'oro" è una riflessione universale, narrata con una sensibilità giapponese, sulla natura della bellezza, sul rapporto tra desiderio e possesso, sull'alienazione dell'individuo moderno.

La capacità di Mishima di esplorare le zone d'ombra dell'animo umano, unita a una scrittura di straordinaria eleganza, rende questa opera un capolavoro senza tempo.



M - Il mostro di Düsseldorf di F.Lang

"Chi può sapere come sono fatto dentro?”

"M - Il mostro di Düsseldorf" è un film di Fritz Lang del 1931. È la storia di un serial killer, anticipatrice di centinaia di film attuali sui crimini seriali.

M. è il primo film sonoro di Lang, che tuttavia continua ad avere la stessa carica visiva e narrativa tipica del muto. A cavallo fra cinema espressionista tedesco e quello che più tardi culminerà nel noir. Un film "innovativo" in cui il suono scolpisce l’andamento: dalla filastrocca iniziale, alla centralità data ai rumori quotidiani che diventano così cupi o ancora al fischiettare dell’assassino che permette a un mendicante cieco di riconoscerlo. Il titolo originale del film doveva essere "Morder unter uns" ("Gli assassini fra noi") ma Lang decise di cambiarlo, folgorato dalla scena in cui il mendicante si traccia con del gesso la lettera “M” sulla mano e la trasferisce sulla spalla dell’assassino per permettere a tutti di individuarlo. E pochi sanno che la trama è ispirata a fatti di cronaca reali, ossia la serie di omicidi di massa avvenuti a Düsseldorf in quel periodo, per mano di Peter Kurten. Una trama che venne scolpita da una sceneggiatura chilometrica scritta dallo stesso Lang e da sua moglie, in cui c'è la descrizione tra chiaroscuri perfetti, ombre proiettate sui muri della città, tra inquadrature oblique dall’alto minacciosamente contrappuntate da suoni ordinari, di tutto il campionario di personaggi che affollano la storia. La storia di una città travolta dall’isteria generata da un susseguirsi misterioso di infanticidi e con i suoi abitanti che si mobilitano in massa nella cattura dell’assassino, dai criminali fino ai poliziotti. Questi ultimi superati dalla maggiore capillarità di chi vive per strada e ai confini della legalità. Una popolazione trasformata in folla inferocita, preda di un’isteria collettiva che si dimostra ancora più spietata ed efficiente della legge. Ed in mezzo a tutti questi eccezionali e innovativi spunti si erge maestosa la prova recitativa del protagonista assoluto, un immenso Peter Lorre perfetto nel ruolo dello psicopatico assassino. Nonché perfetto, oltre al suo naturale "physique du role", nella recitazione e nell'interpretazione. Soprattutto nell'ultima sequenza del processo improvvisato dove è costretto ad una impostazione più teatrale e dove riesce a comunicare l'alternarsi del desiderio insoddisfatto e della rassegnazione con semplici, minimi ma decisi movimenti del busto e del volto.

Un film che lancia uno sguardo indagatore usando il consueto (i rumori quotidiani) verso un'altra realtà. Un “guardare attraverso” l’immagine, carica di significato, verso l'approdo finale. La mente del serial killer. Le sue angosce, le sue paure, le sue ossessioni, il suo bisogno di calmare le pulsioni più orribili.

Uno dei primi film (o forse il primo) sulle ombre e sui fantasmi della porta accanto nelle tentacolari metropoli moderne.


OC

La noia

I bambini di oggi crescono circondati da stimoli costanti. Smartphone, tablet, videogiochi e un'agenda fitta di attività extrascolastiche che occupano ogni minuto della loro giornata. I genitori si impegnano a tenere i propri figli "occupati" in ogni maniera, altrimenti si annoiano e sono "improduttivi". Essi non sanno che la noia è un aspetto fondamentale, poiché quando un bambino si "annoia" la sua mente inizia a vagare, le idee si collegano e la creatività si alimenta. Senza il costante bombardamento di stimoli esterni, essi sono costretti a guardare dentro di sé, ad attingere dalle loro risorse interiori per inventare giochi, storie e soluzioni. In un mondo superveloce, "produttivo", popolato da ansiosi cronici, insegnare ai bambini ad accettare momenti di noia è fondamentale. La noia allena la capacità di stare con se stessi, di ascoltarsi, di conoscersi meglio. È con la noia che potranno sviluppare una maggiore consapevolezza di sé e una migliore gestione delle emozioni poiché non dovranno sempre fuggire dai propri pensieri attraverso distrazioni continue, ma sapranno abitare il vuoto con serenità. Ma d'altronde molti genitori sono i primi a riempire ogni spazio vuoto con qualcosa, fuggendo costantemente da se stessi, di conseguenza proiettano la medesima concezione ai loro figli. La noia non è mai un vuoto da riempire, bensì terreno fertile, uno stato da accogliere per costruire solidità interiore ed equilibrio.


Social?

Esiste un uso sano dei social network?

Il punto è che oggi molti guadagnano sui social, per alcuni è un primo lavoro ma la trasformazione di una passione in lavoro è un'arma a doppio taglio. Da un lato, realizza il sogno di vivere facendo ciò che si ama; dall'altro, introduce inevitabilmente delle dinamiche di mercato che compromettono la purezza espressiva iniziale. Quando l'attività rimane parallela a un lavoro principale, si ha una libertà pressoché totale. Non dovendo dipendere economicamente dalla produzione creativa, ci si può permettere di sperimentare, rischiare, seguire la propria visione senza compromessi. Questa indipendenza economica diventa paradossalmente una forma di libertà espressiva. La situazione cambia radicalmente quando il tutto diventa l'unica fonte di sostentamento. Ci si trova di fronte a un conflitto tra autenticità espressiva e necessità di mercato. Le considerazioni sulle reazioni dei "followers" iniziano a influenzare le scelte: quali temi trattare, quale stile adottare, come presentare il proprio lavoro. Si comincia a modificare la propria visione per incontrare i gusti del pubblico, trasformando gradualmente la propria iniziativa in un prodotto commerciale. Tuttavia, questa dicotomia non è necessariamente assoluta. Sì può trovare un equilibrio, cercando di mantenere l'integrità. In generale però trovare punti di intersezione tra la propria visione e le aspettative delle persone, senza tradire se stessi, è molto complicato. Vi è poi un malsano meccanismo che subentra, ovvero quello di essere ammirati, di condividere agli altri questioni personali, il culto dell'ego pompato dalle reazioni e dai "followers". In questo senso il social è una trappola perché "gonfia" e porta a piegarsi alle leggi del mercato e questo vale per tutti, sia per chi pubblica reels demenziali, chi aforismi mostrando il sedere ma anche chi fa cultura, informazione o controinformazione. Come fare dunque? A nostro umile parere, innanzitutto un utilizzo sano che se ne può fare è quello di usarli per trovare persone affini con cui poi uscire dai social e costruire rapporti fuori. Dopodiché prendere consapevolezza dei meccanismi dell'ego e del successo personale e domarli. Per il resto cercare di rimanere onesti negli intenti e nei contenuti proposti, indipendentemente da eventuali guadagni. Se si è in grado di far questo allora l'utilizzo dei social può avere aspetti positivi, altrimenti è ego, dipendenza ed inquinamento quotidiano dell'anima. A noi la scelta.




Edoardo Bennato e l'eterna giovinezza

Edoardo Bennato a 78 anni continua a infiammare i palchi di tutta Italia. La sua è una 'energia che sfida il tempo, chi ha avuto la fortuna di assistere a un suo concerto recente può testimoniarlo. Chitarra, armonica e kazoo - i suoi fedeli compagni di viaggio - continuano a dare voce a quella voglia di libertà e di denuncia sociale che ha sempre caratterizzato la sua musica. Bennato non è mai stato un allineato, anche la recente "maskerate" è stata una palese denuncia del periodo pandemico. D'altronde correva l'anno 1977 quando Bennato, con lucidità denunciava in "dotti medici e sapienti" i rischi dello scientismo, quella tendenza a trasformare la scienza in un dogma intoccabile, in una nuova religione. Quasi cinquant'anni prima dei dibattiti contemporanei sul monopolio dell' "autorità scientifica". "Non fidatevi del grande fratello!" cantava, anticipando temi che sarebbero diventati centrali decenni dopo. La carriera del cantautore napoletano è stata segnata da scelte coraggiose, controcorrente, rifiutando sempre le etichette. La sua poetica, intrisa di riferimenti letterari (da Collodi a Barrie), di ironia pungente e di denuncia sociale, rappresenta un unicum nel panorama musicale italiano. Edoardo Bennato ha insegnato che la musica può essere divertente e profonda allo stesso tempo. Che la ribellione non è una fase adolescenziale, ma una postura esistenziale. Che l'arte ha il dovere di disturbare il potere, qualunque esso sia. Ma soprattutto che si può invecchiare senza diventare vecchi, che si può conservare, anche a ottant'anni, quello sguardo curioso e critico sul mondo che è la vera fontana dell'eterna giovinezza. Onore a lui.

Sanità pubblica

Sanità pubblica? E che cos'è? Parliamoci chiaro, oggi trattasi di un sistema pubblico sulla carta ma privato nei fatti. Non è forse così? Continuiamo a finanziare con le nostre tasse un sistema che non risponde ai bisogni di salute della popolazione. Le liste d'attesa interminabili per visite specialistiche sono diventate la norma. Chi può permetterselo, ovviamente sceglie la via privata, pagando due volte: una volta con le tasse e una seconda volta di tasca propria. Chi non può, rinuncia alle cure o le rimanda fino all'aggravarsi delle sue condizioni. La promessa di un'assistenza universale, gratuita e di qualità è lontanissima dalla realtà. Quello che doveva essere un diritto garantito a tutti si è trasformato in un servizio frammentato, difficilmente accessibile e che spinge sempre più persone verso soluzioni private. Dati recenti parlano di oltre 4 milioni di italiani che rinunciano alle cure per motivi economici, di liste d'attesa per alcune prestazioni specialistiche che superano i 12-18 mesi e di una spesa sanitaria privata ha superato i 40 miliardi di euro annui. In alcune regioni, le visite private superano ormai quelle erogate dal servizio pubblico. Non si tratta solo di carenza di risorse finanziarie. È una scelta voluta, nel sistema attuale la salute pubblica é solo una voce di spesa da tagliare. Per chi non può permettersi di essere seguito privatamente vi è poi una ulteriore frammentazione delle cure. La visione olistica della persona già è rara nella medicina moderna, ma nel pubblico proprio non esiste, vi è un approccio disordinato, a compartimenti stagni, che tratta organi e sintomi ma perde di vista l'integrità della persona. Un paziente si trova a navigare in un labirinto di specialisti che raramente comunicano tra loro, con approcci terapeutici contraddittori, duplicazioni di esami, prescrizioni incompatibili. La sanità pubblica oggi è una catena di montaggio ed il paziente è un prodotto da processare con tempistiche che sono un terno al lotto. Sballottolato a destra e sinistra, egli non è più una persona, con la sua storia, la sua singolarità. Se vuole sperare di essere seguito degnamente deve pagare, soldi, tanti soldi, oltre a quelli delle tasse ovviamente. Questa è la realtà. Ricostruire un sistema sanitario degno di questo nome richiederebbe visione politica chiara e la capacità di superare interessi corporativi ma non ci sembra che si stia andando in questa direzione.



"Inglesizzazione"

L'invasione linguistica che sta soffocando la nostra lingua è, anno dopo anno, sempre più fuori controllo. Il fenomeno è particolarmente evidente nel mondo del lavoro, dove sembra impossibile sostenere una conversazione senza ricorrere a un gergo ibrido. Perché dobbiamo "schedulare un meeting" quando possiamo semplicemente "programmare una riunione"? Perché il "team leader" non può essere un "caposquadra" e il "project manager" un "responsabile di progetto"? Si usano termini per apparire più "business oriented" (orientati al business? Concentrati sugli affari?). La lingua italiana è capace di esprimere concetti complessi con precisione e bellezza. Sacrificarla sull'altare di un'internazionalizzazione superficiale è una resa culturale. Bisogna difendere la chiarezza della comunicazione e rispettare la dignità di una lingua che ha dato al mondo capolavori letterari e scientifici. Quando sentiamo qualcuno parlare di "deadline" invece che di "scadenza", di "conference call" invece che di "teleconferenza", ricordiamogli che l'italiano non è una lingua di serie B. E che, anche nel lavoro, la competenza professionale si dimostra con la precisione delle idee, non con l'ostentazione di un "inglesizzazione" verbale modaiola.




Il significato dello sport

Il significato dello sport ha molto a che vedere sul modo in cui ci approcciamo alla vita.

Se filtriamo sempre lo sport attraverso lenti critiche come "controllo delle masse" e "denaro", cosa otteniamo? È vero che nello sport professionistico c'è corruzione e uso politico, ma ridurre tutto a questo significa privarsi della gioia e della bellezza che lo sport può offrire, come ci hanno ricordato anche grandi pensatori del passato.

É totalmente autodistruttivo filtrare ogni esperienza attraverso la frustrazione economica e con letture politiche. 

Mantenere una certa leggerezza nell'approccio alla vita, pur essendo consapevoli delle sue contraddizioni è saggio.

Il già citato Camus vedeva nello sport (era un portiere di calcio) un'espressione di vitalità e libertà, un modo per confrontarsi con l'assurdo dell'esistenza attraverso il gioco e la competizione leale.

Erano tempi diversi ma tutt'oggi è necessario distinguere tra il gioco, autentico e vitale, e la sua manipolazione commerciale.

Lo sport ha un valore che trascende le sue contraddizioni sociali ed economiche, è un modo per mantenere vivo il "bambino interiore" che sa ancora gioire delle cose semplici, pur nella consapevolezza della complessità del mondo.

Questo non significa mettere la testa sotto la sabbia, né non essere consapevoli di come vengano utilizzati dal potere gli sport come armi di distrazione di massa, sfruttando la voglia di senso di appartenenza.

Ma a nostro avviso è saggio preservare l'innocenza bambina, trovare degli spazi di equilibrio  per non farsi rubare anche questi aspetti vitali dal potere.



Il viaggio notturno dell'anima

Quando ci addormentiamo, le porte della percezione cosciente si chiudono e un nuovo regno si spalanca davanti a noi. Il sogno non è semplicemente un passatempo della mente che riposa, ma un territorio fertile dove l'anima intraprende il suo viaggio notturno. Questo regno onirico è caratterizzato da una logica propria che sfida la razionalità diurna. Qui le immagini si fondono e si trasformano, gli eventi procedono secondo associazioni simboliche piuttosto che causali, e noi ci troviamo in un mondo dove i confini tra il sé e l'altro diventano fluidi. Particolarmente significativo è quel territorio oscuro che potremmo chiamare il "mondo infero" - un regno sotterraneo dove dimorano le ombre, le figure archetipiche e le parti rifiutate della nostra psiche. Questo mondo non è semplicemente un deposito di cose dimenticate, ma un ecosistema vitale e pulsante. Nell'antichità, questo viaggio negli inferi era riconosciuto come una necessità dell'anima. L'eroe doveva discendere, affrontare i guardiani e i mostri del regno sotterraneo, recuperare un tesoro o una verità nascosta, e poi risalire trasformato. Pensiamo a Orfeo, Enea, Dante - tutti hanno dovuto affrontare questa discesa. Oggi, il nostro mondo diurno tende a rifiutare questa dimensione. La cultura contemporanea, con la sua ossessione per la positività, la produttività e la luce, ha relegato l'oscurità a qualcosa da eliminare, medicalizzare o ignorare. Eppure, ignorare il mondo infero non significa eliminarlo - significa solo perdere il dialogo con esso. I nostri sogni rappresentano un invito a questo dialogo. Quando un'immagine onirica ci perseguita, quando un sogno ci lascia turbati al risveglio, quando figure misteriose popolano il nostro sonno, è il mondo infero che cerca di comunicare con noi. Questo regno non è meramente personale. Le figure che incontriamo nei sogni - l'ombra, l'anima, il vecchio saggio, la grande madre - non sono solo proiezioni individuali, ma entità che appartengono a un substrato condiviso dell'esperienza umana. Essi parlano un linguaggio simbolico che trascende la biografia individuale.

La discesa negli inferi onirici non è quindi un semplice esercizio di auto-comprensione, ma un atto di riconnessione con le radici stesse dell'esistenza. È un'opportunità per riportare alla luce quelle parti dell'anima che la coscienza diurna ha esiliato nell'ombra. In questo viaggio notturno, diventiamo sia Teseo che Arianna, sia il viaggiatore che il filo che garantisce il ritorno. E quando riusciamo a tornare alla luce portando con noi qualcosa di quel regno, abbiamo compiuto quello che gli antichi chiamavano il lavoro dell'anima - un lavoro che non riguarda solo la guarigione individuale, ma la rivitalizzazione del mondo stesso.




The Experiment, l' esperimento carcerario di Stanford

"The Experiment" di Oliver Hirschbiegel è un film su uno degli esperimenti psicologici più controversi della storia, il celebre "Esperimento carcerario di Stanford" condotto dal Professor Philip Zimbardo nel 1971.

In breve, 24 studenti universitari, definiti mentalmente sani, furono selezionati e assegnati casualmente ai ruoli di "guardie" o "prigionieri" in un carcere simulato allestito nel seminterrato del dipartimento di psicologia di Stanford. Ciò che doveva essere uno studio di due settimane venne interrotto drasticamente dopo soli sei giorni. Le "guardie" iniziarono rapidamente ad abusare del loro potere, imponendo regole umilianti e utilizzando punizioni psicologiche severe. I "prigionieri", dal canto loro, manifestarono segni di forte stress, depressione e sottomissione.

"The Experiment" portò sullo schermo proprio questa drammatica trasformazione psicologica, evidenziando la potenza dei contesti sociali nel plasmare l'identità e le azioni individuali. La regia di Hirschbiegel è caratterizzata da inquadrature claustrofobiche e una fotografia che diventa progressivamente più cupa, riflettendo il deterioramento psicologico dei personaggi.

Esistono altri film sul medesimo esperimento, ma questo del 2001 ci sembra il più riuscito in quanto capace di creare un'atmosfera di crescente tensione grazie anche ad alcune interpretazioni intense, in particolare dello spietato Berus (Justus von Dohnányi) nel ruolo di una guardia carceraria.

Un ritratto inquietante di come l'autorità possa corrompere la psiche umana.


Sublimazione libidica

È evidente che il digitale, in particolare le piattaforme social, ricettacolo di narcisi frustrati che inconsapevolmente partecipano al feticismo delle merci, rappresenti una forma di appagamento del desiderio libidico.
I corpi diventano veri e propri oggetti di culto, cui è assegnato un valore di scambio stabilito dal tritacarne algoritmico. I rapporti sociali di conseguenza si trasformano in transazioni, il cui ‘prezzo’ è determinato dall’abbondanza o dalla scarsità dell’apprezzamento del profilo-utente. Questo spiega anche il proliferare di app di incontri che illudono di poter rispondere alla domanda di conforto, amore e senso di appartenenza sociale che appaiono ormai lontane vestigia di un passato in cui si pagava in lire e si ascoltava la musica col walkman. Alcuni bisogni umani non sono cambiati però, benché qualcuno spinga verso il transumanesimo in cui sembra diventare ineluttabile l’interazione uomo-macchina.
Tuttavia le emozioni, i sentimenti ed i bisogni psicologici si sono fatti merce di scambio nel mondo governato dagli algoritmi che, capaci di auto-apprendimento, si sono perfettamente adattati per rispondere alla domanda, rispecchiando così la reificazione del mondo che contraddistingue il sistema capitalistico. Gli algoritmi digitali si alimentano di interazioni umane, del desiderio di accettazione sociale, del bisogno di amore e di rassicurazione, della ricerca del sacro e del trascendente.
Gli algoritmi offrono soluzioni al disagio psicologico che grava su quest’epoca, illudono di poter diventare milionari lavorando da casa e se non ci si riesce, si può sempre comprare da milionari grazie a Temu. Questi insiemi di istruzioni che lavorano in un mondo sotterraneo, invisibile e impalpabile ma che ha effetti profondamente condizionanti sul singolo e sulla società, soddisfano le pulsioni libidiche, ormai sublimate in un caleidoscopio di novità digitali che intrattengono, distraggono e spolpano la mente. Il potere del digitale sta nella capacità di colonizzare la psiche avvolgendola in una piacevole nebbia anestetica perché capace di rispondere a qualunque bisogno psicologico. Il digitale agisce da antidolorifico, narcotizza e insieme rasserena, distogliendo dalle preoccupazioni, dalle domande scomode, dalla dolorosa ricerca di senso e al contempo infonde piacere, presentandosi come facile soluzione alla nausea esistenziale. 

                                                     AM


Il calcio come metafora della vita

Camus diceva che un campo di calcio è un microcosmo della vita stessa: imprevedibile, collettivo, a volte crudele, a volte sublime, ma sempre, sempre degno di essere vissuto fino all'ultimo istante.

Per Pasolini il calcio era una rappresentazione sacra, lo vedeva come un linguaggio poetico, come un “sistema di segni”.

Effettivamente il calcio può essere visto come una grande metafora. Pensiamoci.

La partita inizia con un fischio. Proprio come la nostra esistenza, che comincia improvvisamente. Ci troviamo sul campo, già in gioco. Il pallone rotola ed è come la fortuna nella vita, che segue traiettorie che possiamo cercare di calcolare ma mai controllare completamente.

Il portiere è il custode delle nostre paure e speranze. Sempre pronto a parare l'imprevisto, rappresenta la nostra capacità di affrontare le difficoltà con determinazione e lucidità.

I difensori sono i nostri principi e valori. Proteggono ciò che è importante, affrontano le sfide con coraggio e spesso sono invisibili, ma essenziali per mantenere l'equilibrio.

I centrocampisti incarnano la nostra capacità di adattamento e comunicazione. Connessi con tutti, orchestrano le azioni, bilanciando attacco e difesa, proprio come noi bilanciamo emozioni, pensieri e relazioni.

Gli attaccanti sono i nostri sogni e ambizioni. Spingono sempre in avanti, cercando di realizzare ciò che desideriamo, ma senza il supporto degli altri ruoli, il loro slancio rimarrebbe vano.

L'allenatore è la nostra weltanschauung. Guida la squadra, prende decisioni strategiche e sa quando è il momento di cambiare direzione, proprio come noi nella nostra vita.

L'arbitro rappresenta il destino o le regole della società, a volte sembra giusto, altre volte ingiusto. Possiamo protestare, ma alla fine è lui che decide, e dobbiamo accettarlo.

I tifosi sono i testimoni della nostra vita, coloro che ci osservano, ci giudicano, ci sostengono o ci criticano. A volte la loro presenza ci dà forza, altre volte ci mette pressione.

Il tempo scorre inesorabile, scandito da un orologio che non possiamo fermare. I novanta minuti della nostra esistenza, che a volte sembrano eterni e altre volte troppo brevi.

Gli avversari non sono per forza nemici, ma ostacoli necessari che ci spingono a migliorare, a trovare nuove strategie, a reinventarci continuamente. Senza di loro, non ci sarebbe partita, non ci sarebbe crescita. A volte si segna, e la gioia è incontenibile. Altre volte si subisce un gol e si prova dolore. Ma la partita continua, implacabile, e bisogna rialzarsi, ritrovare la posizione, ricominciare a correre.

E alla fine, quando arriva il triplice fischio, ciò che conta non è solo il risultato sul tabellone, ma l’averci provato, l’aver giocato.

Nel calcio, come nella vita, ogni ruolo è interconnesso.

Il calcio ci insegna che, per navigare nella vita, per raggiungere degli obiettivi dobbiamo trovare le migliori strategie, gli equilibri e la giusta alchimia all'interno di noi.



McLuhan, estensioni ed amputazioni

Marshall McLuhan nel suo celebre testo "Gli strumenti del comunicare" sosteneva che ogni tecnologia rappresenta essenzialmente un prolungamento delle facoltà umane, fisiche o psichiche.

Secondo McLuhan, ogni mezzo tecnologico amplifica una particolare capacità umana: la ruota è un'estensione del piede, il telefono è un'estensione dell'orecchio, la televisione è un'estensione dell'occhio, i vestiti sono un'estensione della pelle, i computer sono un'estensione del sistema nervoso centrale ecc.

La sua visione considerava la tecnologia non come qualcosa di esterno a noi, ma come parte integrante della nostra evoluzione biologica e culturale. I mezzi tecnologici visti dunque non come semplici strumenti che utilizziamo, ma vere e proprie protesi che modificano il nostro modo di percepire e relazionarci con il mondo.

Vi è, secondo il sociologo canadese, però anche un fenomeno complementare, ovvero ogni estensione comporta un' "amputazione". Quando adottiamo una nuova tecnologia, deleghiamo ad essa alcune nostre funzioni, rischiando di atrofizzarle, gli esempi che potremmo fare in tal senso sono molteplici.

Queste intuizioni di McLuhan oggi risuonano ancora più potenti, gli smartphone sono diventati estensioni della nostra memoria. La realtà virtuale estende le nostre percezioni sensoriali. L'intelligenza artificiale estende e amputa allo stesso tempo le nostre capacità cognitive.

Se McLuhan avesse potuto osservare il modo in cui oggi si vive costantemente connessi ai dispositivi, probabilmente avrebbe visto la conferma delle sue teorie. La sensazione di disagio quando si è senza smartphone (la cosiddetta “nomofobia”) può essere interpretata come la reazione a una temporanea "amputazione" di una parte ormai integrata di noi.

La visione di McLuhan ci offre una prospettiva profonda per comprendere il rapporto simbiotico che abbiamo sviluppato con la tecnologia. Non si tratta più di strumenti esterni che utilizziamo, ma di vere e proprie estensioni del nostro essere, che modificano il nostro modo di percepire e interagire con il mondo. Come suggeriva McLuhan, "prima plasmiamo i nostri strumenti, poi sono questi che ci plasmano".

Oggi che la distinzione tra umano e tecnologico diventa sempre più sfumata, il pensiero di McLuhan offre strumenti preziosi per cavalcare questa trasformazione con consapevolezza e intenzionalità.


Dimensione "senza corrispondenza"

Ogni autentico percorso filosofico nasce da qualcosa che precede il pensiero razionale strutturato. Prima che la mente possa articolare concetti e costruire sistemi, esiste già in noi una forma di conoscenza primordiale e immediata dell'essere, una Weltanschauung.

Quando ci si avvicina alla filosofia, si porta con sé un'intuizione fondamentale che non è frutto di ragionamento ma di esperienza diretta. È una comprensione che precede il linguaggio e che resta, per sua natura, ineffabile. 

Questa conoscenza non si può descrivere completamente attraverso proposizioni logiche, poiché è la condizione stessa che rende possibile ogni tentativo di articolazione concettuale.

Come osservava Dostoevskij, si conosce questa dimensione "senza corrispondenza" – cioè senza la mediazione di simboli o rappresentazioni. È una conoscenza diretta, immediata, che sfugge alla cattura del linguaggio pur essendo innegabilmente presente.

La dialettica, con il suo movimento di tesi, antitesi e sintesi, non è che un tentativo di dare struttura razionale a qualcosa che, in origine, si manifesta come intuizione unitaria.

Quando il filosofo sviluppa il suo sistema, sta essenzialmente cercando di tradurre in concetti un'esperienza che precede i concetti stessi. È come se la filosofia fosse il tentativo di cartografare un territorio che già conosciamo intimamente, ma che non possiamo descrivere direttamente.

L'intuizione fornisce la materia prima, l'esperienza fondamentale dell'essere, il pensiero razionale tenta di organizzare questa esperienza in strutture comprensibili e comunicabili.




Algomondo

Hanno convinto le persone che non possono fare a meno di consumare. Così sì consumano alimenti industriali modificati artificialmente per essere resi più appetibili grazie ad esaltatori di sapidità, coloranti e addensanti. Si usano farmaci di cui non si ha bisogno ed ogni mese sul mercato ne sono lanciati di nuovi: ormai esiste un antidolorifico specifico per ogni parte del corpo. Si guardano film, serie tv e programmi standardizzati; si vestono abiti pensati per l’individuo qualunque, cuciti nelle stesse fabbriche nelle periferie del mondo; si ascolta musica prodotta da replicanti e si guidano macchine che spiano tragitti, frenate e parcheggi. Si acquista roba di plastica online e ci si indebita per altra roba di plastica, magari da iniettare sottopelle per sembrare più giovani.
Ci si informa attraverso media che veicolano contenuti preconfezionati; si lavora anche quando si è a casa, per rispondere al bombardamento di mail che costringono ad essere segretari di se stessi. Si producono contenuti sui social, non-luoghi di falsa socialità funzionale alla logica del profitto.
Hanno convinto le masse che non possono fare a meno di vivere in questa nuova società organizzata scientificamente, come in una moderna fabbrica toyotista. Ammassati come merce a basso costo su uno scaffale, oscillanti tra le onde di una bulimica economia di mercato, ci si sente cosmopoliti seduti a bordo di un volo Ryanair con le ginocchia alla bocca.
Tutti efficienti per l’algomondo, il mondo governato dagli algoritmi di intelligenza artificiale. In realtà si lavora per loro, per incrementarne la potenza, la capacità di calcolo e quella previsionale. Si produce e si consumano al contempo dati digitali in quella
 che il sociologo Lelio Demichelis ha recentemente definito la moderna società-fabbrica. 



                                                    AM

Corsi di "Risveglio"

 “Sto facendo un corso di risveglio!”.

Nel 2025 ancora circolano “corsi di risveglio”, gli stessi che vengono propinati da una ventina anni, trovando sempre nuove leve.

"Vibrazioni energetiche", "Coscienza superiore", "Matrix sociale", "Risveglio dal sonno collettivo", sono solo alcuni tra i termini evocativi utilizzati per creare quella sensazione di esclusività che tanto piace all'ego del "ricercatore spirituale".

Abbiamo già trattato questo argomento per quello che è ma purtroppo finchè la gente non ci sbatte il muso non riesce a comprendere. Trattasi di un modello di “business” alternativo, semplice ma efficace, fondato su due punti:

  •         tu sei "addormentato" in un mondo di "dormienti"
  •         il corsista, anche lui era un addormentato eh, un giorno si è svegliato e ora vuole svegliare gli altri con un percorso verso il "risveglio" a pagamento. Un filantropo.

È lo stesso meccanismo della pubblicità più banale, solo che invece di vendere una crema antirughe, vendono una promessa di una trasformazione esistenziale.

La strategia di vendita si basa solitamente su alcuni elementi:

- Il momento storico: "Il mondo sta cambiando, le vibrazioni si stanno alzando, non rimanere indietro!".

- L’esclusività: "Non tutti sono pronti per questo messaggio, tu se sei qui è perché sei una sorta di eletto, su quelli come noi dipenderà il futuro" (l’ego del “ricercatore spirituale” si gonfia ancora).

- La “scienza”: vengono proposti riferimenti a casaccio alla fisica quantistica o alle neuroscienze per dare un tono di scientificità, per non sembrare dei cialtroni insomma.

Il fenomeno è insidioso perchè sfrutta bisogni umani quali il desiderio di appartenenza, la ricerca di significato e la voglia di trascendere le difficoltà quotidiane. Funziona particolarmente bene, specialmente in momenti di vulnerabilità personale.

Il "risvegliato" viene progressivamente isolato dal suo ambiente sociale originario ("loro non capiscono", "sono ancora addormentati") e inserito in una nuova comunità di persone “sveglie”. Ogni dubbio viene reinterpretato come "resistenza dell'ego" o prova che "non sei ancora pronto". Un meccanismo di controllo mentale perfetto: impermeabile alla critica esterna e capace di trasformare il fallimento in conferma della propria validità.

Ovviamente c’è il discorso economico, perché chiaramente c’è tutta una metodologia di marketing (“ultimi posti disponibili”, “prima lezione gratuita” ecc) ma il danno più grave è psicologico. Questi percorsi incoraggiano una visione semplicistica della realtà, dove problemi complessi hanno soluzioni facili. Promuovono un narcisismo spirituale che porta a guardare dall'alto in basso chi "non capisce", e creano dipendenza da esperienze emotive piuttosto che favorire una reale crescita interiore.

Se i partecipanti non ottengono i risultati promessi, la responsabilità ricade ovviamente su di loro: "stai resistendo al cambiamento", "devi lasciar andare le tue limitazioni". Mai, in nessun caso, si contempla la possibilità che l'intero sistema sia fondato su presupposti fallaci.

Cari amici che cadete in buonafede in questi deleteri buchi di nulla (ci sarebbero da fare tanti nomi di geni che propinano tale spazzatura), a causa di una società materialista che non offre sbocchi verso la trascendenza, ricordate che la vera ricerca spirituale richiede silenzio, studio, apertura al pensiero critico, non dogmi presentati come verità assolute. Necessita di integrazione con la vita quotidiana, non fuga dalla realtà. Studia tradizioni filosofiche e spirituali seriamente, non si appropria superficialmente di concetti estrapolati dal contesto mescolandoli con becere tecniche di marketing.

Fate attenzione perché, per esperienza vi diciamo che alcune persone alla lunga hanno subito conseguenze da questi “percorsi”, purtroppo a volte anche tragici.