Palestre moderne

Le palestre moderne, con i loro specchi infiniti e le luci calcolate, sono diventate il tempio di un culto silenzioso.

Premettiamo, il movimento è vita, l'attività fisica è medicina per il corpo e balsamo per la mente. Il punto non è questo.

C'è qualcosa di profondamente diverso tra chi corre per sentirsi vivo e chi solleva pesi per sentirsi visto. Tra chi si muove per abitare il proprio corpo e chi lo scolpisce come un'opera d'arte destinata allo sguardo altrui.

La palestra “narcisistica”, chiamiamola così per intenderci, quella frequentata non per salute ma per apparenza, è un luogo pieno di gente ma che puzza di solitudine. Vi abitano tanti soggetti impegnati in un dialogo ossessivo con la propria immagine riflessa.

Quando il corpo diventa puramente estetico, quando ogni muscolo è calcolato per l'effetto visivo e non per la funzione, non si sta coltivando salute, si sta costruendo un simulacro. Il corpo è uno strumento per abitare il mondo, non una statua da esporre. C'è qualcosa di tragicamente postmoderno in questa riduzione del corpo a superficie.

La palestra “narcisistica” è solo l'ennesima manifestazione della disperata fame di validazione esterna, i cui meccanismi sono ben visibili sui social network.

Lo sport vero insegna l'umiltà della sconfitta, la gioia della collaborazione, il rispetto per l'avversario che ti spinge oltre i tuoi limiti. Ti mette di fronte alla tua fragilità e alla possibilità di superarla non per apparire, ma per diventare. Nel basket ad esempio si impara che il corpo serve a passare, saltare, coordinarsi con altri corpi. Nell'arrampicata si scopre che i muscoli non esistono per essere belli ma per portarti più in alto. Nella danza si capisce che la forma segue il movimento, non il contrario. E così via con gli altri sport.

Ribadiamo che non stiamo demonizzando la palestra in sé, né negando che molti la frequentino con equilibrio e motivazioni sane. Non si può però negare questo visibilissimo fenomeno che trasforma il corpo da mezzo a fine, da strumento di vita a oggetto di esibizione.




La moda del "riconoscere il narcisista"

 " Come riconoscere il narcisista", "Come proteggersi dal narcisista", "Fuggire dal narcisista".

Ecco l’ultima moda. Improvvisamente ci si è accorti di essere circondati da una specie umana distinta e pericolosa, da cui bisogna difendersi.

Il narcisismo patologico, che teoricamente nella psicologia clinica è un disturbo preciso, con caratteristiche definite, è oggi diventato un’etichetta universale, applicabile praticamente a chiunque non corrisponde alle proprie aspettative relazionali.

Ogni comportamento problematico viene ridotto a questa etichetta. Complessità umana, sfumature, contesti? Macché, c’è solo l’etichetta di “narciso”.

D’altronde così tutto diventa rassicurante, “Non è colpa mia, è un narcisista!" – questa frase libera da responsabilità, semplifica il dolore, offre una narrazione chiara.

Diffidare sempre dalle narrazioni nette. Le relazioni falliscono per mille ragioni, le persone feriscono e vengono ferite in dinamiche complesse dove raramente esiste un colpevole assoluto e una vittima perfetta.

Questo sguardo sospettoso, alimentato da “influencer” di ogni genere, avvelena le relazioni prima ancora che possano svilupparsi. Crea barriere preventive, muri eretti per proteggersi dalle famose relazioni “tossiche” (altro termine abusato), rendendosi incapaci di relazioni autentiche.

“I narcisisti non cambiano mai", "non hanno empatia", "sono irrecuperabili", affermazioni ripetute come mantra che negano qualcosa di fondamentale dell'esistenza umana: la possibilità del cambiamento.

Non che sia semplice modificare strutture psichiche profonde, ma negare a priori ogni possibilità di evoluzione, crescita, guarigione, significa condannare eternamente il prossimo. È un modo di pensare che nega la storia personale, il fatto che siamo tutti, in qualche misura, figli del nostro passato, ma non necessariamente suoi prigionieri per sempre.

Queste narrazioni spesso vengono alimentate da chi è avvelenato/a con l’altro sesso, vi è tutta una narrazione di guerra tra uomini e donne. Nella complessità delle relazioni umane l'altro genere oggi diventa il nemico da temere, studiare, evitare. E così, nell’illusione di proteggersi si costruiscono muri, incomprensioni e nuove solitudini. Qualcuno dall’alto ne sarà felice.

Il nostro umile consiglio è di rimanere aperti verso la complessità. Tra quella che chiamano “patologia clinica” e la “normalità” esiste uno spettro infinito di sfumature. Le relazioni sono difficili, richiedono lavoro, comprensione, pazienza. Falliscono per ragioni complesse, raramente riducibili a etichette rassicuranti di questo genere.

Invece di nascondersi e autogiustificarsi dietro patetici schemi, si sviluppi la capacità di vedere le persone nella loro complessità, di riconoscere i comportamenti problematici senza ridurre tutti a etichette erigendo muri invalicabili.



Impostori "spirituali" e abusi

Tra le tante modalità di spiritualità alternative, proliferano ormai da anni sempre più individui che costruiscono la loro autorità su un sincretismo opportunistico, un mix di terminologie yogiche, concetti orientali fraintesi, riferimenti tantrici decontestualizzati e psicologia spiccia per ottenere sesso. Parlano di "energie sottili", di "sbloccare i chakra", di "risveglio della kundalini". Il loro linguaggio é un collage costruito per impressionare chi non ha strumenti critici per valutarlo.

La triste realtà è che dietro molti di questi "santoni" ci sono semplicemente dei cercatori di sesso.

Il meccanismo è sempre lo stesso, si presentano pratiche sessuali come "tecniche iniziatiche", trasformando l'abuso in presunto rito sacro. La vittima viene convinta che la propria resistenza sia "blocco energetico", che il disagio sia "resistenza dell'ego", che la violazione sia in realtà "liberazione".

Il "maestro" si pone come tramite necessario, crea una gerarchia spirituale dove lui occupa il vertice indiscutibile, depositario di conoscenze segrete. Le adepte, selezionate in base alla loro ingenuità e fragilità, vengono gradualmente separate dal proprio giudizio razionale, invitate a "superare la mente", a "arrendersi", a "fidarsi completamente". Ogni dubbio viene reinterpretato come ostacolo alla crescita spirituale.

Se la lei non si lascia andare come dovrebbe allora non è abbastanza "aperta", non ha "lavorato abbastanza su di sé", è "ancora troppo attaccata alle convenzioni". Chi non capisce si sente inadeguato, non osa contestare per paura di rivelare la propria "ignoranza spirituale".

Questo fenomeno è molto più diffuso di quanto si creda. È  figlio di tempi in cui si romanzano le tradizioni orientali, ignorandone la complessità e il rigore. 

Le autentiche tradizioni orientali non hanno nulla a che vedere con tali ciarlatani. Un vero maestro zen, un autentico insegnante di yoga classico, un lama tibetano formato tradizionalmente non userebbe mai la propria posizione per abusi sessuali, perché di questo si tratta.

Tali impostori "spirituali", detta volgarmente, sono semplicemente dei malati di F.

Nulla più. 

Coppie aperte, poliamori e logismoi

Ogni giorno i media mainstream ci informano dell'aumento di coppie aperte, relazioni poliamorose e situazioni di questo genere.

Effettivamente sono fenomeni sempre più diffusi, più di quanto si possa pensare.

C'è qualcosa di profondamente antico in queste dinamiche.

I Padri del deserto – Evagrio Pontico, Giovanni Cassiano – chiamavano logismoi quei pensieri insistenti, quelle suggestioni che iniziano come sussurri innocui nella mente e gradualmente si trasformano in ossessioni capaci di sovvertire l'intera architettura interiore della persona. Ciò che inizia come curiosità, come desiderio di "esperienza", come legittima ricerca di autenticità – "perché dovremmo reprimerci?" – segue la stessa dinamica dei logismoi: un pensiero che bussa alla porta, che promette libertà, espansione, vita più piena. E che, una volta accolto senza discernimento, colonizza progressivamente lo spazio della relazione.

La trasgressione ha sempre esercitato fascino perché promette di liberare dai limiti. 

I Padri del deserto comprendevano qualcosa che l'individualismo moderno fatica a cogliere: eliminare ogni confine non è liberazione, è dissoluzione.

Quando si smantellano questi confini in nome della libertà assoluta, non si trova uno spazio più ampio, ma la dispersione. Come i logismoi che promettevano pace interiore e lasciavano invece frammentazione.

Le relazioni aperte o poliamorose spesso nascono da un'illusione: quella dell'io completamente sovrano, padrone dei propri desideri, capace di compartimentalizzare i sentimenti come se fossero caselle di un'agenda.

I Padri del deserto sapevano che i logismoi prosperano proprio su questa illusione di controllo. "È solo un pensiero, lo gestisco io", diceva il monaco. "È solo un'esperienza, siamo maturi", dicono le coppie. Ma l'eros ha logiche proprie, non negoziabili. La gelosia, l'attaccamento, il senso di unicità non sono "costrutti sociali" facilmente decostruibili: sono strutture profonde della psiche relazionale.

I Padri non condannavano il desiderio in sé, ma insegnavano il discernimento: non ogni pensiero va coltivato, non ogni impulso va assecondato. Esisteva una saggezza dei confini, una comprensione che la libertà autentica non è assenza di limiti, ma capacità di scegliere quali limiti abbracciare per costruire qualcosa di solido.

Oggi questa saggezza appare incomprensibile, per la psicologia moderna trattasi di repressione, paura, mancanza di coraggio. Invece è l'opposto: è il coraggio di dire "questo sì, questo no", di costruire un'identità relazionale definita.

Le testimonianze parlano chiaro, è pieno di coppie distrutte da esperimenti partiti come "innocui". Non per moralismo, ma perché certe porte, una volta aperte, non si richiudono facilmente. 

La tradizione monogamica non nasce solo da convenzione sociale, ma da un'intuizione profonda sulla natura dell'amore tra due persone: che fiorisce in un giardino recintato, non in un campo aperto a tutti i venti.

I logismoi dei Padri e i desideri trasgressivi contemporanei condividono la stessa seduzione: promettono di più, consegnano frammentazione. 

Riflettere.


Pensioni

Si parla spesso di aumento o diminuzione dell'età pensionabile ma questo argomento non viene mai esaminato come si dovrebbe.

La domanda cruciale è: perché lo Stato, in una società che si proclama "libera", deve trattenere forzatamente una porzione del nostro reddito per restituircela decenni dopo? Perché questa insistenza paternalistica su un futuro che potremmo non vedere mai?

La domanda non è meramente economica, è esistenziale. 

Il sistema pensionistico si fonda sul presupposto che vivremo abbastanza a lungo da godere di ciò che ci viene sottratto oggi. Ma la morte non rispetta i piani quinquennali dello Stato. Chi muore a cinquant'anni ha finanziato il riposo altrui, non il proprio. Il suo sacrificio obbligatorio diventa un tributo involontario a sconosciuti più fortunati nella lotteria della longevità.

Dietro la logica previdenziale vi é il paternalismo, i cittadini vengono considerati incapaci di pianificare il proprio futuro, devono essere protetti da se stessi attraverso la coercizione benevola. Lo Stato è il padre che mette da parte i soldi della paghetta, convinto che altrimenti li spenderemmo tutti in caramelle.

Una scelta che dovrebbe essere personale diventa un obbligo collettivo. Trasforma cittadini in dipendenti di un sistema che decide per loro quando, come e quanto del loro stesso denaro potranno utilizzare.

Lo Stato sequestra una porzione significativa del nostro lavoro presente per un futuro ipotetico. Ma il nostro tempo, il nostro lavoro, la nostra vita sono ora. Ogni euro che si guadagna rappresenta ore di esistenza convertite in valore. Perché qualcun altro dovrebbe decidere che una parte di queste ore appartiene non a me oggi, ma a un me stesso settantenne che potrebbe non esistere mai?

Nessuno di noi ha mai avallato questo patto generazionale. Siamo nati dentro un sistema che ci obbliga a finanziare i pensionati di oggi con la promessa che i lavoratori di domani faranno lo stesso per noi. Non c'è possibilità di rifiuto. 

Immaginiamo un sistema diverso: lo Stato restituisce ogni centesimo che attualmente trattiene per la pensione. Sta poi a ciascuno decidere come investire quel denaro. Alcuni potrebbero risparmiare e mettere da parte. Altri potrebbero investire in imprese, immobili, formazione. Altri ancora potrebbero scegliere di vivere pienamente il presente, accettando il rischio di una vecchiaia meno confortevole.

Non sarebbe questo più coerente con i principi di una società "libera"? 

I difensori del sistema attuale invocano la solidarietà intergenerazionale, la protezione dei vulnerabili, il rischio che troppi arrivino alla vecchiaia senza risorse, gravando sulla collettività. Ma questa solidarietà imposta per legge è semplicemente redistribuzione coatta travestita da virtù civica.

La vera solidarietà è la scelta, non la coercizione. 

Chi dovrebbe avere il diritto di decidere come viviamo la nostra vita? Noi stessi, o lo Stato?


Shame, dipendenze e pensieri ossessivi

Shame di Steve McQueen non è un semplice film sulla dipendenza sessuale, ma un'indagine filosofica sulla condizione umana quando il desiderio si trasforma da ricerca di pienezza a meccanismo di fuga.

La dipendenza dal sesso non porta al piacere, ma all'anestesia emotiva, alla lacerazione interiore, al vuoto esistenziale. Ogni "conclusione" sessuale dovrebbe portare sollievo, ma diventa immediatamente necessario ricominciare. È la condanna di Sisifo in versione contemporanea: la compulsione che si rinnova infinitamente, senza mai raggiungere una vera soddisfazione.

Nel film il protagonista Brandon non riesce a fare sesso con la collega di cui si innamora proprio perché c'è un coinvolgimento emotivo reale, mentre riesce a concludere laddove gli incontri sono meccanici, anonimi, svuotati di ogni elemento relazionale. Un circolo vizioso tra compulsione e disgusto di sé.

Anche quando Brandon sembra voler cambiare, il mondo continua a tentarlo. La scena in metropolitana è magistrale nella sua ambiguità: la donna con la fede nuziale ricambia lo sguardo di Brandon. È fidanzata, forse sposata, eppure ammicca. La tentazione non è solo dentro Brandon ma è strutturale alla società contemporanea. Anche chi apparentemente vive nella "normalità" delle convenzioni sociali (il matrimonio, la fedeltà) partecipa a questo gioco di sguardi, di disponibilità sotterranea. Lo stesso accade in discoteca: la donna fidanzata non si sottrae. Il mondo è complice della dipendenza, la alimenta continuamente.

Nelle tradizioni monastiche cristiane, i Padri del Deserto parlavano di logismoi, pensieri ossessivi che assediano l'anima. Non basta il desiderio di purificazione: il mondo, la carne, il demonio - o, in termini contemporanei, la società iper-sessualizzata e la struttura stessa del desiderio - continuano a bussare. La tentazione di Cristo nel deserto non avviene una volta sola: ritorna, si ripresenta sotto nuove forme.

Anche nella tradizione buddhista, Mara - la personificazione dell'illusione e dell'attaccamento - non abbandona il praticante dopo l'illuminazione, ma continua a manifestarsi, richiedendo vigilanza costante.

Non c'è un punto d'arrivo, una guarigione definitiva. C'è solo la scelta continua, rinnovata ogni giorno, ogni ora. La dipendenza, quindi, non porta solo alla distruzione della capacità di amare e connettersi autenticamente. Porta a una forma di inferno esistenziale dove anche il desiderio di cambiare non basta, perché il mondo stesso è strutturato per riattivare continuamente la compulsione.

Spensieratezza rubata

Ci sono bambini di quattro/cinque anni che hanno l'agenda più piena di un manager.

Lunedì inglese, martedì nuoto, mercoledì musica, giovedì calcio, venerdì teatro. Non sia mai che "perdano tempo" o restino "indietro".

A quattro, cinque anni invece di scoprire il mondo con meraviglia, imparare la noia, inventare giochi con due cuscini e una coperta, li riempiono già di aspettative, di obiettivi da raggiungere. 

È pochissimo é poi il tempo che rimane per giocare spontaneamente con gli amici del parco, perché "deve sviluppare i suoi talenti".

I bambini hanno bisogno di noia. Di tempo vuoto da riempire con la fantasia. Di ginocchia sbucciate. Di pomeriggi a non fare "niente di produttivo". Hanno bisogno di provare e riprovare senza pubblico, di essere mediocri in qualcosa senza sentirsi inadeguati.

Non stanno preparando un curriculum. Stanno vivendo una fase della vita meravigliosa.

E invece li si carica di ansia da prestazione prima ancora che sappiano leggere. Li si guarda con sospetto se non sono "al livello" degli altri, se preferiscono giocare con la terra invece che imparare la terza lingua. Come se l'infanzia fosse un investimento da ottimizzare e non un tempo prezioso da vivere.

I bambini devono semplicemente  essere bambini. Correre senza meta, ridere, inventare cose. Crescere senza bruciare le tappe senza entrare nelle logiche della competizione perenne.

Spensieratezza rubata.

Piccoli adulti stressati crescono.



Ulisse e le sirene digitali

Nell' Odissea, Ulisse affronta una delle prove più simboliche del suo viaggio: il passaggio davanti all'isola delle Sirene. Creature ammalianti che promettevano piacere supremo, ma il loro richiamo conduceva alla rovina. L'eroe greco, consapevole del pericolo, si fece legare all'albero della nave mentre i suoi compagni remavano con le orecchie sigillate dalla cera.

Dopo secoli quel mito risuona potentissimo nel nostro quotidiano. Ogni giorno, come moderni Ulisse, si naviga in un mare di tentazioni.

Qualche esempio concreto?

Le sirene digitali, il mondo degli smartphone promette connessione col mondo ma in realtà isola. Lo vediamo cosa è accaduto negli anni, strade vuote, ragazzi che escono assieme ma ognuno sta ricurvo sul suo telefono, coppie e famiglie che quando si ritrovano rifuggono negli schermi e potremmo continuare a lungo con l'elenco.

Le sirene del consumo compulsivo che mascherano il vuoto che nessun oggetto potrà mai colmare.

Le sirene dell'ego tentano con la gloria effimera dei social media, dove tutti si mettono in mostra, dove ogni like diventa una piccola dose di validazione, ogni commento una conferma della propria esistenza. L'ego si gonfia mentre si perde connessione con se stessi.

Le sirene della lussuria digitale che operano nell'ombra della privacy dello schermo. Promettono emozioni intense, evasione dalla routine, eccitazione senza conseguenze. Attraverso app, piattaforme di incontri, sussurrano che possiamo avere tutto senza pagare alcun prezzo. In realtà poi accade che famiglie si disgregano, fiducia accumulata in anni si dissolve in un istante, e ciò che prometteva piacere lascia solo macerie di dolore e rimpianto.

Il tutto esattamente come le sirene antiche le quali promettevano per poi condurre alla distruzione.

La differenza tra noi e Ulisse è che lui conosceva la natura del pericolo e si era preparato. Molti di noi invece navigano sguarniti senza corde che tengano saldi. Ci si racconta che "sono solo curiosità", che "non sta succedendo nulla di male", che "posso controllare", proprio mentre le correnti trascinano verso gli scogli.

La saggezza antica insegna che la libertà non è l'assenza di tentazioni, ma la consapevolezza di esse e la scelta consapevole. È necessario dunque riconoscere le sirene per ciò che sono: illusioni che promettono ciò che non possono dare, che offrono piacere momentaneo in cambio di tesori duraturi come l'integrità, la fedeltà, la fiducia reciproca. Gli ancoraggi sono la meditazione, la preghiera, la riflessione onesta su ciò che realmente conta, la coltivazione di relazioni autentiche e la presenza consapevole. È l'impegno verso questi elementi la corda che tiene saldi all'albero maestro.

Videogiochi e social network

Non tutti gli schermi sono uguali.  

I tanto criticati classici videogiochi da console distruggevano la capacità di concentrazione dei ragazzi? Avevano lo stesso effetto dei social media che frammentano l'attenzione?

In un classico videogioco (non parliamo ovviamente dei giochini passatempo dopaminici da smartphone), si è dentro un mondo, c'è un obiettivo, una sfida, un percorso. L'attenzione non viene dispersa ma concentrata, orientata verso un fine.

I social media, al contrario, sono un flusso infinito di frammenti sconnessi. Non c'è una meta, non c'è una narrazione. Si scrolla in un eterno presente discontinuo, dove ogni contenuto nega quello precedente e annuncia quello successivo, senza mai costruire un senso compiuto.

Quando l'attenzione di un giovanissimo viene costantemente frammentata, è l' identità ad andare in confusione poiché l'io si costituisce attraverso la continuità dell'esperienza, attraverso un filo narrativo. Se questo filo si spezza ogni tre secondi, si diventa una collezione di istanti sconnessi. 

Il filosofo William James scriveva che "la mia esperienza è ciò a cui acconsento a prestare attenzione". Ma quando l'attenzione è catturata, algoritmo dopo algoritmo, da meccanismi progettati per trattenerla, cosa rimane?

I social media sfruttano un principio ancestrale della mente: l'attrazione verso il nuovo. Offrono novità come fine a sé stessa, come pura stimolazione senza contenuto.

L'attenzione è la forma più pura di libertà che si possiede. Decidere a cosa prestare attenzione significa tutto, a partire dal tipo di persona che si vuole diventare. 

Quando si cede il controllo dell'attenzione a meccanismi esterni, si diventa inautentici, guidati dal flusso impersonale della distrazione collettiva.


Spiritualità "New Age"

Certo che ne circolano di personaggi bizzarri.

Ieri ci è capitato di ascoltare qualche minuto di un soggetto che vende "corsi spirituali", costui ad un certo punto esclamava: "perché le cose stanno così, non come dice la New Age!!".

Le comiche, questi si presentano come alternative "autentiche" e "profonde" a quello che definiscono un movimento superficiale e commerciale. Ma esattamente da quale pulpito?  Essi mescolano terminologie prese da tradizioni diverse senza alcuna coerenza dottrinale, fanno esattamente ciò che rimproverano alla New Age, ovvero commercializzano la spiritualità attraverso una sintesi arbitraria di elementi scollegati. 

Sono cani sciolti che fanno marketing, senza alcun collegamento organico con una tradizione autentica. La loro "autorità" si basa esclusivamente sull'auto-proclamazione e sulla capacità di marketing. Quando criticano la New Age per la sua superficialità, dimenticano di spiegare da quale posizione privilegiata possano formulare tale giudizio. Da quale catena di trasmissione tradizionale verificabile arrivano? Da nessuna, parlano a titolo personale, si costruiscono un brand in una spirale infinita di autoreferenzialità.

Stiamo parlando dunque di "newaggiari" che criticano la New Age , di ciarlatani che hanno scelto una strategia per ritagliarsi una nicchia di mercato. 

D'altronde lo sappiamo che in questa epoca si specula sulla ricerca di spiritualità della gente che non trova alternative concrete radicate in tradizioni autentiche, che non conosce maestri delle grandi tradizioni contemplative. 

E così spuntano fuori costantemente i furbetti della spiritualità farlocca, vampiri che guadagnano sugli ingenui.

Diffidare sempre da chi vende "spiritualità".


Parassitaggio

C'è chi cerca compagnia per condividere la propria interiorità e chi invece la cerca per colmare un vuoto. Chi, negli anni, non ha coltivato dentro di sé riflessioni, interessi genuini, creatività e contemplazione, si trova in una condizione di dipendenza emotiva dagli altri. Egli ha fame costante di presenza altrui, non cerca una sana socialità, ha solo paura del silenzio. Perché quando si rimane soli con se stessi o si scopre di essere compagnia interessante per se stessi, oppure ci si accorge di essere estranei alla propria stessa esistenza. Il punto è che chi non sa stare solo non sa nemmeno stare con gli altri. Porta nelle relazioni non un contributo, ma un bisogno, la necessità che l'altro riempia il tempo, distragga dai pensieri, fornisca identità e significato. Questo tipo di compagnia è parassitaria, si nutre dell'energia altrui senza restituire nulla di sostanziale. Al contrario, chi ha imparato a trovare ricchezza nella solitudine porta nelle relazioni valore aggiunto. Sa ascoltare perché sa anche ascoltarsi, sa dare perché ha qualcosa da dare, sa apprezzare l'altro perché non ne ha bisogno. La compagnia degli altri deve essere una scelta, non una necessità, un piacere e non una fuga. Solo se non si ha paura di rimanere soli si può davvero incontrare gli altri, altrimenti è mero parassitaggio, come la gran parte delle relazioni.

Lo sguardo domestico

Osservare con sguardo "domestico" il proprio marito, la propria moglie, il proprio fratello, la propria sorella, i propri figli, crea alienazione. 

La famiglia, quando non è sana, diventa una prigione di etichette cristallizzate. Una volta assegnato un ruolo - il figlio "irresponsabile", la figlia "brava", il fratello "problematico" - diventa quasi impossibile liberarsene. I familiari diventano guardiani inconsapevoli di questa prigione identitaria, perpetuando dinamiche che negano la crescita, l'evoluzione e la trasformazione della persona. Perpetuare la quotidianità in questi contesti, magari per impedimenti economici o sociali, significa sentirsi negati nella propria essenza, ridotti a una caricatura di se stessi. Mentre fuori dal contesto familiare le persone chiedono loro consigli, li rispettano, riconoscono il loro valore, a casa vengono sistematicamente sottovalutati. Essere una persona stimata all'esterno e un fantasma nella propria casa è un fenomeno diffusissimo, che tocca trasversalmente ogni classe sociale e culturale. 

La vicinanza genetica e la condivisione prolungata di spazi e tempi creano una presunzione di conoscenza che blocca la vera comprensione. Alcuni familiari rimangono intrappolati nelle lenti del passato e non riescono a vedere oltre, cristallizzando l'immagine dell'altro in una versione anacronistica e limitante. Questo meccanismo si autoalimenta: più una persona cerca di dimostrare il proprio cambiamento all'interno della famiglia, più viene ricondotta ai vecchi schemi interpretativi. È come se esistesse una resistenza sistemica al riconoscimento dell'evoluzione individuale, una sorta di omeostasi relazionale disfunzionale.

Sono una minoranza le famiglie dove tali dinamiche non si verificano, sono quelle in cui regna una curiosità autentica verso l'altro.

In tanti si ritrovano in queste alienanti situazioni. Non serve la frustrazione, la soluzione migliore è quella di smettere di cercare validazione dove non può essere trovata. Se in famiglia vige questa stagnazione percettiva, è necessario cercare tra gli "estranei" chi sa vedere davvero chi siamo, senza l'utilizzo di lenti statiche e distorte dal peso della storia condivisa. 

La famiglia che non sa riconoscere il valore autentico di chi le appartiene non merita il potere di definirne l'identità. 


Invidia

L'invidia è un sentimento corrosivo che si annida spesso, non tanto negli sconosciuti ma dietro il sorriso dell'amico, di un familiare. É la gioia altrui che diventa veleno in corpo, che trasforma il successo del fratello in una sconfitta personale.

 Attenzione non è un fenomeno raro, è onnipresente. Sant'Agostino scriveva che l'invidia nasce da una perversione dell'amore stesso, dove si dovrebbe gioire per il bene dell'altro, si prova amarezza; ci si ritrova a mormorare nell'ombra. Non vi è una capacità di sentire i suoi traguardi come felicità condivisa, egli diventa un rivale segreto.

Aristotele notava come l'invidioso soffra non tanto per ciò che gli manca, quanto per ciò che l'altro possiede. È una forma peculiare di cecità spirituale che impedisce di vedere l'unicità della propria esistenza, perché troppo impegnati a misurare la distanza che la separa da quella degli altri.

In pochi sono immuni da questo veleno, chi più chi meno. Anche chi dice di non esserlo, spesso cova tali sentimenti all'interno di sé e neppure se ne rende conto.

Chi ha creato i social network lo sa bene, difatti tutto questo sbandieramento di vite "felici" (che in realtà non lo sono) non è altro che materiale per l'ingranaggio dell'invidia. Questa fragilità umana va osservata, accettata e combattuta. Riconoscere che anche nei rapporti più cari può annidarsi l'ombra dell'invidia è onestà e saggezza. Non esiste l'assenza di tentazioni, ma vittoria quotidiana su di esse.

Si guarisce da tale sentimento con la consapevolezza della propria unicità, riconoscendo la propria vita come dono irripetibile e non come una gara da vincere.

Affermare di non essere invidiosi non basta, bisogna osservarsi attentamente. Contro l'invidia che divide, solo una presa di coscienza dei meccanismi umani può prevalere.

"Lo Squalo" di Spielberg e la noia

Ieri sera al cinema proiettavano la versione restaurata de "Lo Squalo" di Spielberg.

Scena a cui abbiamo assistito: un gruppo di adolescenti entra in sala pensando di vedere un film nuovo, dopo neppure metà film, realizzato che si trattava di un film del 1975, si sono alzati e se ne sono andati tra improperi. Il motivo? Il film era "troppo lento". Questi ragazzi, cresciuti nell'era degli squali volanti e degli effetti speciali ipercinetici, non riuscivano a reggere i ritmi di un capolavoro con i suoi dialoghi densi, la tensione costruita gradualmente, l'uso magistrale del non-detto e del non-mostrato, appariva loro noioso, privo di quella stimolazione continua a cui sono abituati.

Questo episodio è l'ennesima conferma di come le nuove generazioni abbiano sviluppato una soglia di attenzione sempre più bassa per tutto ciò che richiede riflessione, pausa, contemplazione. Tutto deve essere veloce, spettacolare, adrenalinico con effetti speciali continui, esplosioni visive, azione costante e zero tempi morti. Deve essere istantaneo con gratificazione immediata e nessuna attesa, stile TikTok. D'altronde sono anche molti genitori ad alimentare questa cultura dell'istantaneo. Invece di educare i figli alla pazienza e alla contemplazione, scelgono la strada più semplice: tablet per calmarli, contenuti veloci per intrattenerli, gratificazioni immediate per evitare capricci. Quanti genitori si siedono con i figli a guardare un film "lento" spiegando loro il valore della costruzione narrativa invece di cambiare canale al primo segno di noia del bambino?

La società va veloce e spinge in questa direzione tiktokiana ma se già tra le mura domestiche si cresce in tal maniera…

Tutto inizia in casa, con scelte quotidiane apparentemente piccole ma dal grande impatto. Un genitore che non ha mai educato il figlio ad aspettare, ad annoiarsi, difficilmente crescerà un ragazzo capace di apprezzare la complessità artistica.

Tabaccherie postmoderne

Quando entriamo nelle tabaccherie rimaniamo sempre perplessi. Quelle che un tempo erano semplici punti vendita di giornali e sigarette si sono trasformate in qualcosa che assomiglia a dei micro-casinò di quartiere. Entrare oggi in una tabaccheria significa essere accolti da un tripudio di stimoli sensoriali calibrati: luci led che lampeggiano incessantemente, suoni elettronici che promettono fortune immediate, schermi che mostrano estrazioni in tempo reale. L'architettura stessa dello spazio è stata ripensata secondo una logica che Michel Foucault avrebbe riconosciuto come disciplinare: ogni elemento è posizionato strategicamente per catturare l'attenzione e indurre comportamenti specifici. Il gratta e vinci, esposto come caramelle colorate alla cassa, normalizza l'idea che la fortuna sia democraticamente accessibile, bastano pochi euro. Le slot machine, un tempo confinate nei casinò, hanno colonizzato questi spazi quotidiani trasformandoli in avamposti della ludopatia legalizzata. Ambienti dunque, progettati per alimentare meccanismi neurobiologici e psicologici noti. Spazi che intercettano e monetizzano fragilità economiche ed emotive, spesso nelle periferie e nei quartieri popolari dove la diseguaglianza sociale è più acuta.

La tabaccheria è oggi un crocevia dove si incontrano diverse forme di dipendenza - nicotina, gioco, consumo compulsivo - con il patrocinio dello Stato che attraverso i monopoli ricava ingenti profitti da queste attività che alimentano dipendenze. Essa è lo specchio di una società che ha trasformato ogni fragilità umana in una nicchia commerciale da sfruttare.



"La filosofia nel Medioevo" di Étienne Gilson

Il libro di Étienne Gilson "La filosofia nel Medioevo" è uno strumento prezioso per chi vuole comprendere davvero un'epoca ridotta a stereotipi.

Non è un testo che si può leggere velocemente o distrattamente. Gilson presenta sistemi di pensiero complessi che si sono sviluppati nell'arco di secoli. Ogni capitolo merita una lettura attenta, possibilmente accompagnata da appunti sui collegamenti tra i diversi filosofi e le loro scuole.

L'autore non si limita alla pura esposizione dottrinale, ma situa ogni pensatore nel suo ambiente culturale e sociale. Questa dimensione storica è fondamentale per comprendere come le idee filosofiche medievali fossero tutt'altro che astratte elucubrazioni.

Il Medioevo non è stato un blocco monolitico. Gilson mostra come questioni filosofiche centrali - il rapporto tra fede e ragione, il problema degli universali, la natura della conoscenza - abbiano trovato soluzioni diverse e sofisticate attraverso i secoli.

Filosofi come Anselmo d'Aosta, Tommaso d'Aquino, Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham hanno elaborato sistemi filosofici di notevole complessità e rigore.

L'approccio di Gilson dimostra come il Medioevo sia stato un periodo di intenso lavoro intellettuale, caratterizzato da dibattiti filosofici raffinati e da una continua ricerca di sintesi tra diverse tradizioni di pensiero.

Trattasi di una lettura limpida senza i filtri deformanti dei luoghi comuni sul Medioevo.

 Nel leggerlo ci va pazienza e calma, in modo tale da comprendere linguaggi e categorie concettuali diversi dai nostri. Solo così è possibile scoprire che dietro l'etichetta semplicistica di "oscurantismo" si nasconde una civiltà intellettuale di grande profondità.

Venditori di pseudo-trascendenza

Credevamo che il fenomeno dei "maestri spirituali" si fosse un po' affievolito, invece notiamo che i "corsi" di questi soggetti continuano a raccogliere parecchi adepti e ne saltano fuori sempre di nuovi.

Quando ci capita di ascoltare qualche minuto di questi fenomeni rimaniamo sempre allibiti. Proclamano certezze assolute su questioni che da millenni sfuggono alla comprensione umana, trasformando il mistero ontologico in merce di consumo.
Ieri ne abbiamo visto uno che, con grande sicumera, spiegava perché e in che cosa le persone si reincarnano, senza dubbio alcuno e la gente lo ascoltava estasiata.

Il principio apofatico del non sapere? E che cos'è? Questi "guru" spiegano la reincarnazione con la sicurezza di un manuale dell'Ikea.
Nessun rispetto per la complessità del reale, nessuna onestà intellettuale che ogni autentica ricerca spirituale dovrebbe comportare.

Vendono corsi di "risveglio spirituale" con la logica del profitto che penetra negli spazi più intimi dell'esistenza umana, trasformando la ricerca di senso in prodotto di consumo per masse secolarizzate e smarrite.

Tali cialtroni, perché solo così si possono chiamare, operano attraverso meccanismi psicologici e sociali studiati a tavolino per guadagnare. Ecco che i chakra diventano leve da azionare, la reincarnazione una certezza, la crescita spirituale un algoritmo da seguire.

"Guru" che promettono di rendere accessibile ciò che è per natura elitario non in senso sociale, ma in senso esistenziale poiché richiede dedizione, sacrificio, e soprattutto la capacità di stare nell'incertezza.

Venditori di una pseudo-trascendenza prefabbricata, che non chiede di attraversare la notte oscura dell'anima, non richiede anni di disciplina e dubbio, non pretende il sacrificio dell'ego. Offrono invece una spiritualità pronta per l'uso, compatibile con lo stile di vita consumistico.

A tali soggetti non va opposto uno scetticismo cinico. Basterebbe recuperare quella che Pierre Hadot chiamava la filosofia come esercizio spirituale. Una pratica di vita che integra rigore intellettuale e trasformazione esistenziale.
Coltivare l'incertezza come spazio di crescita autentica, preservare il senso del mistero contro ogni riduzionismo. Continuare a farsi domande invece di comprare risposte.

La crescita spirituale non è mai un prodotto da acquistare, ma un cammino di dubbio, meraviglia e umiltà.



"Dal mito al materialismo" di Attilio Mordini

Nell’opera “Dal mito al materialismo”, opera visionaria di Attilio Mordini, pubblicata nel 1966, viene affrontata la perdita progressiva della dimensione spirituale nella civiltà occidentale.

Mordini ci conduce in un viaggio attraverso la trasformazione culturale che ha portato l'umanità dal mondo del mito - colmo di simboli e significati trascendenti - alla mentalità materialista contemporanea, dove tutto è ridotto a materia e quantità.

Vi sono analisi delle fiabe tradizionali e del loro significato simbolico profondo, letture sul declino della civiltà occidentale attraverso l'abbandono dei valori spirituali e riflessioni lucide sul "progressismo" come forza distruttiva dell'ordine tradizionale.

Per Mordini il mito non è favola, ma veicolo di verità eterne. La sua opera è un monito contro una civiltà che, perdendo il contatto con il sacro, perde se stessa. Un libro che ancora oggi, a distanza di quasi sessant'anni, interroga sulla direzione della nostra cultura e sul prezzo pagato per il "progresso" materiale. 

Maghi

Il pensiero non è mero spettatore della realtà, ma un suo architetto silenzioso. Osserviamo.

Gli ermetisti lo chiamavano "Mentis vis creativa" – la forza creatrice della mente. I mistici orientali parlavano dell'illusione che diventa concreta attraverso la focalizzazione cosciente. La fisica quantistica, con il principio dell'osservatore che influenza l'osservato, conferma intuizioni millenarie. 

Tutte queste visioni, separate da secoli e continenti, convergono verso un dato: la realtà è malleabile, e la mente ne è lo strumento primario di modellazione.

Non stiamo ovviamente parlando del banale "pensiero positivo" della spiritualità commerciale New Age, né di facili promesse di manifestazione istantanea. Parliamo di qualcosa di più profondo e, per questo, più pericoloso – qualcosa che possiamo osservare nella trama sottile della nostra realtà quotidiana.

Quando fissiamo con intensità un'idea, un evento, una persona, creiamo una forma-pensiero che inizia a vivere di vita propria, nutrendosi della nostra energia psichica finché non trova il modo di manifestarsi nel mondo tangibile. È un processo lento, impercettibile, che opera attraverso meccanismi psicologici profondi: l'attenzione selettiva, la conferma cognitiva, l'attivazione reticolare che ci fa notare ciò che risuona con i nostri pensieri dominanti.

Ciò che chiamiamo "coincidenze" sono solo i primi vagiti di realtà che abbiamo inconsapevolmente partorito nelle camere segrete del nostro pensiero. Sincronicità che Jung definiva come "coincidenze significative" – eventi che non hanno connessione causale evidente eppure portano un messaggio, una direzione, una conferma di schemi interiori.

Bisogna essere consapevoli di essere potenziali maghi, pericolosi apprendisti stregoni della propria esistenza. 

Ogni pensiero è un seme gettato nel fertile buio dell'ignoto. 


L'Arte oltre l'Artista

Specialmente negli ultimi anni di coercizioni e lasciapassare, ci sono stati momenti di rottura quando si è scoperto che artisti apprezzati stavano sostenendo idee ripugnanti o compiendo azioni contraddittorie rispetto a quanto espresso nella propria arte. Gli esempi che potremmo fare sono davvero tanti, ma questo è un discorso generale, non rivolto ad un periodo specifico. Si può ancora apprezzare quell'artista che ci aveva esaltato e commosso? La questione non è meramente estetica, ma tocca il cuore stesso di cosa significhi creare e fruire arte.

Quando un pittore dipinge, quando un musicista compone, quando un poeta scrive, stanno forse semplicemente trasferendo sulla tela o sulla carta le loro convinzioni personali? O accade qualcosa di più misterioso e complesso? Come se fossero "attraversati" da qualcos'altro? L'ispirazione opera secondo logiche diverse da quelle della razionalità quotidiana. È come se l'artista diventasse un medium attraverso cui qualcosa di più grande si manifesta - che sia l'inconscio collettivo, l'essenza umana universale, o semplicemente la capacità della mente di attingere a verità che trascendono le limitazioni della personalità cosciente. L'arte parla di qualcosa che va oltre le limitazioni personali, attingendo a quella dimensione dell'esperienza umana che è universale e atemporale. Il problema nasce quando confondiamo l'artista con la persona. L'artista non è l'individuo biografico con le sue opinioni e le sue debolezze, ma è quel canale attraverso cui si manifesta una visione che può essere molto più ampia e profonda delle sue convinzioni personali. Questo non significa ignorare tutto ciò che si compie sul piano personale, ma riconoscere che l'arte opera su un piano diverso e la sua capacità di rivelare verità profonde sull'esistenza umana può emergere anche dalle contraddizioni e dalle imperfezioni di chi la crea. Non passa giorno che non sentiamo frasi del tipo "quello lì ha sostenuto quella coercizione, quell'altro non si è schierato contro quella situazione geopolitica, l'altro ha idee pessime e mi sta antipatico" ecc.

Riusciamo semplicemente a cogliere quella scintilla di verità universale che l'opera d'arte può contenere, indipendentemente dalle limitazioni di chi l'ha creata? Perché se non riusciamo a fare questo, probabilmente è meglio non ascoltare, né guardare le opere di nessuno. Se ci aspettassimo che le idee di un artista coincidessero con le nostre, probabilmente gli artisti ‘degni’ si conterebbero sulle dita di una mano.

Pratici

Tutti sognano che i propri figli diventino ingegneri, medici, avvocati, professioni da "colletto bianco". Ma quando si rompe il rubinetto, quando salta la corrente, quando crolla un muro o quando l'auto non parte, chi si chiama disperatamente? L'idraulico. L'elettricista. Il muratore. Il meccanico. C'è poco rispetto per le mani che tengono in piedi tutto, per quei mestieri incredibilmente considerati "di serie B". Fino al momento del bisogno però, perché poi diventano improvvisamente le professioni più preziose del mondo. 

Il lavoro manuale non è solo una professione, è una forma di sapienza antica. È la capacità di trasformare la materia, di risolvere problemi concreti, di creare qualcosa di tangibile e duraturo. L'elettricista non si limita a "sistemare i fili", garantisce la sicurezza delle case, il muratore non "mette solo mattoni" ma costruisce le fondamenta dell'esistenza. L'idraulico non "ripara solo tubi" ma assicura igiene e benessere. Il meccanico non "aggiusta solo motori", ma mantiene in movimento la società. 

Si parla tanto di AI che sostituirà molti lavori umani, be' non saranno certo quelli manuali. Qui si continuano a spingere figli solo verso università e master, creando generazioni che non sanno piantare un chiodo. Una società di teorici che dipende completamente da una classe di pratici sempre più ristretta e straniera, perché i figli degli italiani han deciso di non sporcarsi più le mani. Va restituita dignità al lavoro manuale. Non è affatto un ripiego per chi "non ce l'ha fatta negli studi". È una scelta di vita, peraltro, se vogliamo metterla sul piano economico, a volte anche più sicura di molte professioni "intellettuali". 

C'è gente che guarda dall'alto in basso chi "lavora con le mani" finché non ne ha bisogno, poi quando serve si rende conto che la vita non è fatta solo di camici bianchi e cravatte ma anche di tute blu e mani sporche di lavoro onesto. Questa mentalità va affossata.


Cognitivamente compromessi

Bambini di tre anni in spiaggia, seduti immobili sulla sabbia che invece di essere immersi tra castelli, palette e rastrelli, stanno con gli occhi incollati a uno schermo. 

Famiglie intere al ristorante, immerse in un silenzio innaturale, con sto smartphone acceso, appoggiato ad un bicchiere per tenere incollati i piccoli. 

Scene imbarazzanti.

Genitori incapaci di sostenere il peso della presenza, hanno trovato nel digitale il perfetto sostituto della propria responsabilità. Lo smartphone è il nuovo ciuccio, la nuova tata, il nuovo tutto.

Non servono neppure studi (che ci sono) per capire che questo modus operandi porta a modifiche in aree importanti per le funzioni cognitive di ordine superiore. Una sorta di riscrittura fisica del cervello in formazione. Chi lavora nelle scuole può confermare quanto siano in aumento il calo del livello di attenzione, la minore comprensione e la minore capacità di memoria. 

Abbiamo generazioni cognitivamente compromesse, incapaci di sostenere la fatica della concentrazione, dell'attesa, del silenzio fecondo.

Ogni minuto che un bambino trascorre davanti a uno schermo è un minuto sottratto alla costruzione di sé. È un minuto in meno di gioco libero, di noia creativa, di scoperta del mondo attraverso i sensi. È un minuto rubato alla formazione delle sinapsi.

Questi genitori che preferiscono la pace artificiale del loro bambino, ipnotizzandolo davanti allo schermo piuttosto che affrontare la fatica educativa di proporre alternative, di essere presenti, dovrebbero abdicare al loro ruolo. 

Non riproducetevi, l'umanità ve ne sarà grata.

Guru e paranoie

Avrete notato l'ormai dilagante presenza di reel di sedicenti esperti di psicologia che promettono di insegnare a riconoscere i manipolatori, i narcisisti. 

Ecco a voi "I 10 segnali del narcisista nascosto", "Come smascherare un manipolatore in 5 mosse" ecc

Un vero e proprio mercato della paranoia relazionale che genera milioni di visualizzazioni e giri di soldi.

L'attenzione è sempre rivolta verso l'esterno: il partner, il collega, l'amico, sono tutti potenziali minacce da decifrare attraverso liste di comportamenti preconfezionati che i guru ti spiegano, ovviamente a pagamento. 

Tali guru del riconoscimento manipolatorio utilizzano proprio le tecniche che dicono di combattere. Sfruttano le insicurezze delle persone, alimentano ansie relazionali, creano dipendenza dai loro contenuti attraverso la paura dell'inganno. Promettono sicurezza emotiva vendendo diffidenza sistematica.

Il meccanismo è perfetto: più si consumano questi contenuti, più si diventa sospettosi, più si cercano conferme delle proprie paure, più si torna a cercare nuovi "segnali da riconoscere". Un circolo vizioso che trasforma la ricerca di protezione in una prigione di paranoia.

Si creano così eserciti di grotteschi "detective" armati di liste nere psicologiche, convinti di possedere strumenti infallibili per smascherare le intenzioni altrui. Tali soggetti diventano man mano essi stessi manipolativi, applicando schemi interpretativi rigidi alle relazioni, etichettando comportamenti normali come pericolosi e trasformando ogni interazione in un campo di battaglia psicologico.

Che disastro. 

State lontani da questi ambienti.

Disertare

Credere oggi di potersi opporre al sistema è il più raffinato meccanismo attraverso cui il sistema stesso si riproduce.

Ogni forma di ribellione è prevista, calcolata, metabolizzata ancora prima che prenda forma. Il sistema non è un nemico esterno che si può combattere. È un organismo vivente che include ogni sua componente, perfino - e soprattutto - coloro che si illudono di stargli contro. La rivolta non è una minaccia, ma un ingranaggio necessario al suo funzionamento.

Quando un giovane urla contro il potere, quando un intellettuale critica le strutture sociali, quando un movimento protesta nelle piazze, non stanno facendo altro che svolgere una funzione precisa. Sono valvole di sfogo, meccanismi di scarico che impediscono l'accumulo di tensione, che rendono il sistema più flessibile e insieme più forte. Il sistema produce al suo interno gli anticorpi contro sé stesso. Genera i propri critici, alimenta i propri oppositori, crea gli spazi dove la protesta può manifestarsi senza mai minacciare realmente l'equilibrio complessivo. È come un organismo che include e neutralizza contemporaneamente ogni forma di conflitto.

Chi crede di essere fuori dal sistema, ne è dentro. Chi pensa di combatterlo, ne è già parte integrante.

Ogni strategia di opposizione frontale è destinata al fallimento. Non perché il sistema sia invincibile, ma perché la sua forza sta proprio nella capacità di riassorbire ogni spinta critica, ogni tentativo di rottura.

Per combattere il sistema al punto in cui siamo bisogna comprenderne le logiche. Non opporsi, ma disertare. Non gridare, ma sottrarsi. Non distruggere, ma disegnare spazi di autonomia che sfuggano alla sua logica di cattura.

Di questi tempi la libertà è una strategia di sottrazione silenziosa.



Complessità e complicazione

Essere complessi ed essere complicati sono due cose molto diverse. La complessità è nella realtà stessa: i sentimenti umani sono complessi, le relazioni sono complesse, il mondo è complesso. Ma questo non significa che dobbiamo renderli incomprensibili quando ne parliamo. Siamo stanchi di pensatori che trasformano intuizioni in labirinti di parole, filosofi che impiegano cento pagine per dire quello che si sarebbe potuto esprimere in dieci righe. La loro non è profondità, è nebbia. Quando qualcuno non riesce a farsi capire, il problema non è che il concetto è troppo elevato, è lui stesso a non avere chiarezza interiore. Chi ha davvero compreso qualcosa, sa anche come trasmetterlo. 

Non è questione di semplificare per farsi capire. Ci sono argomenti che per loro natura resistono alla semplificazione - la meccanica quantistica, aspetti filosofici, dinamiche psicologiche profonde - e pretendere di ridurli all'osso significherebbe tradirli. Ma anche di fronte alla complessità più irriducibile, l'intelligenza sta nel trovare ponti, analogie, esempi che permettano alle persone di avvicinarsi al cuore del problema. Essere intelligenti significa essere in grado di attraversare la complessità e restituirla in forma cristallina, o almeno il più trasparente possibile. 

"Strani"

Per tutti quelli che si sono sempre sentiti gli unici "strani" in una stanza piena di gente "normale". 

C'è una categoria di persone, e siamo sicuri che tanti che seguono questo canale sono così, che si sente invisibile. Sono quelli che in una serata di gruppo restano spesso in silenzio mentre tutti parlano del nulla, che preferiscono una conversazione profonda con un amico piuttosto che cento chiacchiere vuote, che vengono etichettati come "strani" o "asociali" solo perché cercano qualcosa di più autentico. Preferire il silenzio al caos, la qualità alla quantità, la profondità alla superficie, non significa essere "strani" e non ci si deve forzare di diventare qualcun altro per far sentire gli altri più a loro agio. È deleterio per l'anima. Mai adattarsi alla maggioranza, il mondo ha bisogno di chi sa ascoltare davvero, di chi pensa prima di parlare, di chi offre presenza autentica invece di esibizioni vuote. Ha bisogno di chi costruisce ponti invece di accumulare conoscenze superficiali. Mai sentirsi "diversi" o fuori posto. Questa "diversità" è fondamentale, serve a ricordare a tutti che esistono altri modi di essere, più lenti, più veri, più profondi. Essere una testimonianza viva.




John Calhoun , Universo 25

I celebri esperimenti di John Calhoun sui topi e sui ratti mostrarono una società che, quando godeva di risorse illimitate, sprofondava lentamente nel caos e nell’alienazione a causa dell’eccessiva densità e della disgregazione dei legami sociali.

Molto interessante notare il legame tra sovraffollamento e l’isolamento emotivo. Nel suo “Universo 25”, i topi avevano acqua, cibo e comfort. Ma l'aumento di soggetti negli stessi spazi portò pian piano ad apatia, perdita delle relazioni tra individui, disinteresse per la procreazione e infine estinzione. Calhoun sosteneva che sia nei roditori sia negli esseri umani esiste una soglia massima di interazioni significative che si possono gestire; superarla genera effetti negativi sulla coesione collettiva. Leggendolo vengono in mente le città ultramoderne. Si può difatti fare un parallelo con il crescente isolamento nelle metropoli, la densità urbana e la perdita delle reti di vicinato che facilitano fenomeni simili a quella che lui chiamava "behavioral sink", ovvero apatia civica, crisi identitaria, ritiro sociale, comportamenti sessuali anomali, trascuratezza della prole e aumento di problemi di salute mentale.

In questo scenario vi era un declino delle nascite e perdita di scopo. Non è forse vero che in molte società avanzate il tasso di natalità crolla? Non solo per ragioni economiche, ma anche perché, come nei topi di Calhoun, la perdita di relazioni significative e di senso del futuro paralizza la volontà di procreare e costruire. Da un lato, grandi città e reti sociali virtuali colmano di “presenze”, dall'altro svuotano di senso le relazioni.

Calhoun avvertí che ambienti costruiti senza attenzione ai limiti della socialità, spingono una società nel baratro della “behavioral sink”. Egli sosteneva bisognasse ripensare le città, i ritmi quotidiani e le relazioni umane.

Chiaramente gli esseri umani hanno capacità cognitive e sociali molto più complesse dei topi, i fattori che influenzano natalità e benessere nelle nostre società sono molto più articolati di quelli osservati nei topi, ciononostante, gli esperimenti di Calhoun rimangono uno strumento interpretativo interessante per riflettere su come la densità abitativa e la struttura sociale possano influenzare i comportamenti collettivi anche nelle grandi concentrazioni urbane contemporanee.