"Maturità", consapevolezza o fuga?

Oggi fanno clamore dei giovani che, già promossi, rifiutano l'orale di maturità. Bisogna capire bene quali sono le argomentazioni che portano.

C'era una volta Julius Evola che iscritto alla facoltà di ingegneria dell'università di Roma, completò il corso di studi ma senza conseguire la laurea. Motivi? "Disprezzo del titolo". Evola aveva completato gli studi tecnici e matematici, ma decise di non sostenere la discussione della tesi finale per conseguire formalmente la laurea. Non voleva essere associato a titoli accademici come "dottore" e "ingegnere". Una scelta che rifletteva la sua ribellione giovanile contro i valori borghesi e convenzionali della società del tempo. Evola vedeva il titolo accademico come un simbolo di conformismo sociale che contrastava con la sua ricerca di una via spirituale e intellettuale alternativa. La mancanza della laurea, ovviamente, non impedì a Evola di diventare un prolifico scrittore e filosofo, pubblicando numerose opere di grande spessore.

Tornando ai nostri giorni, quello di questi ragazzi è un atto di resistenza contro un sistema in cui l'esame di maturità è una pantomima burocratica? Dove un ragazzo che ha letto centinaia di libri per passione rischia di prendere un voto peggiore di chi ha memorizzato i riassunti giusti da chatgpt? Si ribellano contro l'idea che la scuola debba essere principalmente un tirocinio per la sottomissione, un addestramento alla rassegnazione? Hanno capito che quella che viene spacciata per "preparazione alla vita" è in realtà una preparazione alla rinuncia, un allenamento sistematico a non fare domande scomode, a non mettere in discussione l'autorità, a non cercare strade alternative? Non vogliono essere complici di un meccanismo che trasforma l'apprendimento in una gara, la conoscenza in merce di scambio, la crescita intellettuale in accumulo di crediti formativi? Si schierano contro insegnanti ottusi che spesso scelgono di ricoprire quel ruolo unicamente per la pagnotta a fine mese spendendo solo poche ore al giorno sparando lezioncine confezionate nel programma statale, attingendo da un sommario di propaganda calato dall’alto?

Se queste sono le motivazioni, massimo supporto.

Se invece si tratta di fragilità emotive e generici discorsi di desiderio di “essere compresi”, scambiando la scuola per un percorso terapeutico, allora è solo una fuga dalle proprie responsabilità, un non saper affrontare a testa alta il sistema, anche se lo si contesta.


"Il Sole Nudo" di Isaac Asimov

Nel 1957, Isaac Asimov pubblicava "Il Sole Nudo", secondo capitolo del ciclo dei Robot. Un testo poco noto in cui viene immaginata una società, il pianeta Solaria, con gli abitanti terrorizzati dal contatto fisico e confinati nelle loro dimore. Questi solariani vivono in un mondo dove il contatto fisico è tabù, dove ogni interazione avviene attraverso la "visione" (ologrammi tridimensionali) e dove la "presenza" reale è ormai considerata volgare e pericolosa. 

Asimov non si limitava a immaginare l'isolamento fisico. Descriveva una società dove la tecnologia aveva creato una dipendenza totale: i solariani non riuscivano più a concepire l'esistenza senza i loro robot e le loro protezioni tecnologiche. 

La società di Solaria era nata dal desiderio di "sicurezza": eliminare malattie, conflitti, disagi emotivi. Ma questo paradiso sterile condusse all'atrofia dell'umanità stessa. I solariani erano diventati incapaci di emozioni genuine, di creatività, di crescita personale. 

Ma un in mondo dove i bambini giocano più con i tablet che all'aperto, dove le relazioni nascono e muoiono sui social media, dove per molti il mondo digitale è diventato più confortevole di quello reale, dove gli smartphone sono diventati estensioni del corpo e l'intelligenza artificiale prende decisioni al posto nostro, cosa ci fa pensare che lo scenario descritto da Asimov sia qualcosa che vada oltre la fantascienza? I solariani con i loro robot delegavano sempre più aspetti della loro vita alla tecnologia e atrofizzavano man mano le loro competenze, ma, ehi, cosa ci fa credere che stiamo lentamente scivolando verso Solaria? Suvvia è solo fantascienza di un visionario. 

Ne "Il Sole Nudo" Asimov suggeriva che in futuro il progresso tecnologico avrebbe trasformato i nostri strumenti di liberazione in catene invisibili. Che ingenuo questo Asimov.




"Sport" e ipocrisia

“Lo avrei fatto anche io, non siamo ipocriti!”

Quanto volte abbiamo sentito questa frase di fonte ad una notizia in cui un calciatore sceglie di accettare offerte in cui triplica il suo stipendio? Come se si stesse parlando di un lavoratore qualsiasi.

Signori, quando un calciatore guadagna già 4 milioni all'anno, il salto a 12 milioni rappresenta davvero un cambiamento di vita? O è piuttosto la manifestazione di un'avidità che ha perso ogni misura? Il paragone con l'operaio è fuorviante e quasi offensivo. L'operaio che passa da 1000 a 3000 euro cambia realmente la sua esistenza: può permettersi una casa migliore, le vacanze per i figli, la sicurezza economica per la famiglia. Ma quando si è già multimilionari, l'ulteriore accumulo di ricchezza diventa un gioco di numeri astratti, cifre su un conto corrente che non modificano sostanzialmente la qualità della vita.

Quello a cui stiamo assistendo è l'erosione sistematica di valori che una volta definivano lo sport: l'ambizione competitiva, la ricerca dell'eccellenza, il desiderio di misurarsi con i migliori. Il calcio saudita, rimane un campionato di second'ordine rispetto alle grandi leghe europee. Un giovane talento che sceglie Riyadh invece di Manchester, Milano o Madrid sta rinunciando alla possibilità di scrivere la storia del calcio, di vincere coppe, di giocare Mondiali da protagonista con una nazionale competitiva alimentata da un campionato di livello.

Vogliamo poi parlare dell'accettazione di contesti autoritari? Proprio da quell’Occidente che fa quotidianamente retorica sui “diritti”? Quando un calciatore sceglie l'Arabia Saudita, non sta solo prendendo una decisione economica - sta implicitamente avallando un sistema dove i diritti umani, specialmente quelli delle donne, sono sistematicamente violati. Le mogli e le figlie di questi calciatori si trovano a vivere in un paese dove non possono guidare liberamente, dove devono coprirsi, dove la loro libertà è limitata. È questo il prezzo che si è disposti a pagare per qualche milione in più?  I grandi valori degli occidentali.

Quando un ventenne sceglie il denaro facile dell'Arabia invece della sfida europea, che messaggio trasmette, che esempio dà alle nuove generazioni? Che l'ambizione sportiva è meno importante del conto in banca. Che i valori si possono vendere al miglior offerente.

Questa deriva del calcio è solo lo specchio di una società dove tutto ha un prezzo e niente ha un valore. Dove il successo si misura esclusivamente in termini monetari e dove la ricerca del profitto giustifica qualsiasi compromesso etico.

Il calcio ha sempre avuto una componente economica, ma quando questa diventa l'unica bussola, si perde l'essenza stessa della competizione sportiva. Possiamo ancora chiamarlo sport quando le decisioni sono dettate esclusivamente da logiche finanziarie?  

"Funzionari" della tecnica

Quando Martin Heidegger scriveva "La questione della tecnica" nel 1954, non immaginava smartphone, intelligenza artificiale o social media. Eppure, le sue riflessioni descrivono con precisione questi tempi.

Heidegger introdusse il concetto di Gestell (impianto, dispositivo) per descrivere l'essenza della tecnica moderna: non è uno strumento neutro, ma un modo di rivelare il mondo che trasforma tutto in "fondo disponibile" (Bestand).

Oggi, questa logica ci pervade. I social media trasformano le relazioni in metriche (like, follower, condivisioni), le piattaforme ottimizzano i desideri in algoritmi, e noi stessi diventiamo "risorse umane" da massimizzare.

La realtà non esiste più come tale, ma solo come informazione da estrarre e utilizzare.

Heidegger avvertì che l'uomo rischiava di diventare il "funzionario" della tecnica anziché il suo padrone. Non è forse quello che accade quando si controllano compulsivamente le notifiche o si scorrono i reel? O quando i ritmi biologici si adattano agli schermi, quando le decisioni vengono delegate agli algoritmi di raccomandazione?

La tecnica non ci sta servendo: siamo noi a servirla.

C’ è bisogno di prendere consapevolezza e riscoprire momenti di "presenza" non mediata da dispositivi, coltivare il pensiero critico oltre l'immediatezza digitale. Ma la domanda a questo punto è, si è in grado di pensare la tecnologia senza essere pensati da essa? 

Sanitari senza vocazione

C'è qualcosa di profondamente sbagliato quando chi detiene la vita altrui nelle proprie mani si comporta come se stesse svolgendo il più banale dei lavori.

Ci è capitato molte volte di assistere a scene incresciose: infermieri che giocano con lo smartphone mentre in sala d'attesa ci sono persone che soffrono, OSS scorbutici, ostetriche che chiacchierano di gossip da condominio mentre stanno assistendo al miracolo di una nascita, medici che sembrano annoiati dalla presenza del paziente che hanno di fronte.

Cari soggetti che lavorate nella sanità, i vostri non sono mestieri qualunque. Sono professioni che toccano i momenti più delicati dell'esistenza umana: la nascita, la malattia, la paura, il dolore, la speranza. Eppure spesso, chi le esercita sembra non conoscere il peso di quello che fa.

Non parliamo di competenze tecniche, ma della consapevolezza del proprio ruolo, del rispetto per chi si affida alle tue cure, della comprensione di essere tutto in un determinato momento per quella persona.

Una volta entrati nell’ingranaggio tanti professionisti perdono il senso del loro ruolo, far nascere un bambino o stare in linea ad avvitare bulloni diventa la stessa cosa. Quando un'ostetrica discute delle beghe condominiali con le colleghe mentre sta aiutando una donna a mettere al mondo suo figlio, sta profanando uno dei momenti più sacri dell'esperienza umana, sta trasformando un miracolo in routine, un momento unico in un episodio qualunque della sua giornata lavorativa. Lo stesso vale per l'infermiere che controlla i social mentre in corsia ci sono persone che hanno paura, che soffrono, che aspettano una parola di conforto. Tale comportamento tradisce non solo i pazienti ma anche la nobiltà stessa della professione che ha scelto.

La verità è che un tempo queste professioni erano considerate vocazioni, oggi sono solo un modo di guadagnarsi da vivere e avere uno stipendio sicuro, non una chiamata a servire gli altri nei momenti più vulnerabili della loro esistenza.

Chi lavora in questi ambiti dovrebbe sapere meglio di chiunque altro quanto contino i dettagli per chi sta male, quanto sia importante ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo.

Lavorare nella sanità ha un significato che va oltre il salario a fine mese. Chi sceglie di occuparsi della vita degli altri ha una grande responsabilità, perché quando si ha a che fare con la vita, la sofferenza e la speranza delle persone, non si può mai essere "solo" al lavoro.

Un tempo c'era una dimensione quasi spirituale nel prendersi cura di chi soffre, nell'accompagnare chi nasce o chi muore. Oggi tutto è ridotto a protocolli, turni, stipendi. La persona è diventata un "caso", il dolore una "sintomatologia", la nascita una "procedura". Dalle università e dalle scuole di formazione escono perlopiù burattini gelidi fatti con lo stampino. La tecnica ha preso ormai il sopravvento completo sull’umano.  


Dal nichilismo alla trascendenza: il black metal come fenomeno spirituale

"Dal nichilismo alla trascendenza: il black metal come fenomeno spirituale", Edizioni WI

Un saggio che va oltre la superficie per esplorare l'anima di un movimento rivoluzionario, erroneamente scambiato dai più per una mera espressione di ribellione adolescenziale e di immaturità protratta.

Non è l'ennesimo libro sul metal estremo. È uno studio profondo su cosa significa tale fenomeno culturale nel nostro tempo, sulla sua funzione di specchio implacabile delle contraddizioni contemporanee.

Perché dedicare un saggio a questo argomento? Perché riteniamo il black metal uno specchio fedele delle contraddizioni della nostra epoca: il desiderio di trascendenza in un mondo immanente, la tensione verso l'assoluto in un contesto relativistico.

Il movimento è una forma di diagnosi culturale: attraverso le sue molteplici e contraddittorie manifestazioni, rivela i sintomi di una civiltà che ha perso i propri riferimenti spirituali ma non ha ancora trovato alternative convincenti. È proprio questa instabilità, questa ricerca perpetua e mai conclusa, a renderlo degno di una analisi approfondita.

 

Il testo si rivolge non solo a chi ha vissuto la scena dall'interno, assistendo alle sue metamorfosi, ma anche a chi vuole comprendere un fenomeno culturale che ha attraversato gli ultimi trent'anni senza accontentarsi delle interpretazioni convenzionali. Dietro quel muro di suono e quell' estetica apparentemente impenetrabile si nasconde una riflessione esistenziale che merita di essere esplorata senza pregiudizi. "Dal nichilismo alla trascendenza" è un libro pensato per chi sa guardare oltre le apparenze e riconoscere che anche dalle espressioni più estreme dell'arte possono emergere domande universali e, talvolta, risposte inaspettate. Spesso è proprio dai margini che si comprende meglio il centro.

INDICE

Introduzione

1 - Le origini del black metal

• Un fenomeno culturale

• Cronologia storica del black metal

2 - Sociologia del fenomeno

• Il rifiuto del cristianesimo sociale

• Il ruolo dell' élitarismo

• L’anti-commercialismo

• L'impatto sulla cultura contemporanea

3 - Tematiche e simbolismo

• Le diverse direzioni prese dal movimento

• La nascita del dungeon synth

• Dal satanismo al paganesimo

• L'influenza di Tolkien e la sua reinterpretazione

• Il paradosso apparente: il “christian black metal”

• Il concetto di "purezza" e "verità" nel black metal

• L'estetica guerriera e la metafora bellica

4 - La dimensione spirituale

• La paradossale ricerca del sacro attraverso la dissacrazione

• Il black metal come movimento neospiritualista

• La Via Negativa

5 - Una riflessione critica

• Il black metal come pharmakon: medicina o veleno?

• L’eredità spirituale e letteraria

Conclusione

Appendice – Discografia

200 pagine

Il libro è disponibile fisicamente e online presso:

• Pagan Moon, Via Gaudenzio Ferrari 2, Torino. (Info@paganmoon.eu)

• Libreria Europa, Via Tunisi 3/A, Roma. (https://www.libridelbardo.com/politica-e-societa/2534-dal-nichilismo-alla-trascendenza.html)

• Passaggio al Bosco, Via Borromeo 48, San Casciano V.P. – Firenze. (https://www.passaggioalbosco.it/autori/weltanschauung-italia/)

• Su Amazon (https://www.amazon.it/Dal-nichilismo-alla-trascendenza-spirituale/dp/B0FF35VS8Z)

• Scrivendo a weltanschauungdb@gmail.com

L' "evoluzione" di Puffetta

Casualmente ci capita di guardare con dei bimbi una puntata dei Puffi, la versione recente del 2021. Subito ci salta all’occhio il personaggio di Puffetta.

Nei cartoni animati degli anni ‘60 il suo personaggio era stato creato per sedurre i puffi maschi, era definita dalla sua bellezza e femminilità ed era spesso oggetto di contesa tra i personaggi maschili.

Negli anni '80 e '90, Puffetta sviluppa una personalità più articolata, ma rimane comunque relegata in ruoli tradizionalmente femminili: la premurosa, la pacificatrice, quella che si occupa degli aspetti "domestici" del villaggio.

Arriviamo alla nuova serie, Puffetta versione 4.0, un personaggio totalmente ribaltato, diventa la leader del gruppo, insegna ogni cosa ai maschietti incapaci, è la guida in ogni situazione difficile, prende decisioni autonome e guida le missioni dei maschi tonti. Non ha più bisogno di essere "salvata" dagli altri come in passato, ora è esattamente il contrario. Non più fragile ma guerriera, è maestra d'arti marziali, insegna tecniche di combattimento ai Puffi maschi, è forte fisicamente, ha abilità fisiche superiori, è coraggiosa e affronta i pericoli in prima linea.

In generale la nuova puffetta eccelle in campi tradizionalmente "maschili".

Ehi ma i bambini di oggi hanno bisogno di crescere con modelli di genere più fluidi, avete capito?

Il ribaltamento dell’ennesimo personaggio dei cartoni non dimostra semplicemente un adattamento ai “cambiamenti della società” ma mostra ancora una volta come i media siano potenti strumenti di cambiamento sociale agendo proprio sui bambini.



Ipermedicalizzazione, voci profetiche del Novecento

 "La salute non è un bene che si possiede, ma un modo di essere nel mondo" (Gadamer)

Il noto filosofo del XX secolo Hans-Georg Gadamer, fece grandi riflessioni sul concetto di salute in un mondo dominato dalla medicina tecno-scientifica. Egli criticò l'approccio puramente tecnico della medicina moderna, che tende a ridurre l'essere umano a un insieme di meccanismi, a focalizzarsi sulla malattia piuttosto che sulla persona ignorando la dimensione esistenziale. Per Gadamer il medico deve saper "ascoltare" non solo i sintomi, ma la storia, il vissuto, l'esperienza del paziente. Ogni sintomo va "interpretato" nel contesto della vita del paziente e la guarigione passa attraverso la comprensione poiché il corpo "parla" un linguaggio che richiede ascolto e interpretazione.

Le riflessioni di Gadamer trovano eco nel pensiero di Ivan Illich, che negli stessi anni sviluppa una critica ancora più radicale al sistema medico industriale. Nel suo "Nemesi medica" (1976), Illich denuncia la medicina moderna che, a suo dire, aveva sottratto alle persone la capacità di prendersi cura di sé, trasformando la salute da competenza personale e comunitaria a monopolio professionale.

Nel Novecento anche Michel Foucault fa notare come la medicina moderna eserciti un controllo disciplinare sui corpi, mentre Thomas Szasz denuncia la "medicalizzazione" dei problemi esistenziali. Georges Canguilhem riflette sul concetto di "normalità" in medicina, sostenendo che ogni individuo ha la propria norma vitale e Viktor Frankl, psichiatra e filosofo, sottolinea come la ricerca di senso sia fondamentale per la guarigione.

Tutti questi autori vanno ripresi, leggerli in epoca di ipermedicalizzazione e tecnologia avanzata, ci ricorda che la vera medicina deve essere olistica poiché coinvolge corpo, mente e spirito. Deve essere relazionale e legata al senso e al significato della vita.  Le loro analisi ci ricordano che la salute rimane, fondamentalmente, una questione profondamente umana.

La stampella New Age

I più acuti avranno notato come, ormai da decenni, concetti spirituali orientali vengano selettivamente adottati e reinterpretati per servire logiche economiche dominanti.

Per esempio il concetto di impermanenza (anicca nel buddhismo) o di flusso continuo (nel taoismo) non sono più inerenti alla comprensione della natura transitoria dell'esistenza. Nella loro trasposizione occidentale, attraverso la New Age, vengono ridotti a una giustificazione dell'instabilità lavorativa: "abbraccia il cambiamento", "sii flessibile", "reinventati continuamente". La distorsione è evidente: mentre nelle tradizioni originali l'impermanenza porta alla liberazione dall'attaccamento e alla compassione universale, nella versione neoliberale diventa un imperativo di adattamento alle esigenze del mercato del lavoro.

Oppure, l'enfasi sulla responsabilità individuale ("sei tu che crei la tua realtà") devia l'attenzione dalle strutture sistemiche di potere. Se il lavoratore precario non riesce a "manifestare" stabilità economica, il problema è solo la sua "vibrazione" o la sua mentalità.

La meditazione? Viene proposta come soluzione allo stress lavorativo invece che come strumento per questionare le condizioni che generano quello stress.

Ovviamente coloro che promuovono questa filosofia del "cambiamento continuo" per i lavoratori sono gli stessi che costruiscono imperi dinastici, accumuli patrimoniali e reti di potere estremamente stabili. La precarietà è per gli altri, la stabilità per sé. Le grandi corporation tecnologiche, ad esempio, utilizzano retoriche buddhiste negli ambienti lavorativi mentre implementano strategie di monopolizzazione che contraddicono qualsiasi principio di non-attaccamento o equanimità. La spiritualità autentica dovrebbe includere la critica sociale e la solidarietà collettiva.

Le tradizioni orientali contenevano forti elementi di giustizia sociale: il concetto di karma include la responsabilità verso la comunità, il buddhismo primitivo era egualitario, il taoismo criticava l'artificiosità delle gerarchie sociali. In conclusione la liberazione individuale e quella collettiva sono interconnesse - proprio come insegnano le filosofie orientali nella loro forma integrale, non in quella addomesticata messa in circolo dai padroni.



Accettazione e rassegnazione

La passiva accettazione di fronte a ciò che accade è un atteggiamento ormai normalizzato e sovente accompagnato da frasi di circostanza che sembrano voler giustificare un certo stato di cose. L’impossibilità ad agire, l’avere “le mani legate” ed essere costretti ad adeguarsi alle situazioni se non, addirittura, ad obbedire, sono la via preferita dalla maggior parte delle persone. Un tempo, individui di tal fatta erano definiti ‘ignavi’. Non prendere una posizione, vieppiù in circostanze che richiedevano uno schieramento netto, veniva biasimato e presumibilmente la meta nell’aldilà sarebbe stato l’Antinferno.

Oggi capita raramente sentire qualcuno dissentire rispetto alla maggioranza, prevalgono silenzio e accettazione e quando questi ultimi si estendono su vasta scala producono l’effetto ‘spirale del silenzio’. La maggioranza diventa tiranna e riduce al silenzio chi possiede un’opinione diversa e minoritaria.

I pavidi, gli inetti e gli ignavi si adeguano sempre volentieri, senza porsi troppe domande e lasciando che il tempo languisca e la vita scorra. L’accettazione si trasforma in rassegnazione e si diventa arrendevoli e incapaci di agire. Il risultato, talvolta ancor più tragico, è che gli ignavi riescano ad ottenere ruoli di potere. L’incapacità decisionale associata all’inettitudine diventa rovinosa e trascina con sé, con una forza inaspettata, persino gli spiriti critici. Ribellarsi, controbattere, obiettare, comportano spessore argomentativo e audacia di cui dispongono in pochi, tuttavia per quei pochi dovrebbe essere vissuta come uno stile di vita. 


AM

Il caso di Paderno e la complicità con l'ingiustizia

Alla mezzanotte del diciottesimo compleanno un individuo si trasforma magicamente da minore bisognoso di tutela a adulto pienamente responsabile. La biologia e la neurologia ci dicono di no, ma il nostro sistema giuridico finge che accada proprio questo. Il limite dei 18 anni è, filosoficamente parlando, completamente arbitrario. Non esiste alcuna base scientifica che giustifichi questa soglia specifica. Il cervello umano, in particolare la corteccia prefrontale responsabile del controllo degli impulsi e del ragionamento complesso, continua a svilupparsi fino ai 25 anni circa. 

Il 18 è una necessità pratica, la società ha bisogno di linee nette, di confini chiari, non potendo valutare caso per caso la maturità di ogni individuo. Ma questa necessità pratica non cancella l'assurdità filosofica del sistema. 

Il paradosso penale di cui parlavamo ieri ne è un esempio. Un diciassettenne che pianifica e esegue un triplice omicidio e dimostra una capacità di premeditazione, controllo e consapevolezza delle conseguenze, viene trattato dalla legge come se fosse incapace di comprendere la gravità dei suoi atti. 

Il concetto di "maggiore età" a 18 anni è relativamente recente. Per secoli, la maturità sociale coincideva con quella fisica: si diventava adulti con la pubertà, spesso intorno ai 12-14 anni. Il prolungamento dell'adolescenza è un lusso delle società moderne e benestanti. La scelta dei 18 anni deriva da considerazioni storiche contingenti, come l'età del servizio militare o del diritto di voto. Non da una reale riflessione sulla natura umana. Ma quando un essere umano diventa moralmente responsabile al 100%? Aristotele parlava di akrasia (debolezza della volontà) come condizione umana universale. Anche gli adulti agiscono spesso contro la propria ragione. Se un adulto di 40 anni può commettere un crimine "in un momento di follia", perché un diciassettenne non può essere ritenuto pienamente responsabile di un atto lucido e premeditato? 

Il caso Paderno evidenzia l'assurdità: se quel ragazzo avesse compiuto il massacro tre mesi dopo, sarebbe stato ergastolo. La differenza non sta nella sua maturità, nella sua comprensione del male, nella sua pericolosità sociale. Sta solo nel calendario. È come dire che la gravità morale di un atto dipende dalla posizione della Terra nell'orbita solare al momento del crimine. 

L'idea di soglie nette va combattuta. Serve valutare caso per caso la maturità cognitiva ed emotiva del soggetto. Il limite dei 18 anni è una finzione giuridica, magari necessaria, ma filosoficamente insostenibile. Quando un minore dimostra attraverso i suoi atti una maturità criminale degna di un adulto, trattarlo come un bambino non è giustizia: è complicità con l'ingiustizia. 

Le previsioni di Ray Kurzweil, fantascienza?

Di recente stiamo leggendo un testo dell'inventore americano Ray Kurzweil, un personaggio spesso preso poco sul serio per le sue utopie sull'intelligenza artificiale. Eppure sembra proprio che costui, negli anni, abbia saputo leggere traiettorie tecnologiche con una precisione profetica. Partendo dalle previsioni degli anni '90 sulla diffusione di Internet, alla nascita dei social media, sino alle ultime sull'AI. A suo dire siamo vicinissimi alla fusione definitiva tra mente umana e artificiale.

Per Kurzweil non si tratterà solo di una crescita tecnologica ma di un vero e proprio salto evolutivo, è convinto che entro il 2045 aumenteremo le nostre capacità cognitive attraverso degli impianti neurali, fondendoci letteralmente con le macchine.

Può far sorridere detta così ma le previsioni di Kurzweil non sono affatto così fantascientifiche.

Kurzweil vede in questo scenario solo trionfi e conquiste, dipinge un futuro radioso di immortalità digitale e capacità cognitive illimitate.

Lasciamo stare per un attimo i giudizi su quanto appena descritto, la domanda è: "chi" dovrebbe controllare poi questo processo?

Ed è proprio qui che l'ottimismo di Kurzweil si scontra con una realtà molto più inquietante. Se le sue previsioni dovessero avverarsi, ci troveremo di fronte ad una concentrazione senza precedenti del potere nelle mani di pochissimi attori privati.

Già oggi assistiamo a come le grandi corporation tecnologiche - Google, Meta, Apple, Microsoft - controllino aspetti fondamentali della nostra esistenza digitale. Detengono i nostri dati, modellano le nostre interazioni sociali, influenzano le nostre decisioni di acquisto e persino le nostre opinioni politiche. Ma quello che Kurzweil prospetta è qualcosa di molto più radicale: il controllo diretto della nostra mente.

Chi possiederà le tecnologie di potenziamento cognitivo? Chi stabilirà a chi concedere l'accesso agli impianti neurali? Chi definirà i parametri di funzionamento di queste interfacce cervello-computer? La risposta è semplice e terrificante: le stesse multinazionali che oggi monopolizzano il settore tecnologico.

Immaginiamo un mondo dove l'intelligenza potenziata diventa la norma per accedere ai migliori lavori, alle migliori opportunità educative, persino alle relazioni sociali più significative. Chi non potrà permettersi questi "upgrade" neurali - e parliamo di tecnologie che inizialmente costeranno fortune - si troverà relegato in una sottoclasse cognitiva, escluso dai circuiti che contano.

Ma il problema va oltre la mera stratificazione sociale. Stiamo parlando di aziende private che avranno accesso diretto ai nostri pensieri, ai nostri ricordi, ai nostri processi decisionali più intimi. Quello che oggi raccolgono attraverso i nostri click e le nostre ricerche, domani potrebbero estrarlo direttamente dalle nostre sinapsi.

Le masse, quelle che Kurzweil vede beneficiarie di questo progresso, rischiano invece di trovarsi in una condizione di dipendenza totale da questi intermediari tecnologici. Non più semplici consumatori di servizi digitali, ma letteralmente cyborg la cui componente artificiale sarà proprietà di qualcun altro.

La vera domanda non è se le previsioni di Kurzweil si avvereranno, ma se saremo in grado di evitare che questa evoluzione tecnologica si trasformi nella più sofisticata forma di controllo sociale mai concepita. Perché quando il confine tra mente umana e artificiale si dissolverà, chi controllerà l'artificiale controllerà l'umano.


Trump il Messia

Negli ultimi anni si è consolidato un fenomeno particolare nell'ambiente di una certa controinformazione: la percezione di Donald Trump come figura messianica che combatte segretamente i "poteri forti" attraverso strategie complesse che solo i "risvegliati" riuscirebbero a decifrare.

Ogni azione di Trump viene reinterpretata come parte di una strategia superiore.

I sostenitori di questa teoria partono dalla conclusione (Trump è buono e combatte il male) e reinterpretano ogni evidenza per farla coincidere con questa premessa. Non importa cosa faccia concretamente Trump, quali effettivi poteri decisionali abbia - tutto viene riletto attraverso questa lente interpretativa. Qualsiasi cosa accade finisce inghiottito all'interno della visione dell'ottantenne con il cappellino rosso impegnato a "trollare" tutti e combattere il "Deep State". Sono convinti, nulla può scalfire la loro fede cieca nella narrativa di Trump che battaglia contro i poteri forti mentre finge di fare il contrario. Se domattina si gratta una palpebra loro ci vedono un messaggio di minaccia a qualche loggia massonica.

La verità è che chi aderisce a queste teorie si sente parte di una élite cognitiva che "vede oltre le apparenze". Questa sensazione di superiorità intellettuale rinforza l'adesione al sistema di credenze, creando un circolo vizioso.

E' un fenomeno che mostra chiaramente il bisogno di senso di quest’epoca, l'idea che esista un piano segreto ma benevolo offre rassicurazione e ordine. Il sentirsi parte di una battaglia cosmica tra bene e male dà significato e importanza alla propria esistenza.

Sono circuiti tossici in cui si distorce la percezione della realtà politica, si impediscono analisi critiche approfondite, si alimentano polarizzazioni e si sottraggono energie costruttive.

Il fenomeno Trump-salvatore rappresenta un caso di studio perfetto di come funzionano i bias cognitivi di tanta controinformazione. 

La disponibilità infinita di contenuti sul web può essere preziosa per chi è sinceramente in ricerca, ma deleteria per tutti coloro che finiscono per costruire narrazioni completamente autoreferenziali, dove ogni elemento che contraddice la teoria viene scartato o reinterpretato.

Inutile smontare queste narrative, ci si scontra con vere e proprie sette di fanatici. piuttosto c’è da comprendere i bisogni profondi che esse soddisfano e provare a proporre alternative di visione per dare senso alla complessità del mondo contemporaneo.

Adolescenti e passioni

C'è un fenomeno silenzioso che attraversa molte case: adolescenti che non hanno interessi di alcun genere. Non parliamo dei classici momenti di ribellione o crisi tipici dell'età. Parliamo di ragazzi che galleggiano in una sorta di limbo emotivo, senza che nulla - proprio nulla - riesca ad accendere in loro una scintilla di curiosità o passione. Ai genitori sembra non interessare, si limitano a osservare i voti scolastici, essi pensano che in fondo vada tutto bene dal momento che a scuola avanzano senza difficoltà. E invece no, in realtà questi ragazzi trascinano i doveri scolastici come automi perfettamente programmati. Studiano, prendono voti decenti, ma dietro quella facciata di normalità c'è il vuoto. Nessuna curiosità autentica, nessuna domanda che va oltre il compito assegnato, nessuna passione che li tenga svegli la notte. 

Scenario tipico: 

- Cosa ti piace fare? "Non lo so." 

- Cosa ti emoziona? Silenzio. 

Non è pigrizia. È come se si fossero disconnessi dal proprio mondo interiore, dalla capacità di sentire bruciare qualcosa dentro. Genitori preoccupatevi. L'adolescenza dovrebbe essere l'età delle scoperte, delle ossessioni, delle passioni travolgenti. Un tredicenne dovrebbe essere completamente assorbito da qualche sport, dalla musica, dall'arte, dalla scrittura, dalla lettura o da qualsiasi altra cosa. Queste passioni sono il carburante dello sviluppo identitario. Un adolescente senza interessi è un adolescente che non sta costruendo se stesso.

Prendere bei voti ma non fare mai domande che vanno oltre il programma scolastico, non avere hobby, passioni o attività, rispondere sempre "non lo so" quando gli si chiede cosa gli piace, non entusiasmarsi per nulla, nemmeno per le cose tipiche della propria età, vivere in modalità “pilota automatico”, NON È NORMALE. E non basta dire "trova un hobby". Questi ragazzi vanno accompagnati nella riscoperta del proprio mondo interiore, per riaccendere curiosità e fuochi.

"L'andare bene a scuola" purtroppo inganna ancora troppe persone mentre il nulla esistenziale e l'apatia avanzano creando cinici automi che vivono d’inerzia.




Catturare la vita

"Non è da tutti catturare la vita, non disprezzare chi non ce la fa"- così cantava Branduardi in suo famoso brano.

Alcuni nascono con una naturale capacità di afferrare l'essenza delle cose, di trovare senso nel caos quotidiano, di trasformare il dolore in saggezza. Altri invece si dibattono nell'incomprensione, intrappolati in meccanismi mentali che rendono ogni giorno una fatica. La differenza non sta solo nella volontà, ma anche in qualcosa di più profondo e misterioso.

Quando si giudica chi "non ce la fa", si dimentica di stare osservando dall'esterno una battaglia interiore di cui non si conoscono le regole. Il fallimento apparente può nascondere lotte titaniche contro demoni invisibili. La mediocrità evidente può essere il risultato di una resa dopo battaglie che non si è mai dovuto combattere.

Il disprezzo per chi non riesce a "catturare la vita" rivela l’incapacità di riconoscere la complessità dell'esistenza altrui. È l'arroganza di chi, avendo ricevuto gli strumenti giusti al momento giusto, si convince di esserne l'unico artefice.

Ciascuno nasce in un territorio psichico diverso. Alcuni si ritrovano in pianure fertili dove ogni seme germoglia facilmente. Altri in terre aride dove ogni piccola crescita richiede sforzi enormi. Chi nasce nella pianura non ha meriti particolari, così come chi nasce nel deserto non ha colpe.

La "cattura della vita" non è una gara a chi arriva primo, ma un processo unico e irripetibile per ciascuno. Alcuni ci arrivano presto e con apparente facilità. Altri impiegano decenni. Altri ancora non ci arrivano mai.

Non disprezzare chi non ce la fa significa riconoscere che l'esistenza è un enigma che non tutti riescono a decifrare. Significa accettare che il fallimento esistenziale non è sempre una questione di carattere, ma spesso di circostanze, di strumenti, di misteriose alchimie interiori, di destini incomprensibili alle logiche umane.

L’atto di "cattura della vita" consiste nello smettere di misurare il valore umano sulla capacità di riuscita, e iniziare a riconoscere la dignità intrinseca di ogni tentativo, anche di quelli apparentemente falliti.

Chi ha davvero "catturato la vita" è colui che comprende che la vita non si cattura, ma si accoglie. E nell'accoglienza trova spazio anche per chi non riesce ad accogliere, per chi si perde, per chi si arrende. Perché anche il loro smarrimento fa parte del grande disegno dell'esistenza.



Hipsterismo

L'hipster contemporaneo è quel soggetto urbano, generalmente di classe media, che costruisce la propria identità attraverso il consumo di prodotti e culture "alternative". Il suo habitus si basa sulla ricerca ossessiva dell'autenticità e dell'unicità: ascolta band "che non conosce nessuno", pratica hobby di nicchia, ostenta competenze culturali raffinate. Mentre si presenta come critico del consumismo di massa e del mainstream, l'hipster ha in realtà dato vita a un mercato di nicchia estremamente redditizio. Dietro le apparenze difatti si nasconde la più raffinata delle operazioni di marketing: la commercializzazione della ribellione. Mentre predicano il rifiuto del mainstream, gli hipster hanno semplicemente creato un nuovo mercato di nicchia, altrettanto vorace e manipolatorio. Quel caffè "artigianale" da 5 euro? Quella t-shirt vintage da 80 euro? Quegli occhiali "unici" prodotti in serie da brand che si spacciano per indipendenti? Non è altro che capitalismo mascherato da controcultura. L'industria ha capito perfettamente il gioco: basta appiccicare l'etichetta "artigianale", "indie" o "vintage" su qualsiasi prodotto per moltiplicarne il prezzo. E gli hipster, nella loro ricerca disperata di distinguersi, cadono nella trappola ogni volta. Il risultato? Persone che credono di essere ribelli mentre alimentano un sistema economico peggiore di quello che pretendono di combattere. Almeno McDonald's non fa finta di essere filosofia. L'hipsterismo non è ribellione, è privilegio economico travestito da sensibilità culturale. È la classe media che si inventa un'identità di nicchia per sentirsi speciale, mentre perpetua le stesse dinamiche di consumo che finge di rifiutare.

Le predizioni hollywoodiane

Quante volte Hollywood si è rivelato precursore della realtà? I film dell'industria americana tante volte sembrano possedere una sorta di "sfera di cristallo", anticipando eventi, tecnologie e fenomeni che si materializzano anni o decenni dopo. Potemmo fare tantissimi esempi in merito, vediamone solo qualcuno. 

"2001: Odissea nello Spazio" di Kubrick del 1968 anticipa videoconferenze, tablet e intelligenza artificiale.

"Blade Runner" di Ridley Scott del 1982 anticipa gli schermi pubblicitari giganti, le videochiamate, il riconoscimento vocale. 

"Ritorno al futuro II" di Zemeckis del 1989 con tv a schermo piatto, scansioni e impronte digitali. 

"Demolition Man" del 1993, di cui avevamo già parlato in passato, mostrò tecnologie che si sono poi realizzate, come le auto elettriche a guida autonoma, i tablet e i telefoni portatili che accedono a Internet, la valuta digitale, il controllo del linguaggio, l'attenzione breve tipica dei modi di comunicazione social. 

"The Truman Show" del 1998 anticipó reality show pervasivi, influencer che vivono in diretta e sorveglianza costante. 

"Minority Report" del 2002 mostró interfacce gestuali, pubblicità personalizzata e la sorveglianza predittiva. 

La serie tv "Black Mirror" in ogni episodio sembra anticipare distopie tecnologiche. 

Oppure se parliamo di eventi, pensiamo a "The China Syndrome" del 1979, un film che esce 12 giorni prima del disastro nucleare di Three Mile Island. 

Che dire poi di Super Mario Bros del 1993 e la scena sulle torri gemelle che si disintegrano? 

E "Contagion" del 2011 che descrisse una pandemia globale molto simile al covid19 con tanto di mascherine, lockdown e corsa al vaccino? Sono giusto alcuni esempi, in realtà se si osservano tante produzioni si possono notare molti "indizi" sorprendentemente profetici. 

Trattasi solo di intuizioni distopiche o qualcuno usa l'intrattenimento per "preparare" psicologicamente le masse a cambiamenti pianificati?

Vivere in città

Si legge che nel 2030 circa il 70% delle persone vivrà in città. Per molti aspetti sembra impossibile vivere lontano dai centri urbani perché ciò significa dover far fronte a diverse scomodità come la carenza di servizi, di alcuni beni di consumo e di trasporti pubblici.
Una forte spinta all’urbanizzazione si verificò con la seconda Rivoluzione industriale, quando masse di contadini si trasferirono nelle zone periferiche delle città per soddisfare la richiesta di forza lavoro a basso costo nelle fabbriche. Ancora oggi le città rappresentano una forte attrattiva, meta di rilevanti flussi migratori, e questa tendenza non riguarda solo le metropoli del sud del mondo; le megalopoli come Tokyo, Shanghai, Giacarta e Nuova Delhi sono le più popolose, con una popolazione che supera i 30 milioni di abitanti. Veri e propri formicai in cui si sopravvive accatastati gli uni sugli altri, respirando aria inquinata, bevendo acqua in bottiglia e rintronandosi di rumori di folla e di traffico. La gestione istituzionale delle città è spesso fallimentare: la miriade di rifiuti, la delinquenza, l’accattonaggio, gli ingorghi stradali, il moltiplicarsi di richieste di assistenza sociale, l’impatto energetico, ecc.
Nonostante gran parte della popolazione mondiale si trasferirà nelle città nel prossimo futuro, è indubbio che gli ambienti urbani siano invivibili: vivere in condizioni di sovraffollamento, come è già stato osservato negli animali da allevamento intensivo, causa sofferenza psichica e aggressività.

Il famoso etologo Konrad Lorenz, nel 1973, scriveva: “l’accalcarsi di molti individui in uno spazio ristretto” dà luogo a “manifestazioni di disumanità, ma scatena anche direttamente il comportamento aggressivo”, inoltre “l’amore per il prossimo, per un prossimo troppo numeroso e troppo vicino, si diluisce sino a svanire senza lasciare più traccia.”
Peraltro vivere in città significa esporsi maggiormente al controllo sociale, al confinamento in caso di pretestuose nuove emergenze (ecologiche, sanitarie, terroristiche, energetiche) o al razionamento di risorse.
I tentativi di depopolamento, che si può immaginare si faranno progressivamente più violenti e più mirati, avranno come punto di partenza le città, un facile obiettivo data l’alta concentrazione di persone. 


AM

La retorica dell'insegnante "intoccabile"

Abbiamo appena letto l’ennesimo articolo in cui si leggono affermazioni di questo tenore: “Prima un insegnante era visto come una figura di riferimento in continuità con la famiglia. Ora il suo ruolo è messo in discussione, così come quello della scuola."

Basta con la retorica dell'insegnante come figura intoccabile. Oggi, per come è strutturata la scuola, per come vengono scelti gli insegnanti (spesso ignoranti con lauree a crocette), il genitore DEVE essere vigile. Sentiamo spesso dire che "una volta l'insegnante era rispettato, ora no". Ma rispetto per cosa? Per il ruolo o per la competenza? Perché se parliamo di competenza, allora bisogna prendere atto che sempre meno insegnanti sono all'altezza del compito educativo dei nostri figli.

La cattedra non è un pulpito. La laurea non è un salvacondotto per l'incompetenza. E il nostro silenzio da genitori non è rispetto, è negligenza. Quando affidiamo i nostri figli alla scuola, non stiamo consegnando un pacco. Stiamo condividendo la responsabilità più grande che abbiamo: l'educazione delle nuove generazioni. Questo significa conoscere chi insegna ai nostri figli, verificare la qualità e i programmi dell'insegnamento, intervenire quando necessario. Non è "mancanza di rispetto" chiedere spiegazioni a un insegnante. Non è "ingerenza" pretendere qualità e chiarezza. Non è "essere genitori invasivi" volere il meglio per i propri figli. È semplicemente essere genitori responsabili.

Ovviamente vigilanza non significa difesa aprioristica. Il genitore vigile non è quello che va a scuola a fare scenate per ogni voto basso o richiamo. Non è quello che trasforma ogni segnalazione negativa in un attacco personale al proprio figlio. Il genitore responsabile sa distinguere tra un insegnante incompetente che va contestato e uno competente che sta facendo il proprio lavoro educativo. Perché sì, è vero, esiste anche l'altra faccia della medaglia: genitori che scambiano la protezione del figlio con la negazione della realtà. Che preferiscono accusare l'insegnante piuttosto che affrontare le difficoltà o i comportamenti problematici dei propri figli. Ma questo è un altro discorso.

Bisogna intanto rendersi conto che oggi l'insegnamento raramente è in mano a persone competenti e rigettare la stantia retorica dell’insegnante intoccabile solo per il suo status.

I nostri figli devono avere insegnanti validi. E se questi insegnanti non ci sono, è nostro dovere accorgercene ed agire. 



L'ideologia del successo

"Tutto è possibile se ci credi davvero". Questa affermazione, apparentemente liberatoria, nasconde in realtà una trappola culturale di proporzioni enormi.

"Trasformati, dedicati completamente e conquista i tuoi obiettivi": è un imperativo che riecheggia ossessivamente sui canali digitali.

Dietro la facciata di competenza autorevole di un consulente, la mitologia della realizzazione si manifesta frequentemente come un'accettazione acritica dell'architettura sociale in cui siamo immersi, portata ai suoi estremi più radicali. L'adorazione per il paradigma liberista si trasforma in un'estetica esistenziale, cessando di essere un semplice orientamento politico per diventare un modo di essere nel mondo: l'individualista perpetuamente motivato.

Brillante, determinato e pervaso da un ottimismo incrollabile: questo è il prototipo umano che viene promosso come via verso la realizzazione. Il guru si presenta come colui che, avendo raggiunto il successo, possiede le chiavi per svelare agli altri come capitalizzare le illimitate possibilità che il mondo offre, apparentemente nascoste dietro veli di inerzia e mancanza di determinazione.

Il segreto della realizzazione, tanto nella sfera professionale quanto in quella privata, viene ridotto a una ipotetica metamorfosi dell'individuo che esclude completamente qualsiasi possibilità di trasformazione del contesto sociale.

La progressione professionale, concepita come una competizione isolata che sacrifica ogni altro aspetto dell'esistenza, diventa l'unico teatro in cui dimostrare il proprio valore umano.

La visione del mondo promossa dai guru digitali non è altro che un sostegno ideologico del modello socioeconomico in cui siamo inseriti. L'estetica del trionfo non si configura come una filosofia di vita personale, ma piuttosto come un rinforzo politico di un sistema che opprime sistematicamente i cosiddetti "falliti" della società.

Chi fallisce di fronte a tale “ideologia del successo” sviluppa stati d'animo come l’ansia, il narcisismo patologico e la depressione, fallimenti personali di cui provare vergogna.

Questa narrazione tossica del successo a ogni costo non rappresenta una liberazione individuale, ma una forma sofisticata di controllo sociale. Dietro la retorica motivazionale si nasconde un meccanismo che trasforma le disuguaglianze strutturali in fallimenti personali, scaricando sull'individuo la responsabilità di problemi sistemici.


L'Uomo con Nessun Nome

Clint Eastwood è un artista che ha attraversato oltre sei decenni di carriera mantenendo sempre una visione personale e indipendente, sfidando costantemente le convenzioni di Hollywood e creando un linguaggio cinematografico inconfondibile.

Eastwood inizia la sua carriera come attore negli anni '50, ma è con la trilogia del Dollaro di Sergio Leone che diventa un'icona mondiale. L'Uomo con Nessun Nome non è solo un personaggio, ma l'archetipo di un nuovo tipo di eroe: silenzioso, enigmatico, moralmente ambiguo.

La sua filosofia è chiara fin dall'inizio: mantenere il controllo creativo totale sui propri progetti.  Nel 1967 difatti Eastwood fonda la sua casa di produzione, la Malpaso Productions, una mossa visionaria che gli garantisce libertà creativa assoluta. Questa decisione gli permette di scegliere personalmente i progetti da sviluppare, mantenere il controllo artistico su ogni aspetto della produzione, lavorare con budget contenuti ma efficaci, girare rapidamente senza le pressioni degli studios.

L'universo narrativo di Eastwood è caratterizzato da temi profondi e universali come la redenzione, la violenza e le sue conseguenze, i contraddittori miti americani, l’invecchiamento e la morte.

Il suo linguaggio cinematografico è caratterizzato da minimalismo espressivo, nessuno spazio per virtuosismi gratuiti. La macchina da presa serve la storia, non il contrario. I suoi film respirano con il tempo della vita reale, senza forzature narrative.

Eastwood ha dimostrato che è possibile fare cinema d'autore dentro il sistema hollywoodiano. In un'industria dominata da logiche propagandistiche e commerciali, rappresenta un esempio di come sia possibile mantenere la propria visione artistica senza compromessi. I suoi film non seguono le mode del momento ma attingono a temi universali e senza tempo.

Da sottolineare la sua resistenza alle convenzioni del linguaggio politicamente corretto. Clint ha sempre mantenuto un approccio critico verso i nuovi codici comunicativi imposti dall'industria dell'intrattenimento, i suoi film non seguono i diktat della sensibilità contemporanea sui linguaggi inclusivi o sulle rappresentazioni "corrette" dei personaggi.  

Non aderire ai modelli propagandistici hollywoodiani, per una icona di quel sistema, è una medaglia al valore.

Leggenda vivente.



Surrogati

La scuola, componente strutturale di una società, dovrebbe svolgere un ruolo fondamentale di inculturazione, acculturazione e, direbbe Talcott Parsons, di integrazione e mantenimento dei modelli latenti.  Eppure, questa labile istituzione, invece di ergersi a baluardo dei repentini e spesso irragionevoli mutamenti sociali spesso indotti da poteri sovrastrutturali che hanno il solo intento di modellare la società secondo i propri fini, si piega passivamente o peggio, di buon grado, alle imposizioni provenienti dall’alto. Al ritmo di incalzanti corsi di formazione finanziati dall’esiziale Pnrr, la scuola apre i boccaporti alla digitalizzazione e così si riempiono le stive di corsi destinati ai docenti per imparare a usare gli algoritmi di IA nella didattica: lezioni, verifiche e slide vengono realizzate usando ChatGPT di OpenAI, Gemini di Google o Llama di Meta.
Caricata di zavorra, la scuola si barcamena nelle torbide e insidiose acque delle aziende del digitale che si infiltrano nelle crepe del sistema scolastico. L’assoggettamento dei docenti è facile: per lo più si tratta di una mandria che a malapena sa usare gli indici per digitare goffamente sulla tastiera, guarda con occhi bovini lo schermo e propina agli adolescenti lezioncine piatte e banali intervallate da film e lavori di gruppo.
Negli anni la scuola ha accettato di tutto: dal progetto CLIL (lezioni su argomenti curricolari in lingua straniera: l’abominio di studiare Platone in inglese), all’educazione alla legalità (carabinieri in divisa che spiegano, portando ad esempio i propri figli, quanto sia illecito drogarsi o bullizzare i compagni di classe), o ancora le lezioncine sulla pericolosità delle fake news (meglio affidarsi ai ‘professionisti dell’informazione’ come Open).
Come una nave stracarica di cianfrusaglie, la scuola affonda trascinando con sé quei pochi docenti e alunni che vorrebbero una scuola diversa, tradizionale e autentica, capace di contrapporsi orgogliosamente ad un mondo esterno marcescente, che si conservi integra, rimanendo se stessa, un fortino dalle mura spesse e impenetrabili, dove la cultura, i libri, le lezioni frontali, socratiche e peripatetiche risuonino fiere nelle sue stanze.
Ma forse il suo destino, frutto di un accumulo di docenti che non supererebbe nemmeno il test di Turing, è proprio quello di trasformarsi in una macchina al servizio di surrogati dell’insegnante: chat bot che assistano emotivamente gli alunni, che si rivolgano a loro con una didattica personalizzata, che li supportino nel loro percorso di obbedienti subalterni. 



AM

Il pericolo dell'AI

Il pericolo dell'era digitale non risiede nella possibilità che le macchine ci superino in capacità computazionale o efficienza operativa. La minaccia più insidiosa è che l’uomo scelga di subordinare la propria umanità agli algoritmi e a coloro che li controllano. È una forma di sottomissione volontaria.

Esiste nell'essere umano un nucleo irriducibile che nessuna tecnologia, per quanto sofisticata, potrà mai replicare o sostituire. Questo nucleo è costituito dalla coscienza di sé, quella capacità di riconoscersi come individuo unico e pensante. È la facoltà del libero arbitrio, che ci permette di compiere scelte e di assumere la responsabilità delle nostre azioni. È il potere del dubbio, quella capacità critica che ci spinge a interrogarci, a mettere in discussione le certezze e a cercare significati più profondi.

Sono i sentimenti, con la loro ricchezza e complessità, a colorare l’esistenza di sfumature che nessun algoritmo può decifrare completamente. L'amore, la paura, la gioia, la malinconia non sono semplici reazioni chimiche da catalogare, ma esperienze che ci definiscono come esseri viventi e senzienti.

O si riconosce e valorizza la propria essenza unica, quella dimensione che ci distingue dal mondo delle macchine, altrimenti smarrendo tale consapevolezza ci si ridurrà ad un ingranaggio meccanico in un sistema sempre più automatizzato.

Non ci troviamo di fronte ad una competizione impossibile con le macchine, ma ad una presa di consapevolezza della natura umana. Solo in tal maniera si potrà cavalcare l'era dell'intelligenza artificiale senza perdere l’anima perché la tecnologia deve rimanere uno strumento al servizio dell'uomo, non il contrario.