Democrazia liberale e “Divide et impera”.

Da 70 anni fascismo e comunismo in Italia non esistono più. Eppure,come possiamo osservare quotidianamente, invocarne lo spettro a targhe alterne e quando conviene è una prassi consolidata.
Trattasi in realtà di tentativi di distrazione di massa, ovvero ti agito davanti il noto spauracchio così da far leva sulle tue paure e portarti dalla mia parte.

E’ evidente a tutti come l’unica funzione di queste due vecchie ideologie sia oggi solamente il “divide et impera”.
Difatti, mentre la gente insegue ancora ignara tali diatribe creando movimenti antifascisti o anticomunisti, il sistema continua ad avanzare, a perfezionarsi e ad avere nuove strutture di controllo.
Oggi vige la cosiddetta democrazia liberale ed i suoi valori sono profondamente radicati nell'uomo post-moderno, il quale viene formato sin dall'infanzia senza che lui se ne accorga.
Non è questo il luogo per discutere del liberalismo e della sua nascita, anche perché, oltre a richiedere tanto tempo, su periodi relativamente lunghi bisognerebbe individuare numerose concause e fattori metastorici.
Quel che è certo è che esso monopolizza la politica, sembra essere l’unico sistema accettabile nonostante sia evidente a tutti che in esso di democratico ci sia solamente la facciata poiché fondamentalmente un pool di tecnocrati non eletti da nessuno decide l’economia dei paesi.
Attraverso il mercato finanziario ed i suoi attacchi speculativi si creano paure e si ottengono profitti a scapito dei popoli. Vere e proprie guerre senza armi dove ogni nazione alla lunga si ritrova con un parlamento esautorato da qualsiasi potere decisionale, vincolato agli interessi del mercato.
Ovviamente, come ogni potere oligarchico/dittatoriale, anche la democrazia liberale ha concepito una macchina per il controllo delle opinioni e l'occultamento della verità attraverso scuole e mass media. La controinformazione entropica del web non sembra essere un problema in tal senso.

Eppure le masse sono convinte che attraverso una crocetta sulla scheda elettorale possono essere protagoniste della vita del paese.
Si ritrovano a vivere in un mondo basato sulla totale schizofrenia del dio denaro ma non individuano in lui il vero nemico da "combattere", perché? Perché il sistema si prodiga di ricordargli ogni giorno che il reale problema sono ideologie defunte e scomparse.
In sintesi, in un mondo dove i tecnocrati della finanza e del mercato spadroneggiano, dove domina solamente il profitto, col dito si indicano le figure defunte di Mussolini, di Stalin e di Hitler.

Ottima tattica, non c’è che dire.




La nevrosi post-moderna – K.Lorenz

La nevrosi può essere definita un processo che assegna a determinate idee un valore sproporzionato. A un certo punto la fissazione su di esse arriva a dominare l'intera personalità di un individuo, mettendo alla fine a tacere in lui ogni altra forma di motivazione.    

Purtroppo tutte le nevrosi che attualmente prosperano all'interno della civiltà occidentale e che possono essere ricondotte alla definizione data sopra hanno questo in comune: esse soffocano le qualità e le funzioni che noi consideriamo costitutive dell'autentico «essere uomini». Un tipico esempio di nevrosi dalla quale la personalità umana viene a poco a poco «divorata», fino al punto che l'uomo perde qualsiasi interesse per ogni altra cosa, è l'avidità di denaro. Una regola di comportamento in base alla quale desideriamo possedere degli oggetti è naturalmente presente anche nella persona normale (se essa sia radicata nel nostro programma genetico, è controverso). Nella nostra cultura fra lo spirito competitivo e il desiderio di possesso si verifica senza dubbio un rafforzamento reciproco. Inoltre la quantità dei beni accumulati sembra rafforzare a sua volta la spinta ad accumularne ancora. La natura patologica di tale processo si manifesta nel potere che esso esercita sul malato, il quale, dominato dalla sua nevrosi, lavora più duramente dello schiavo del più crudele dei padroni.

L'impulso a superare i nostri simili conduce anch'esso a una forma di fissazione, e molti uomini civili subiscono tale coazione. Il desiderio di «far carriera» a qualunque costo è caratteristico della nostra società ossessionata dal successo.

La concorrenza produce i suoi effetti peggiori sul piano economico- finanziario. «Time is money» (il tempo è denaro) è una constatazione vera, ma non per questo meno sconsolante.

Una terza motivazione coopera con l'impulso patologico ad accumulare ricchezza e con il desiderio di superare i propri simili: il rispetto innato per la gerarchia, del quale si è parlato nel paragrafo sullo spirito competitivo. Questi tre impulsi messi insieme danno vita a un circolo vizioso nel quale l'umanità si dibatte in modo sempre più vorticoso. Trovare una via d'uscita da questo cerchio perverso è tutt'altro che facile.

Fonte: tratto da "Il declino dell'uomo" di K.Lorenz (ed CDE S.P.A)


Il progresso secondo E.Jünger

Che idea ha del progresso?

È per me un antropomorfismo con il quale l'uomo moderno ha tentato di leggere la storia. Un surrogato dell'idea di «spirito del mondo ». Bisogna prenderne le distanze e osservare piuttosto l'universo e la sua storia dal punto di vista del principio della conservazione dell'energia. La potenza del cosmo rimane sempre la stessa, non ci sono progresso o regresso né accelerazione o decelerazione che possano modificarla. Ciò che cambia sono solo le figure, le forme che la storia, anzi, la terra produce incessantemente dal suo profondo. Il problema che qui vedo sorgere è un altro: possiamo considerare l'uomo, questa apparizione sovrana nella storia dell'universo, responsabile della sua evoluzione?

Ritiene ancora possibile salvaguardare lo stile, questo gesto delicato e aristocratico, in un mondo che tende alla spersonalizzazione e alla manipolazione dell 'individuo?

Definirei la nostra una società di individui massificati che necessita per questo di élite molto ristrette, destinate a svolgere una funzione importantissima. Su questo punto mi attengo alla sentenza eraclitea che dice: "Uno solo, per me, è diecimila ». Questo numero andrebbe oggi elevato a potenza.

Nel senso che le élite andrebbero allargate o ristrette ulteriormente?

Nel senso che quanto più cresce la massificazione, tanto più grande è il valore e la forza spirituale di quei pochi capaci di sottrarvisi.

Siamo abituati a pensare alle élite in termini Più sociologici che spirituali. Lei che definizione ne darebbe?

La definizione sociologica di élite è già indice della corruzione del concetto. Un ammonimento, per me, a non avere più fiducia nemmeno nelle élite, ma ormai soltanto nei grandi Solitari.

In Italia si discute accanitamente di « destra» e « sinistra». Che cosa pensa di queste due categorie?

Sono ormai categorie organiche, come le parti del corpo. Pensate per esempio alle mani: sono entrambe indispensabili. E ovvio che Ciascuna esiste in funzione dell'altra. Da questo punto di vista, dunque, la «destra» e la «sinistra» sono ugualmente necessarie. Ciò che fin dalle convulsioni della Repubblica di Weimar mi apparve chiaro è che non tiene più la tradizionale raffigurazione spaziale del significato politico di queste due categorie, secondo l'immagine di un parlamento in cui la destra siede da un lato e la sinistra dall'altro. E questo vale ancor più oggi, nell'età della tecnica e delle comunicazioni di massa. Personalmente, comunque, mi ritengo al di là di questo schema, che ha riempito scaffali di ideologia.

Come immagina dunque il prossimo secolo?

Non ne ho una idea troppo felice e positiva. Per dirla con una immagine, vorrei citare Holderlin, il quale in Pane e vino ha scritto che verrà l'evo dei Titani. In questo evo venturo il poeta dovrà andare in letargo. Le azioni saranno più importanti della poesia che le canta e del pensiero che le riflette. Sarà un evo molto propizio per la tecnica ma sfavorevole allo spirito e alla cultura.

Fonte: tratto da "I prossimi Titani, Conversazioni con Ernst Jünger", Adelphi, Milano 1997



La causa universale - Dionigi Aeropagita

La causa per eccellenza di tutte le cose sensibili non è nessuna cosa sensibile.

Diciamo dunque che la causa universale, superiore a tutte le cose, non è priva di essenza, di vita, di ragione, d’intelligenza; non è neppure un corpo, e non possiede né una figura, né una forma, né una qualità, né una quantità, né un peso; non si trova in nessun luogo, non è visibile, né può essere toccata materialmente; non ha sensazioni, né è oggetto di sensazioni, né disturbata da passioni materiali, né fa albergare in sé il disordine e la confusione; non è neppure priva di forza, come se fosse soggetta alle vicissitudini del mondo sensibile, né ha bisogno della luce; non ammette in sé né il cambiamento, né la corruzione, né la divisione, né la privazione, né lo scorrimento, né alcun’altra cosa sensibile; e non è neppure qualcuna di queste cose.

La causa per eccellenza di tutte le realtà intellegibili non è nessuna realtà intellegibile.

Procedendo quindi nella nostra ascesa diciamo che la causa universale non è né anima, né intelligenza, e non possiede né immaginazione, né opinione, né parola, né pensiero; che essa stessa non è né parola, né pensiero; e che non è oggetto né di discorso, né di pen­siero. Non è né numero, né ordine, né grandezza, né piccolezza, né uguaglianza, né disuguaglianza, né somiglianza, né dissomiglianza; non sta ferma, né si muove, né rimane quieta, né possiede una forza, né è una forza; non è luce; non vive e non è vita; non è né essenza, né eternità, né tempo; non ammette neanche un contatto intellegibile; non è né scienza, né verità, né regno, né sapienza; non è né uno, né unità, né divinità, né bontà; non è neppure spirito, per quanto ne sappiamo; non è né figliolanza, né paternità, né qualcuna delle cose che possono essere conosciute da noi o da qualche altro essere; non è nessuno dei non-esseri e nessuno degli esseri, né gli esseri la conoscono in quanto esiste; e neppure essa conosce gli esseri in quanto esseri. A proposito di essa, non esistono né discorsi, né nomi, né conoscenza; non è né tenebra, né luce; né errore, né verità; non esistono affatto, a proposito di essa, né affermazioni, né negazioni: quando facciamo delle affermazioni o delle negazioni, a proposito delle realtà che vengono dopo di essa, noi non l’affermiamo, né la neghiamo. In effetti, la causa perfetta ed unitaria di tutte le cose è al di sopra di ogni affermazione; e l’eccellenza di colui che è assolutamente staccato da tutto e al disopra di tutto è superiore ad ogni negazione.

Tratto da “Teologia mistica” di Ps.Dionigi Aeropagita (ed.Città Nuova)



La predizione sugli psicopersuasori di V.Packard

La psichiatria freudiana, secondo la quale molti adulti ricercherebbero inconsciamente quelle piacevoli sensazioni orali provate durante il periodo dell’allattamento e nei primi anni dell’infanzia, dischiuse nuovi orizzonti ai maghi della pubblicità.

(..)

Alcuni aspetti del nostro comportamento di consumatori sono così tortuosi e irrazionali che i tecnici della vendita si trovano, talvolta, a roteare gli occhi esasperati e impotenti. Le nostre singolarità psicologiche sono soprattutto rivelate dal fatto che noi, senza esserne coscienti, vediamo e sentiamo, in uno slogan o in un bozzetto pubblicitario, cose che non avremmo dovuto né vedere né sentire. Tale è la sensibilità del nostro occhio interno e del nostro orecchio interno nel cogliere messaggi non intenzionali, che si stenta, talvolta, a reprimere un senso di pietà per i poveri tecnici del mercato. Questi, di fronte alle nostre capricciose, inspiegabili resistenze, si rivolsero ai tecnici della profondità per ottenere diagnosi e rimedi ai loro malanni.

(..)

Le inquietanti caratteristiche orwelliane del mondo verso il quale i persuasori sembrano volerci sospingere — sia pure involontariamente - appaiono in tutta la loro evidenza quando si considerano talune delle loro più audaci e ingegnose operazioni.


Ad esempio nel mercato dei beni di consumo, ci pare di poter considerare un segno premonitore di eccezionale gravità l’impiego delle tecniche del profondo per determinare il grado di vulnerabilità delle bambine ai messaggi pubblicitari. Nessuno, letteralmente, può sfuggire all’occhio onniveggente degli analisti motivazionali allorché si presenta la minima occasione di vendita.

(..)

A che genere di «domani» stiamo andando incontro nella vendita di prodotti si può vedere dall’uso della psicanalisi sulle ragazzine per scoprire quanto siano sensibili al messaggio pubblicitario. Nessuno, assolutamente nessuno, evidentemente, può essere risparmiato dall’occhio onniveggente del Grande Fratello, il ricercatore motivazionale, se pare che un’occasione di vendere si presenti

A lunga scadenza - diciamo nel 2000 - tutte queste manipolazioni a base psicologica sembreranno, forse, molto ingenue e un po’ ridicole. A quell’epoca i biofisici avranno probabilmente assunto il comando delle operazioni con il « biocontrollo », ossia la persuasione del profondo portata alle sue conseguenze estreme. Il biocontrollo è la nuova scienza che controlla i processi mentali, le reazioni emotive, e le percezioni mediante segnali bioelettrici. Al congresso nazionale di elettronica tenutosi a Chicago nel 1956, l’ingegnere Curtiss R. Schafer, della Norden Keaty Corporation, lesse una relazione sulle prodigiose possibilità offerte dal biocontrollo. Egli affermò che l’elettronica è in grado di provvedere al controllo di tutti gli individui in qualche modo «difficili», facendo risparmiare agli specialisti delle varie discipline sociali tempo e seccature. A suo dire, si tratterebbe di una operazione relativamente semplice.

Gli aeroplani, i missili, talune macchine, sono già guidate elettronicamente; lo stesso principio si può applicare al cervello umano, che ha in sostanza la struttura di una macchina calcolatrice. Attraverso il biocontrollo gli scienziati sono già riusciti ad alterare, in alcuni soggetti umani, il senso d’equilibrio. E hanno provocato artificialmente la sensazione della fame in animali sazi; in altri, hanno provocato il panico senza che nulla di visibile li minacciasse. La rivista «Time» riassumeva in questi termini il pensiero di Schafer: «Il limite ultimo del biocontrollo potrebbe essere il controllo dell’uomo stesso... Ai soggetti controllati non si permetterebbe mai di pensare individualmente. Pochi mesi dopo la nascita, un chirurgo sistemerebbe sotto la cute del bambino degli elettrodi collegati a determinate regioni del cervello... Le percezioni sensoriali e l’attività muscolare del bambino potrebbero essere modificate o completamente controllate da segnali bioelettrici irradiati da un trasmettitore azionato dalle autorità statali ».Per rassicurare i lettori, lo scienziato precisava che gli elettrodi «non provocano alcun disturbo».Non dubito che gli psicopersuasori dei nostri tempi rifiuterebbero con indignazione di commettere una simile sopraffazione a danno dell’uomo. In massima parte, si tratta di persone moralmente integre e bene intenzionate, che seguono l’onda inarrestabile del progresso moderno: vogliono, è vero, controllarci, ma solo per quel tanto che basta a venderci prodotti che potrebbero esserci utili o a diffondere tra di noi idee e opinioni che sono spesso degnissime.Ma quando il processo di manipolazione è cominciato, dove deve arrestarsi? Chi stabilisce il limite oltre il quale esso diventa socialmente pericoloso?


Fonte: tratto da “I persuasori occulti” di V.Packard (ed.Einaudi), 1957






Il disgregamento dell'anima nella civiltà occidentale - C.Dawson

Il mondo che i Cristiani debbono oggi affrontare assomiglia più a quello descritto nell'Apocalisse che a quello di Sant'Agostino. Il mondo è forte, dominato da padroni malvagi; ma questi padroni non sono Nerone o Domiziano, autocrati rotti al vizio; sono gli ingegneri costruttori della macchina d'una potenza mondiale, ben più formidabile e tremenda di quanto abbia mai conosciuto il mondo antico, perché essa non si limita, come i dispotismi del passato, ad usare mezzi esterni, ma si vale di tutte le risorse della psicologia moderna per fare dell'anima umana la forza motrice del suo arbitrio dinamico.

Così i principii fondamentali agostiniani dei Due Amori e delle Due Città, ancor validi, assumono oggi una forma nuova, ignota alla Chiesa del passato. Perché oggi assistiamo ad un meditato tentativo di unificazione e di potenziamento della società umana, fin dalle più profonde radici ; si tenta di portare la Gerusalemme, che è lo spirito dell’Uomo quale ricettacolo dello Spirito di Dio, alla schiavitù di Babilonia, che è lo spirito dell'uomo degradato a cieco strumento d'una diabolica volontà di potenza. Non abbiamo qui spazio per discutere le origini e lo sviluppo di questo male, ma basti dire che le tendenze rivoluzionarie del mondo moderno, ispirate in principio ad un ottimismo umanitario positivo, sono degenerate in una "Rivoluzione distruggitrice". E, come ha osservato Nietzsche, la causa principale di ciò va cercata nella perdita dei valori morali cristiani, che "trattenevano l'uomo dal disprezzo di se stesso, da una ribellione contro la vita, e dalla disperazione, figlia della conoscenza".

Perché una morale, privata delle basi religiose e metafisiche non può che subordinarsi a fini più bassi; e quando questi fini sono negativi, come nella guerra e nella rivoluzione, tutta la scala dei valori morali ne rimane invertita. È comprensibile che un simile nichilismo morale s'accompagni ad un idealismo fanatico in un movimento rivoluzionario clandestino, ma diventa un male molto più grave quando un governo ne faccia il suo credo, quando la forza che domina lo stato se ne serva per difendere la violenza e l'ingiustizia, quando il terrorismo rivoluzionario della società segreta si fonda col terrorismo repressivo della polizia segreta, per produrre una nuova tecnica totalitaria di governo di forza e di terrore che mina le basi psicologiche della libertà morale.

Alla luce del Cristianesimo, l'aspetto più grave di questa situazione è che il male si è per così dire spersonalizzato, svuotandosi di passioni e d'appetiti individuali ed innalzandosi di là dall'umanità, in una sfera dove si confondono e si trasfigurano tutti i valori morali. I grandi terroristi da Robespierre e St. Just a Dzerscinski non erano uomini immorali, ma rigidi puritani che facevano il male freddamente, per principio, disinteressatamente; mentre i dittatori moderni assommano in sé le qualità più alte e più basse della natura umana, - dedizione e devozione illimitata, ed un altrettanto illimitato spirito di vendetta e di violenza - per affermare la loro volontà di potenza.

(..)

La subordinazione della morale alla politica, il regno del terrore, la tecnica della propaganda e dell'aggressione psicologica, possono diventare gli strumenti d'un qualsiasi potere o partito che abbia l'audacia di rinunciare agli scrupoli morali e di precipitarsi nell'abisso.

Questa è per noi la difficoltà più grave, perché questo male prospera e trionfa nella guerra, e la necessità di combattere lo spirito dell'aggressione sfrenata colla forza delle armi crea un'atmosfera particolarmente favorevole al suo sviluppo. Per conseguenza abbiamo l'arduo compito di condurre una guerra su due fronti.

(..)

Il disgregamento della civiltà occidentale, dovuto alla pressione economica e morale della guerra, costituisce un pericolo serio da non scartarsi alla leggera. Né i Cristiani possono affrontarlo collo stesso animo con cui affrontavano la caduta dell'Impero Romano. Quello era un disastro esterno che lasciava intatte le sorgenti della vita spirituale, mentre quella odierna è una catastrofe spirituale che colpisce le basi morali della nostra società, e distrugge non la forma esterna della civiltà, ma l'anima dell'uomo, principio e fine d'ogni cultura umana.

Fonte: tratto da “il giudizio delle nazioni” di C.Dawson (ed.Bompiani)




Il trionfo della tecnocrazia - D.Lamènie

«L'economia ha assunto, a causa dello sviluppo della tecnica, un'importanza tale nella nostra epoca che ormai sono i suoi imperativi a determinare della nostra società le strutture. I mali di cui soffriamo dipendono in gran parte dal fatto che non abbiamo saputo sostituire abbastanza in fretta i vecchi quadri sociali, ereditati da un passato ormai sepolto, con uomini nuovi preparati per le loro conoscenze a svolgere le funzioni governative che il mondo moderno comporta. Il Progresso, che è una necessità talmente evidente da esser diventato il denominatore comune degli ideali di ogni cittadino, esige che venga bandito l'empirismo in un'epoca in cui ormai non ha più motivo di esistere, poiché le scienze razionali illuminano ogni giorno una nuova zona d'ombra.

I primi mutamenti del mondo moderno sono stati caratterizzati da un notevole balzo in avanti delle scienze della materia, cui non corrispose un adeguato progresso delle scienze umane. In questa prima fase il progresso materiale pur apportando benessere, non eliminò completamente l'infelicità, anzi talora contribuì ad aggravarla, poiché mancava una sufficiente conoscenza dell'uomo, della sua natura e dei suoi bisogni. In seguito, tuttavia, le scienze umane hanno cominciato a recuperare questo loro ritardo a passi da gigante: non è più soltanto sulle sue conoscenze nel campo della chimica, della fisica o anche della biologia che l'uomo d'oggi può contare, ma su quelle non meno razionali nel campo della psicologia, individuale e di gruppo, della sociologia, dell'economia, ecc. D'ora in poi il progresso materiale nei suoi risultati non sarà più lasciato al caso: l'uomo, forte della conoscenza di se stesso, potrà ormai orientare il progresso tecnico in modo da ritenere i soli risultati felici, possiamo quindi parlare di Progresso anche senza precisarne il campo, poiché l'uomo è in grado di far concorrere tutti i progressi particolari al Progresso generale, assoluto, il cui scopo è la felicità del genere umano.»

Ecco, in breve, quali sono le opinioni che costituiscono il credo tecnocratico e che oggi godono del consenso generale del grande pubblico, nonostante la sopravvivenza di alcuni focolai di oscurantismo inveterato che sussistono nelle più svariate categorie: si tratta di certi nostalgici della cultura dei secoli cosiddetti "grandi", ferventi sostenitori della tradizione, più legati alle discipline dello spirito e alla qualità del suo progresso che non all'efficacia della sua produzione; di certi medici che continuano a vedere nel carattere personale dell'esercizio della loro professione una condizione della sua oblatività, di certi militari che, malgrado l'evidenza della potenza dei mezzi di distruzione, affermano ancora il primato delle forze morali e dubitano allo stesso tempo dell'esistenza di metodi scientifici atti a suscitare e mobilitare dette forze; di tal uni bottegai e artigiani maniaci dell'indipendenza, alcuni dei quali continuano a prosperare grazie all'anarchia politica che sussiste ancora; di taluni coltivatori che hanno una sorta di culto per la terra che lavorano e sono in generale troppo anziani per aver potuto assimilare le concezioni che i «Giovani Agricoltori» si sforzano di diffondere; e di altri ancora...

Ma si tratta qui di minoranze, perché non solo i tecnici, la cui mentalità è particolarmente sensibile all'idea di una società scientificamente organizzata, ma anche uomini di ogni specie si schierano oggi con entusiasmo o con malinconico rammarico dalla parte delle "verità" tecnocratiche che ho appena schematizzato a grandi linee.

Ovviamente, i più convinti sono i tecnocrati stessi, e cioè coloro che si sentono chiamati a diventare gli eletti del sistema sociale moderno, coloro che per formazione mentale e competenza tecnica sono designati al potere. È inutile dire chi siano questi uomini, perché tutti li conoscono: i loro nomi figurano in una quantità più o meno notevole di commissioni e di organismi che si propongono lo scopo di ristrutturare la nazione o anche in gruppi internazionali più vasti, occupano in qualità di grandi esecutori le posizioni chiave della vita nazionale. Il saggio di H. Coston, Les Technocrates et la Synarchie, ci offre un elenco piuttosto nutrito di molti di coloro che lavorano come funzionari, ma, nell'insieme, i tecnocrati vanno ben oltre questa categoria. In effetti, è sempre più lo stesso genere di persone, si può dire la stessa casta, a occupare posizioni di potere, sia nell'ambito dell'amministrazione pubblica che in quello dei grandi affari cosiddetti privati, che in realtà, perdono sempre più il loro carattere privato con il diffondersi del dirigismo e della concentrazione industriale che oggi caratterizzano, molto di più che le nazionalizzazioni, la socializzazione del Paese.

Molto spesso, i dirigenti delle grandi società sono ex funzionari che hanno mantenuto l'accesso all'amministrazione tramite le loro relazioni con i colleghi di un tempo; essi parlano lo stesso linguaggio, che non è più quello degli uomini d'azione, ma è il vocabolario tutto neologismi degli organizzatori. Provengono tutti dalle stesse grandi scuole, dove tenuti lontano dalle realtà molteplici della vita, perché percepirne le infinite sfumature avrebbe significato turbare e distrarre in modo pericoloso lo spirito nell'età in cui è malleabile, hanno passato gli anni giovanili impregnandosi di schemi semplificatori che ne segneranno l'intelligenza con un sigillo comune che, più tardi, servirà loro da talismano e consentirà loro di intendersi di primo acchito nel corso dei loro incontri per tutta la vita.

Il Piano è il motivo conduttore di questi incontri organizzati: il Piano, questo vecchio sogno sinarchico che la IV Repubblica ha riconosciuto ufficialmente dopo che i principali organizzatori dell'economia del regime di Vichy gli avevano spianato la via, e al quale il tecnocrate Bloch-Laìné ha riservato, nel suo libro La Réforme de l'Entreprise, un posto speciale, quello di crocevia dei padroni della vita economica.

È inutile precisare che la casta è mossa da una forte volontà di potenza, riscontrabile tanto nei parvenus che vi sono entrati tramite concorso, quanto in coloro, che sono d'altronde i più numerosi, che assommano e i prestigiosi diplomi e una appartenenza familiare alla classe dirigente. Si tratta degli eredi di grandi signori che hanno dimenticato le loro tradizioni, di grandi borghesi stanchi di intraprendere nel rischio, di grandi funzionari o di distinti rappresentanti delle professioni liberali nei quali è svanito l'orgoglio dell'indipendenza. Agli uni e agli altri si aggiungano poi gli apatridi, per i quali la nazione è oggetto di conquista e la cui influenza sotterranea è, purtroppo, determinante.

Questa volontà di potenza si esprime in concreto nella volontà di escludere dal potere le persone che non appartengono alla casta. Il metodo più sicuro è l'edificazione di un sistema in cui non esista alcuna possibilità di inserimento per chi non è "ferrato in materia", e che valorizzi unicamente quelle doti che vengono considerate valide in base ai criteri stabiliti da coloro che lo sono. 

I tecnocrati comunque, non disdegnano alcuna occasione per eliminare qualsiasi tipo di concorrenza che possa contendere loro i posti di comando, sia che si tratti di notabili provenienti dalle strutture naturali che ancora resistono o rinascono nonostante tutto, sia che si tratti di indipendenti incalliti appartenenti a varie categorie professionali e presunti beneficiari di privilegi, sia che si tratti di politici; questi ultimi sono certamente i più vulnerabili a causa della loro mediocrità giustamente proverbiale e dell'origine del loro potere che è altrettanto artificiale nella nostra democrazia quanto quella a cui si appellano i tecnocrati. 

(...)

L'appetito dei tecnocrati è lo strumento di mire ideologiche di ben altra portata: la Rivoluzione vuole la distruzione dell'ordine naturale, la tecnocrazia, che è una forma della Rivoluzione, concepisce tale distruzione come un capovolgimento che, nella sfera temporale, tende a sostituire l'«economico innanzitutto» al «politico innanzitutto. »

(...)

I mezzi che i tecnocratici si propongono di usare non possono essere valutati adeguatamente se non in funzione dello scopo che essi si prefiggono. È sempre il problema della finalità che domina tutto il resto. Le Réflexions pour 1985 di Pierre Massé sono molto significative a questo riguardo.

Innanzitutto, bisogna essere inseriti in una certa dinamica, bisogna diffidare di tutto ciò che è permanente, di tutto ciò che potrebbe indurci a «fuggire l'avvenire», perché il passato vale solo nella misura in cui esso prepara l'avvenire - quello dei tecnocrati, ben inteso. «La vastità delle trasformazioni che i nostri sistemi di valori hanno subito sulla scia della rivoluzione industriale ci dà la misura dei mutamenti di significati che dobbiamo aspettarci nei prossimi vent'anni.»

La famiglia, ovviamente, è uno dei valori minacciati, poiché, essendo una cellula naturale fondamentale, non è stata creata dall'uomo: «perché l'uomo possa vedere nella civiltà un mondo a sua immagine, egli dovrà potervi riconoscere sia l'opera delle sue mani, sia la partecipazione dei suoi sforzi .... »

Ed ecco come viene formulata l'idea di Educazione permanente, che si è ormai istituzionalizzata:

«Adattandosi in un modo più elastico a finalità più coscienti (la formazione) dovrà sfociare nell'educazione degli individui sia come consumatori, che come cittadini, che come produttori, e permettere loro di accedere nel migliore dei modi a tutte le felicità possibili ....»

Dietro l'enfasi di queste parole è chiaramente riconoscibile una concezione puramente materialistica del mondo, l'edonismo, è l'idolatria dell'Evoluzione.

Incapace di scorgere il vero fine dell'uomo creato a immagine di Dio, e concepitovper servirlo, il tecnocrate considera l'individuo uno strumento di produzione e un organo di consumo. Il tutto è coronato da un vago estetismo: poiché, secondo il tecnocrate, il fine dell'uomo si identifica con il suo ruolo di produttore e di consumatore, è proprio assumendo al meglio queste funzioni che egli troverà, per ciò stesso, la felicità alla quale aspira. Ci troviamo dunque di fronte a un capovolgimento totale della gerarchia dei valori che aveva instaurato il cristianesimo: la tecnocrazia non è che una forma particolarmente insidiosa della sovversione.

Fonte: tratto da “La tecnocrazia” di L.Damènie (Società editrice Il Falco)



La filosofia marxista - J.Daujat

Il marxismo è una trasposizione materialista della filosofia di Hegel: vogliamo con ciò dire che esso si oppone all'idealismo (e opera un vero e proprio capovolgimento del sistema hegeliano) facendo delle idee un semplice prodotto dell'evoluzione delle forze materiali nel cervello umano, di modo che le forze materiali vengano a essere il vero agente creatore di storia. L'Idea, che era tutto per Hegel, non è niente per Marx, se essa non è il prodotto di un cervello, esso stesso prodotto delle forze materiali: in questo modo il materialismo è integrale. Ma questo materialismo conserva l'evoluzionismo assoluto di Hegel: non c'è alcuna realtà che sia, che resti o che perduri, vi sono solo forze materiali in perenne conflitto e, di conseguenza, in perenne contraddizione; l'azione e il conflitto di tali forze, creatori di perenni trasformazioni, fanno della storia - che ne è il frutto - una perpetua evoluzione nella contraddizione e nella lotta. Questo materialismo è dunque un materialismo storico, un materialismo per il quale non esiste niente altro che la storia, ed essa stessa è solo un cambiamento incessante, generato dalle forze materiali in incessante lotta. Esso, poi, è anche un materialismo dialettico, essendo l'evoluzione storica fatta di un ritmo di opposizioni generatrici di cambiamento ed essendo ritmata per tesi, antitesi e sintesi, come in Hegel. Non vi è dunque per Marx alcuna verità che meriti un sì o un no, che darebbe un senso a un'affermazione, ma sí e no, affermare e negare, si chiamano e si confondono nella contraddizione, principio del cambiamento; l'evoluzione nega domani ciò che oggi afferma, soltanto la contraddizione è regina e non esiste alcuna verità da affermare.

Ci si inganna dunque profondamente quando si dà al la parola "materialismo" il suo significato piú comune, per attribuirlo al marxismo. Marx ha definito la sua filosofia come materialismo "storico" o "dialettico": la maggior parte dei nostri contemporanei, ignorando Hegel e non sapendo ciò che questo significhi, dimenticano le parole "storico" o "dialettico" e perciò considerano il marxismo come un materialismo comune, non ricordando altro che la parola "materialismo". Ora, si chiama normalmente materialismo la filosofia che considera la materia come l'unica realtà; tuttavia questo materialismo ammette una realtà, quella della materia, di una materia che esiste e che dura e che è la sostanza di cui sono fatte tutte le cose. Essa ammette dunque una verità, la verità che afferma la realtà della materia e spiega tutto con la sola materia. Marx ha solo, sarcasmi per questo materialismo, che qualifica come materialismo "contemplativo" o "dogmatico (contemplativo,perché considera la materia come una realtà o un oggetto da conoscere; dogmatico, per la sua affermazione della realtà della materia) opponendolo al suo materialismo storico o dialettico. Per Marx non vi è alcuna realtà materiale che esista e duri, vi sono solo forze materiali la cui azione perennemente trasformatrice non lascia esistere nulla. Non è dunque la materia, ma il conflitto incessante delle forze materiali in azione, a costituire la base della sua filosofia. Ricordiamo di aver sentito qualcuno affermare, con lo scopo di spiegare che il marxismo è il materialismo piú totale che possa esistere, definirlo come "la filosofia che fa della materia un assoluto": è impossibile mostrare una incomprensione piú completa del marxismo, poiché il primo principio del marxismo è precisamente che non vi è alcun assoluto, che non vi è niente che possa essere posto come avente un'esistenza che basti a sé stessa e che duri, che vi sono soltanto le forze in lotta, le quali non lasceranno mai esistere né durare nulla.

Lo spirito, per Marx, non ha un grado maggiore di esistenza della materia stessa: esso è il prodotto delle forze materiali. Ma può essere uno strumento potente dell'azione delle forze materiali agenti nella storia; e i marxisti non temeranno - a causa della natura del loro materialismo - di servirsi all'occorrenza di un linguaggio spiritualista, per prendere in esame l'azione storica delle idee o di altre forze spirituali (morali o religiose, per esempio) quali organi potenti per l'azione delle forze materiali che lottano e agiscono attraverso i cervelli umani. Dottrina, ideali, costumi, doveri, religione, tutto questo è solo il prodotto delle forze materiali e lo strumento della loro azione. Neppure l'individuo ha un grado maggiore di esistenza propria: egli è solo una rotella dell'immenso conflitto delle forze materiali che modella la storia.

Quale sarà il posto e il destino dell'uomo in una simile concezione?

L'uomo non ha piú verità da conoscere: non c'è alcuna realtà esistente o stabile che possa essere oggetto di conoscenza, neppure la materia, come nel materialismo contemplativo o dogmatico.

Ogni ricerca di verità, ogni affermazione di dottrina, ogni atteggiamento contemplativo, sono impietosamente rifiutate. Non resta che agire, realizzarsi per mezzo dell'azione, coinvolgendo sé stessi nella lotta e nel conflitto, esercitare l'azione trasformatrice, che plasma l'evoluzione perpetua della storia. Non v'è esistenza che nell'azione, e nell'azione materiale: non si esiste se non agendo e trasformando continuamente sé stessi attraverso la propria azione.

Per Marx l'uomo non è niente altro all'infuori dell'azione materiale che svolge, e non possiede realtà diversa dall'azione materiale da lui esercitata. Questa è l'essenza stessa del marxismo, che è una filosofia dell'azione materiale pura, un totalitarismo dell'azione materiale (come l'hitlerismo è un totalitarismo dell'espansione vitale). Ne risulta immediatamente che per il marxismo l'uomo tanto piú esisterà e tanto piú sarà uomo, quanto piú eserciterà un'azione materiale potente: e qui è contenuto tutto il marxismo.

Con la sua azione materiale l'uomo fa la storia, cosí che tutta la storia umana, è solo la storia dell'azione produttiva dell'umanitá e nient'altro che il conflitto tra le forze produttive; ogni epoca della storia è solo un sistema e una lotta di forze produttive. L'uomo esiste perché modifica il mondo con il suo lavoro, l'umanità si genera dal conflitto delle forze produttive. L'uomo è lavoro ed esiste solo modificando il mondo col suo lavoro: nell'uomo vi è solo il lavoratore. Il lavoratore è l'essenza dell'umanità, il marxismo è un totalitarismo del lavoro.

Pertanto non è solo la storia che l'uomo crea e trasforma senza tregua con la sua azione materiale, ma anche e soprattutto sé stesso.

Cogliamo qui fino a che punto marxismo e cristianesimo siano agli antipodi e diametralmente opposti. Il cristianesimo pensa che l'uomo sia stato creato da Dio e abbia ricevuto da Dio una natura umana stabile che lo fa essere e rimanere uomo, il marxismo invece pensa che l'uomo si crei da sé, si dia da sé la propria esistenza e si modifichi senza tregua per mezzo della propria azione materiale.

Non si può eliminare l' idea di Dio in un modo piú totale che sopprimendo l'idea di qualsiasi esistenza che venga da lui per riconoscere soltanto quel la di un'azione eternamente modificatrice.

Il marxismo non riconosce alcuna natura umana stabile che faccia sí che l'uomo sia uomo. L'uomo con la sua azione si dà da sé stesso la sua natura e la modifica senza sosta; l'uomo cambia la sua natura cambiando il sistema delle forze produttive. Il lavoratore industriale di oggi non è piú lo stesso uomo che era il contadino e l'artigiano di un tempo; ha cambiato natura, è un'altra umanità che si è generata attraverso la rivoluzione industriale, come è una nuova umanità che deve generarsi attraverso la rivoluzione marxista. Ogni grande opera storica è dunque un vero snaturamento dell'uomo: essa consiste nel cambiare l'essenza dell'umanità. Da qui la volontà marxista di strappare il piú possibile l'uomo alla natura, al ritmo naturale delle stagioni e della vegetazione, che sfugge in parte alla sua azione, per giungere a un mondo completamente meccanizzato che sia pura creazione del lavoro umano. Si tratta di ricreare un mondo che non sia quello creato da Dio, ma soltanto opera dell'uomo. In questo senso il marxismo è un umanesimo totale; per esso niente esiste se non attraverso l'azione umana, e non riconosce niente altro che l'uomo, il quale si fa da sé attraverso la propria azione.

L'azione umana, come la concepisce il marxismo, è essenzialmente rivoluzionaria:l'uomo tanto piú esisterà e sarà tanto piú uomo, nella misura in cui trasformerà piú profondamente ciò che esiste e trasformerà piú profondamente sé stesso Nel rifiuto assoluto di ogni verità da conoscere o ríconoscere, di ogni contemplazione di ciò che è, il marxismo chiama l'uomo alla piú gigantesca opera di rivoluzione, alla piú potente azione di trasformazione e di sconvolgimento. Per Marx non vi è altra verità al l'infuori delle esigenze dell'azione materiale piú potente e delle necessità dell'azione rivoluzionaria. A seconda del cambiamento di queste esigenze e di questi bisogni, la verità cambierà dall'oggi al domani, il sí si muterà in no, poiché l'affermazione non esprime alcuna verità e ha il solo scopo di esprimere le esigenze del l'azione. Non è dunque per conversione, né per ipocrisia che i comunisti cambiano senza tregua, e dicono e fanno ogni giorno il contrario di ciò che hanno fatto e detto il giorno precedente; ciò è conforme alle piú pure esigenze del marxismo ed essi non sarebbero marxisti se agissero diversamente; poiché il marxismo è un evoluzionismo integrale, essi devono - in quanto sono marxisti - evolversi e contraddirsi senza tregua. Bisogna, una volta per tutte, convincersi che ciò che essi dicono non esprime alcuna verità, ma unicamente le esigenze del la loro azione, poiché per essi niente esiste all'infuori di questa azione. L'azione è una evoluzione perpetua in cui il sí diventa no a ogni momento. Riconoscere una verità, equivarrebbe a riconoscere qualche cosa che esiste, e con ciò rinunziare a trasformarla con la propria azione. Per Marx, conoscere è niente, condurre un'azione è tutto.

Marx non s'interessa maggiormente a un ateismo contemplativo o dogmatico che a un materialismo ugualmente contemplativo o dogmatico: il suo è un ateismo pratico, un rifiuto di Dio attraverso l'azione creatrice di una umanità e di un mondo che non vengono da Dio. Ma il rifiuto di Dio è in questo modo molto piú totale che in un ateismo dottrinale. Per rifiutare completamente Dio occorre un rifiuto totale di tutto ciò che è stato creato da Lui o che viene da Lui. Dunque non bisogna accettare nessuna realtà stabile, nessuna natura durevole che sarebbe nell'uomo e nelle cose, nessuna verità costante, ma occorre opporsi sempre a ciò che esiste trasformandolo con l'azione rivoluzionaria. Con essa ci si crea e si crea la storia, nel rifiuto di ogni dipendenza da Dio, e ci si pone in un atteggiamento che cosi è totalmente "senza Dio". Non solo in modo dottrinale, ma con il rifiuto pratico e totale di Dio i comunisti sono senza Dio, perciò essi si professano "senza Dio militanti". E qui, per qualificare il loro materialismo, bisogna porre l'accento sulla parola "militanti", come sulla parola "storico". Questa parola, "militanti", significa che si sopprime Dio non con una negazione intellettuale, come nel l'ateismo dottrinale, ma con l'azione e la lotta rivoluzionaria contro tutto ciò che viene da Lui, contro tutta la sua creazione. Vedremo piú avanti come ciò può, in certe tappe dell'azione rivoluzionaria, accordarsi perfettamente con la tolleranza religiosa e perfino con la mano tesa al la religione.

Il marxismo va al l'estremo della rivendicazione d' indipendenza totale del la creatura, ed è con ciò soprattutto che esso è l 'ultimo frutto di tutto i l pensiero moderno: è il rifiuto definitivo di qualsiasi realtà da cui l 'uomo dipenderebbe e che gli si imponesse, sia che si tratti di una verità qualsiasi, di una realtà da conoscere cosí com'è, o che si tratti del la sua stessa natura umana. Con l'azione, e l'azione sola, facendo sé stesso e la storia senza dipendere da nulla e da nessuno e senza accettare alcunché di esistente, l'uomo conquista una indipendenza assoluta, essendo solo creatore e trasformatore attraverso l'azione e nient'altro. Non è possibile un rifiuto piú assoluto di ogni oggetto, di ogni esistenza che sia posta dinanzi e prima dell'attività umana che s'imponga a questa e la sottometta: la nostra azione non è sottomessa a niente e non dipende da nulla di esistente, c'è solo ciò che essa fa, nient'altro che l'azione pura.

Occorre qui fare bene attenzione a ciò che è la pura azione materiale rivoluzionaria per un marxista. Per l'uomo comune l'azione ha uno scopo, si agisce per ottenere o realizzare un bene, di modo che l'azione è subordinata o sottomessa a questo bene ricercato, il quale costituisce cosí un oggetto posto dinanzi al nostro volere come la realtà da conoscere dinanzi al la nostra intelligenza.

E' evidente che il marxismo, non ammettendo alcuna dipendenza né alcun oggetto, non ammetterà neppure un bene da amare o realizzare in misura maggiore di quanto ammette che vi sia una verità da conoscere. Un bene e un male la cui distinzione e opposizione si impongano a noi, sono altrettanto inaccettabili per il marxismo quanto un sí e un no, una verità e un errore. Per il marxismo non vi è bene da amare né da realizzare, non c'è che l'azione da condurre. Ammettere un bene che sia un fine, qualche cosa di buono che si debba amare perché è buono, significherebbe imporre una dipendenza all'azione umana. Il marxista che vive il suo marxismo non può amare nulla, poiché l'amore mette in dipendenza dell'oggetto amato; il marxismo è il rifiuto definitivo di ogni amore come di ogni verità. Se un comunista ci presenta qualche ideale come un fine, per esempio l' ideale di giustizia sociale messo innanzi alle rivendicazioni operaie, oppure l'ideale patriottico, proposto oggi al popolo russo o al popolo cinese, è unicamente perché la presenza di un ideale nei cervelli umani diventa in questi casi un mezzo efficace per trascinarli all'azione e alla lotta, un organo o uno strumento d'azione e di lotta delle forze materiali. Stiamo certi, però, che il comunista che vive il suo marxismo, ha in vista solo l'azione rivoluzionaria e la lotta da condurre; l' ideale che mette avanti è solo un mezzo per condurre meglio tale azione e tale lotta, e non ha, in sé stesso, alcun valore ai suoi occhi: esiste solo in funzione di questa azione e di questa lotta e solo per tutto il tempo che è utile a essa.

Questa  esposizione del marxismo ci mostra a qual punto, in tutto e totalmente, il marxismo stesso sia esattamente il contrario e l'opposto del cristianesimo e di tutte le concezioni cristiane, e con quale intelligenza inaudita e a dire il vero sovrumana, esso prenda di contropiede il cristianesimo e realizzi praticamente il materialismo e l'ateismo infinitamente meglio delle dottrine materialiste o atee. La filosofia cristiana dimostra l 'esistenza di Dio partendo dall'esistenza dell'uomo e dell'universo e come causa e origine di questa esistenza; essa insegna che, se non ci fosse Dio a comunicare l'esistenza a esseri che non se la sono potuta dare da soli, bisognerebbe concludere che niente esiste. Il marxismo fa fronte rigorosamente a questa prova ammettendo che, effettivamente, niente esiste, e conclude che Dio non esiste poiché niente esiste; supponendo poi che si trovi, di fronte a noi o in noi, qualche esistenza che sia il segno e la traccia di Dio, esso insegna che non bisogna accettarla, ma sopprimerla attraverso l'azione rivoluzionaria che gli è propria. Cosí il marxismo resta solo un umanesimo esclusivo, che ammette solo l'azione umana. A questo umanesimo esclusivo il pensiero moderno, imperniato esclusivamente sull'uomo, doveva fatalmente pervenire. Chiunque vuole riconoscere soltanto la crescita e l'indipendenza dell' individuo o della persona umana, o anche della collettività o della società umana, e rifiuta di sottomettere tale crescita e indipendenza a Dio e alla sua legge e di orientarle verso Dio, apre fatalmente la strada al marxismo, sebbene solo il marxismo giunga al termine di questa strada. Chiunque rifiuterà il primato della contemplazione, l'abbandono dell' intelligenza a una verità da conoscere e della volontà a un bene da amare, per rifugiarsi nell'ebrezza dell'azione pura e curarsi solo di agire, è sulla strada del marxismo. Il capitale o l' industriale del secolo scorso o di oggi, che fa del lavoro produttivo e dei suoi risultati materiali lo scopo e l'essenza della vita umana, pianta un albero di cui il marxismo sarà il frutto. Tutti coloro che annunciano che la civiltà futura sarà una "civiltà del lavoro", ossia una civiltà in cui il lavoro è il valore supremo della vita, sanno poi che l'unica civiltà totalmente e unicamente "del lavoro" è il marxismo?

Ma al punto di crisi a cui siamo giunti oggi, le soluzioni di compromesso non sono piú possibili: si tratta di essere o marxisti o cristiani. Tra comunismo e cristianesimo bisogna scegliere: non si possono associare le due cose, o metterle d'accordo, o farle collaborare.

Fonte: tratto da “Conoscere il comunismo” di J.Daujat (Società editrice Il Falco)




Origine del falso egualitarismo – G.Thibon

Ci sia ora concesso di compiere un breve excursus psicologico sulle radici di quel terribile istinto d’eguaglianza che sconvolge le società.

Il primo riflesso dell’egualitarismo è questo grido: “Perché io no?”.
Da quale stato d’animo scaturisce? Prendiamo un uomo qualsiasi che invidia la sorte di un grande personaggio e che dice fra sé: “Vorrei proprio essere al suo posto!”.  Che cosa invidia costui in quel destino superiore? Forse gli oneri, i rischi ed anche l’austera gioia di servire (il più delle volte non ci pensa neppure), oppure il prestigio, la fortuna e tutte le possibilità di piacere e di riposo, che nella sua mente sono indissolubilmente unite con la situazione del personaggio invidiato? La risposta è fin troppo facile... L’istinto egualitario ha le stesse fonti dell’istinto edonistico, è il marchio della medesima decadenza.

L’edonismo infatti nasce da un processo di disgregazione affettiva per il quale la sete di felicità naturale in tutti gli uomini, si separa dalla sete di agire, di donarsi, di lottare, dallo slancio verso la virtù nel senso etimologico e larghissimo del termine. Nell' uomo sano questi due istinti sono strettamente legati l’uno all'altro: la felicità è il coronamento dello sforzo e del dono e accresce in funzione della perfezione raggiunta. Il decadente, al contrario, non associa l’idea di felicità a quella di perfezione e di ascesa; non conosce altra perfezione che il godimento e la sicurezza: Dio per lui non à purezza ma felicità e riposo. Cosi, per poco che la sua situazione sociale sia inferiore, egli è spontaneamente egualitarista: nell’ordine della felicità materiale e del rifiuto di servire, il solo esistente per lui, di fronte a privilegi senza missione, a privilegi che permettono la dimissione, l’ultimo degli uomini può legittimamente rivolgere la propria ambizione ai posti più alti. Soprattutto di fronte al denaro: ciascuno si sente degno di essere l’eletto di questa divinità anonima, ciascuno si sente capace, al limite, di godere e di non far nulla! Non è d’altronde effetto del caso se le epoche in cui il primato sociale è devoluto al denaro, sono anche quelle in cui infierisce la peggiore febbre egualitarista. Ma quegli operai che invidiano la vita facile di uno squallido cliente di grande albergo, quel vecchio contadino che la necessità costringe ancora, per sua fortuna, a chinarsi sulla terra e che la vuota oziosità del piccolo pensionato suo vicino riempie di cupidigia, tutti i cuori contratti da un corrosivo “perché io no?”, che cosa in realtà invidiano ai loro fratelli “privilegiati”? Per strano che ciò possa sembrare, invidiano il loro nulla! Appuntata verso il privilegio senza doveri, verso il peccato (giacché il rifiuto di servire è la definizione stessa di peccato), la volontà di eguaglianza diventa una volontà di nulla, una vertigine di autodegradazione e di morte. E in questo risiedono il segreto e la logica del “comunismo”. Ci sono soltanto due cose assolutamente comuni a tutti gli uomini: il loro nulla originale e il Dio che li ha creati. Se sono troppo deboli o troppo peccatori per unirsi nel culto di questo Dio, tendono invincibilmente a comunicare in quel nulla.

Ma non è al nulla puro e semplice che l’egualitarismo mette capo: l’uomo e la società hanno la vita dura! Peccato capitale contro l’armonia - la quale non è altro che un gioco di ineguaglianze fondate sulle funzioni e sui doveri - , l’egualitarismo partorisce il caos; in altri termini, sostituisce al gioco delle ineguaglianze organiche un groviglio di ineguaglianze assurde e divoranti, frutto dell’intrigo e del caso di tutto ciò che di meno umano esiste nell’uomo. E chiaro per esempio, secondo quanto dicono i testimoni più autorizzati, che il “comunismo” sovietico, fondato in diritto sull’egualitarismo più rigido, ha dato origine di fatto alle ineguaglianze più rivoltanti che la storia abbia mai conosciuto.

Fonte: tratto da “Ritorno al reale” di G.Thibon (Ed.Effedieffe)



Il rifiuto dell’ascesi cristiana di Jung - J.C.Larchet

Jung ha una posizione estremamente negativa nei confronti dell’ascesi cristiana; né soltanto di certe forme deviate che essa poté assumere nel corso della storia (e ciò potremmo anche capirlo), ma pure come essa si manifesta fin dai primi secoli del cristianesimo nell'insegnamento dei Padri della Chiesa. Le rimprovera, in particolare, di voler estirpare il male dalla natura umana, invece d’accoglierlo, come egli vuole. Ben lontano dal vedere nell'ascesi un modo di vita liberatorio, Jung, al contrario, è dell’idea che essa si limiti a soffocare il male e cosi perpetuare i conflitti in seno alla psiche.
Questa concezione di Jung ha la sua radice nelle prospettive teologiche ed etiche della sua teoria, che egli ricavò dallo gnosticismo e da varie correnti esoteriche (in particolare l’alchimia), secondo le quali il male ha una sostanza, è indissociabile dal bene, fa parte in maniera inalienabile sia della realtà umana che di quella divina e in esse svolge un ruolo positivo né più né meno del bene.
Infine, Jung presenta l’imitazione del Cristo come una prima tappa della vita spirituale, ma tappa chiamata a essere superata. Ai suoi occhi, in effetti, il Cristo non potrebbe essere un modello dal valore assoluto, essendo perfetto ma non completo. Per lui, infatti, la completezza (che prevede l’inclusione in sé anche del male), come abbiamo visto, è preferibile alla perfezione; sta qui la ragione per cui egli rifiuta la santità‘ come norma cristiana di sanità spirituale e di compimento di sé in Dio.
Se nel suo processo d’individuazione l’uomo deve anzitutto optare per il bene - allorquando si scontra con la sua ombra -, e perciò imitare il Cristo (che in questo stadio rappresenta il Sé), tuttavia egli deve, a un livello più alto, tendere a superare anche il conflitto con il male e con le tenebre, integrandoli nell'unità dallo Spirito Santo, unità che corrisponde alla totalità del Sé e «all'unione degli opposti divini» che esso rappresenta. Insomma, l’avvento del Diavolo completa la venuta del Cristo, ma senza che quello implichi tuttavia un superamento di questa:
<< Il simbolo cristico del Sé non viene svalorizzato dall’adventus diaboli. Al contrario, se ne ritrova completato. E una misteriosa metamorfosi dei due aspetti che qui si compie>>; «se costato che il Cristo non é un simbolo completo del Sé, non lo rendo più completo sdegnandolo. Bisogna che io lo mantenga e a questo lumen de lumine io aggiunga l’ oscurità, se voglio dare una forma al simbolo della perfetta ambivalenza interiore di Dio >>
E' evidente che questi principi sono ben lontani non soltanto dall’insegnamento e dalla pratica della tradizione cristiana rappresentata dai Padri, ma sono con essi incompatibili, come peraltro lo stesso Jung ha spesse volte scritto criticando questo o quell' insegnamento patristico.

Come Freud, anche Jung aiuta l’uomo ad accettare i contenuti del suo inconscio, attraverso la loro presa di coscienza e simbolizzazione, e l’aiuta a coabitare in pace con quella parte buia e malvagia di sè che invece caratterizza, secondo il cristianesimo, la sua natura decaduta. Ma non l’aiuta a superare questa natura decaduta in una reale trasformazione di sé. Per Jung, è soltanto nella coscienza che ha di sé che l’uomo cambia e diventa un uomo nuovo.
L’idea junghiana che l’uomo incontra Dio e compie se stesso prendendo coscienza del Sé ("l’individuazione, scrive Jung, è la vita di Dio") è un’illusione che rischia d’allontanare definitivamente l’uomo dal Dio vero, dalla vera sanità spirituale e dal vero compimento di sé. Jung fu la prima vittima di quest’illusione nel suo tentativo d’autodeificazione.

Fonte: tratto da “L’inconscio spirituale” di J.L.Larchet (ed.SanPaolo)



Che cos'è la sapienza - N.Cusano

La sapienza, dunque, che è la stessa uguaglianza dell’essere, è il verbo o la ragione delle cose. Essa è, per così dire, la forma intellettuale infinita; la forma dà alla cosa l’essere formato. Pertanto la forma infinita è l’attualità di tutte le forme formabili e l’uguaglianza precisissima di tutte. Co­me il cerchio infinito, se ci fosse, sarebbe l’esemplare vero di tutte le figure raffigurabili e l’ugua­glianza d’essere di qualunque figura – sarebbe infatti triangolo, esagono, decagono e così via, e sarebbe di tutte misura adeguatissima, anche se è figura semplicissima – così la sapienza infinita è la semplicità che complica tutte le forme ed è la misura adeguatissima di tutte; ad esempio, nel­l’idea perfettissima dell’arte onnipotente ogni cosa formabile dall’arte, è l’arte stessa come forma semplicissima, così che se guardi la forma umana, trovi che la forma dell’arte divina [è] il suo esemplare precisissimo, come se essa non fosse nient’altro che l’esemplare della forma umana. Se guardi la forma del cielo e ti volgi alla forma dell’arte divina, non potrai affatto concepirla diver­samente dall’esemplare di quella forma del cielo; e così [si dica] di tutte le forme formate o for­mabili, di modo che l’arte o la sapienza di Dio Padre è la forma semplicissima e, tuttavia, l’esem­plare unico e assolutamente uguale delle infinite forme formabili per quanto varie esse siano.

Quanto ammirabile è quella forma, la cui infinità semplicissima non possono esplicare tutte le forme formabili! Solo chi s’eleva con sommo intelletto al di sopra d’ogni opposizione, riesce a intuire questa verità profondissima. E, se uno considerasse la forza naturale che è nell’unità, ve­drebbe quella forza, se la concepisse in atto, come qualcosa di formale, visibile da lontano al solo intelletto. E poiché sarebbe la forza semplicissima dell’unità, sarebbe un’infinità semplicissima. Quindi, se questi considerasse la forma dei numeri, considerando la dualità o la decina, e tornasse, quindi, a considerare la forza attuale dell’unità, vedrebbe in questa forma, che si è ammesso esse­re la forza attuale dell’unità, l’esemplare precisissimo della dualità, della decina e d’ogni altro numero numerabile. Questo farebbe l’infinità della forma di ciò che abbiamo chiamato forza del­l’unità: cioè che, mentre guardi la dualità, questa forma non può essere né maggiore né minore della forma della dualità di cui è l’esemplare precisissimo. Così vedi che la sapienza unica e semplicissima di Dio, in quanto infinita, è l’esemplare verissimo di tutte le forme formabili.

E questo è il suo modo di cogliere tutte le cose: per cui le attinge, le delimita e le ordina. È, infatti, in tutte le forme come la verità è nell’immagine, l’esemplare nell’esemplato, la forma nella figura e la precisione nell’assimilazione. E, sebbene [la sapienza] si comunichi a tutti con somma liberalità, essendo infinitamente buona, tuttavia, da nessuno può essere compresa come essa è. L’identità infinita non può essere ricevuta in altro, perché in altro sarebbe ricevuta secondo l’alte­rità. E benché non possa essere ricevuta in uno se non con alterità, essa è tuttavia ricevuta nel miglior modo possibile; ma l’infinità immoltiplicabile si esplica meglio nell’esser ricevuta in mo­do vario: la grande diversità, infatti, esprime meglio l’immoltiplicabilità. Ne consegue che la sa­pienza, ricevuta in modo diverso nelle diverse forme, fa sì che una forma qualunque chiamata al­l’identità nel modo che le è possibile, partecipi della sapienza, sicché alcune la partecipano in uno spirito molto distante dalla forma prima, il quale dà a esse a mala pena l’essere elementare; un’al­tra forma la partecipa in uno spirito più formato e le dà l’essere del minerale; un’altra in un grado ancor più nobile e le dà la vita vegetativa; un’altra in un grado ancor più alto e le dà la vita sen­sibile; e, quindi, vi sono le forme che [ricevono] la vita immaginativa; poi quelle che [ricevono] la vita razionale e, infine, quelle che hanno quella intellettuale.
 Questo è il grado più alto: l’immagine più vicina della sapienza. Ed esso solo è il grado che ha l’attitudine a elevarsi al gusto della sapienza, perché nelle nature intellettuali l’immagine della sapienza è viva di vita intellettuale; la forza di questa vita sta nell’esprimere da sé il moto vitale che consiste nel tendere all’oggetto proprio che è la verità assoluta che è la sapienza eterna, grazie all’intendere. Questo tendere, essendo intendere, è anche gustare intellettualmente: apprendere con l’intelletto è cogliere la quiddità nel modo migliore con una degustazione graditissima. Come, infatti, con il gusto sensibile che non coglie la quiddità della cosa, si percepisce sensibilmente una gradevole soavità negli aspetti esterni della quiddità, così con l’intelletto si gusta nella quiddità una soavità intellettuale che è l’immagine della soavità della sapienza eterna che è la quiddità delle quiddità. E il paragone tra la soavità dell’una e dell’altra non è possibile.

Data la brevità di tempo, ti basti quanto abbiamo già detto, per sapere che la sapienza non sta nell’arte oratoria, né nei grandi volumi, bensì nel separarsi da queste cose sensibili, nel rivolgersi alla forma semplicissima e infinita, nel riceverla nel tempio puro da ogni vizio, nell’aderire a essa con amore ardente, al punto di poterla gustare e vedere quanto soave sia, essa che è ogni soavità. Quando l’avrai gustata, disprezzerai tutto quello che ora ti sembra grande e diventerai umile, in modo che nessuna traccia di superbia rimanga in te, né nessun altro vizio, perché con cuore ca­stissimo e purissimo aderirai in modo indissolubile alla sapienza una volta che l’avrai gustata, preferendo abbandonare questo mondo e tutte le cose che non sono la sapienza, piuttosto che la sapienza stessa. Con indicibile letizia vivrai, morirai e riposerai in eterno, oltre alla morte, in essa, in un amorosissimo abbraccio; il che conceda a te e a me la sapienza sempre benedetta di Dio, Così sia.

Fonte: tratto da "La sapienza dell’idiota", Libro primo. Cfr. I dialoghi dell’idiota, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2003

La caduta degli ideali universali – G.K.Chesterton


Oggi, nella nostra epoca, la filosofia o la religione, ovvero la nostra teoria sulle cose ultime, è stata estromessa, più o meno simultaneamente, da due campi che era solita occupare. Gli ideali universali dominavano la letteratura, prima di venire estromessi al grido di «l'arte per l'arte».
Gli ideali universali dominavano la politica, prima di venire estromessi al grido di «efficienza», che potremmo approssimativamente tradurre con «la politica per la politica». Negli ultimi vent'anni, gli ideali dell'ordine e della libertà sono andati via via scomparendo dai nostri libri, così come le ambizioni dell'intelletto e dell'eloquenza sono andate scomparendo dai nostri parlamenti. La letteratura è volutamente diventata meno politica; la politica è volutamente diventata meno letteraria. Le teorie universali sulla relazione tra le cose sono state quindi escluse da entrambe e possiamo così domandarci: «Che cosa abbiamo guadagnato o perduto da questa esclusione? La letteratura o la politica sono forse migliorate per essersi sbarazzate del moralista e del filosofo?».
Quando tutto ciò che riguarda un popolo diventa temporaneamente debole e inefficace, si comincia a parlare di efficienza. Allo stesso modo, quando il corpo di un uomo è un rottame, egli comincia per la prima volta a parlare di salute. Gli organismi vitali non parlano dei loro processi, ma delle loro aspirazioni. Non può esservi miglior prova dell'efficienza fisica di un uomo del suo discorrere allegramente di un viaggio alla fine del mondo.
E non può esservi miglior prova dell'efficienza pratica di una nazione del suo discorrere continuamente di un viaggio alla fine del mondo, un viaggio verso il Giorno del Giudizio e la Nuova Gerusalemme. Non può esservi sintomo più evidente di una vigorosa salute fisica della tendenza a inseguire nobili e folli ideali; è nella prima esuberanza dell'infanzia che vogliamo la luna. Nessun uomo valoroso vissuto in epoche valorose avrebbe compreso il significato dell'espressione «ambire all'efficienza». Ildebrando avrebbe affermato di ambire non all'efficienza ma alla Chiesa cattolica. Danton avrebbe affermato di ambire non all'efficienza ma alla libertà, all'uguaglianza e alla fratellanza.

(...)

L'epoca delle grandi teorie era l'epoca dei grandi risultati.

Né nel mondo della politica né in quello della letteratura, dunque, il rifiuto delle teorie universali si è rivelato un successo. Probabilmente perché molti ideali folli e ingannevoli hanno talora disorientato il genere umano.

Fonte: tratto da "Eretici" di G.K.Chesterton (ed.Lindau)



Saper tacere ed ascoltare - Filone d'Alessandria

Ci sono dunque uomini per i quali è conveniente solo ascoltare e non parlare, e di questi è detto: «Fa’ silenzio e ascolta»: davvero un ottimo precetto! Siccome l’ignoranza è sfrontatezza e chiacchiera, il primo rimedio è il silenzio; il secondo è l’attenzione rivolta a coloro che dicono cose degne d’essere ascoltate. Non si deve pensare, tuttavia, che questo sia l’unico signifi­cato del precetto: «Fa’ silenzio e ascolta». Esso ne esprime un altro ancor più profondo. Infatti, non incita solamente a far silenzio con la lingua e ad ascoltare con le orecchie, ma anche a far silenzio e ad ascoltare con l’anima. Molti, infatti, pur andando ad ascoltare qualcuno, non ci vanno con le loro menti, ma vagano fuori e van pensando a mille cose su mille argomenti: fac­cende di famiglia, faccende degli altri, faccende private e faccende politiche, di cui sarebbe stato meglio, in quel momento, non ricordarsi. Tutte queste cose, per così dire, le vanno enumerando una dopo l’altra, e, a causa della gran confusione che nasce dentro di loro, non riescono ad ascol­tare chi parla: questi parla, ma non come fosse tra uomini, bensì tra pupazzi senza anima, che hanno orecchie, ma non sentono. Se, dunque, l’intelletto deciderà di non occuparsi di nes­suna delle cose che vengono dal di fuori, né di quelle che serba nel suo intimo, ma, mirando alla quiete e alla tranquillità, si protende verso Colui che parla, facendo silenzio secondo il precetto di Mosè, allora potrà ascoltare veramente con attenzione: altrimenti non ne avrà mai la forza.

Fonte: tratto da "L’erede delle cose divine" di Filone d'Alessandria


Democrazia e Politìa secondo Aristotele

Secondo Aristotele siccome in psicologia metafisica l’anima e la  ragione comandano sul corpo e  sui sensi, così in politica devono governare gli uomini  in cui predominano l’anima  e l’intelletto, mentre quelli che vivono soprattutto secondo il corpo e i sensi o le passioni debbono essere governati.

Per essere cittadino in una polis non basta abitare in un villaggio ma occorre partecipare al  suo  governo mediante il diritto e le leggi è per questo che la democrazia o governo di  tutti gli uomini  in vista del benessere temporale della massa è una degenerazione della politìa, che è il governo  di una moltitudine capace di poter servire lo Stato nell’esercito e nella magistratura, ossia la maggior parte di coloro che partecipano alla vita pubblica mediante le leggi e il diritto (magistrati e guerrieri) per il bene comune della Società e non di una sola classe (massa/popolo).

Perciò la politìa per Aristotele non è il governo di tutti o della massa informe, ma del popolo inteso come la maggior parte dei cittadini (“i più/la  moltitudine”), ossia la sanior pars civitatis. La  democrazia è per Aristotele una degenerazione della politìa poichè non mira all’interesse comune, ma della massa e quindi è vera e propria tirannide della massa o demagogia (dal greco demagogòs capo-popolo, agogòs-dèmos, che si accattiva il favore della massa con promesse di beni difficilmente realizzabili), che rende ingovernabile la polis.

“L’errore in cui cade la democrazia è quello di  ritenere che poichè tutti sono uguali nella libertà,  tutti possano e debbano essere uguali anche in tutto il resto”.

Quanto alle classi che compongono la polis Aristotele le divide così:

1)   i coltivatori della terra e gli allevatori del bestiame, che forniscono il cibo alla città;

2)   gli artigiani, che forniscono strumenti e manufatti ai cittadini;

3)   i commercianti, che producono ricchezza importando ciò che manca alla città

4)   la polizia che difende l’ordine interno alla città dai delinquenti e i guerrieri, che difendono la città dai nemici esterni;

5)   i giuristi, che stabiliscono per legge ciò che è giusto e ciò che è ingiusto per i cittadini, ossia i diritti e i doveri;

6)   i filosofi che contemplano la verità e i sacerdoti, che rendono il culto alla Divinità.

Le prime tre classi (contadini, operai, commercianti) non hanno le capacità e il  tempo per  dedicarsi alla vita virtuosa, quindi non sono veri cittadini ma servi di essi. Solo le altre tre classi (esercito/polizia; giuristi/magistrati; filosofi/sacerdoti) sono veri cittadini atti a governare la polis e a partecipare alla vita politica scegliendo i governanti. Come si vede la sua non è affatto una concezione democratica della politica in senso moderno.

Pur non avendo la concezione di un ordine soprannaturale e di una Chiesa divinamente fondata  Aristotele concepisce il benessere comune temporale dello Stato subordinatamente a quello spirituale o intellettualmente e praticamente virtuoso.

Infatti nell’Etica a Nicomaco e a Eudemo aveva insegnato che i beni sono di due tipi: esterni o materiali (del corpo) e interni o razionali (dell’anima). I primi sono semplici mezzi ordinati ai secondi come al loro fine e 

“ciò vale sia per l’individuo che per lo Stato. Quindi anche lo Stato deve ricercare il bene comune temporale in maniera limitata o ordinata, ciò in funzione dei  beni spirituali, nei quali soltanto consiste la felicità individuale e sociale. Di modo che la polis virtuosa è felice e fiorente. Non può essere felice chi non vive virtuosamente e secondo ragione, sia individuo o Stato. Quindi come il senno e la virtù rendono giusto, saggio e assennato il privato cittadino, così è per la città".

Fonte: tratto da "Sintesi di filosofia politica", C.Nitoglia