Governi occulti - S.Hutin

Esistono dei governanti sconosciuti? Un celebre statista inglese del secolo scorso, Benjamin Disraeli, scrisse questa frase significativa: « Il mondo è governato da personaggi ben diversi da quelli creduti da coloro i quali non sanno guardare dietro le quinte ». Notiamo già, da quanto traspare dalle informazioni accessibili al giornalismo di medio livello, come ogni genere di équipe poco appariscente e teoricamente subordinata ai governi ufficiali, goda in effetti di certe possibilità d'autonomia che sfuggono agli stessi governi: le équipes delle amministrazioni e dei ministeri sono potenti e durature (i ministri e i regimi passano, mentre gli alti funzionari restano). I servizi segreti e le polizie fanno volentieri ciascuno il proprio gioco, complesso e aggrovigliato; e quanto alle possibilità d'azione dell'alta finanza, esse operano, come ben sappiamo, a livello internazionale. Ma esistono realmente dei governanti occulti? Il romanziere André Hardellet così scrive nel suo libro Le seuil du jardin:

«Dietro al succedersi dei vari governi, dovete aver percepito la continuità di certe forze, di certi principii, e questa stabilità non può essere spiegata che con la presenza di forze occulte che in effetti dirigono il Paese. Il variare dei nomi o delle sigle dei partiti non significa nulla e le masse si accontentano della facciata. Naturalmente il mio pensiero è schematico mentre la realtà è ben più complessa; è avvenuta certamente una evoluzione, ma grosso modo le cose si svolgono così. I ministri riconosciuti sono affiancati da altri organismi i cui poteri talvolta oltrepassano i loro. Io non rappresento che una piccola rotella dell'ingranaggio. Non conosco tutti quelli che lavorano nel mio stesso campo e ignoro, oltretutto, a cosa faccia capo questa rete di forze. Si potrebbe anche supporre che l'autorità suprema non sia emanazione di un solo essere ma di una volontà comune».

Così si legge in un romanzo, ma il suo autore si è ispirato a degli avvenimenti reali di cui era al corrente. Dovremmo dunque immaginare gli organi dei governi occulti come una serie di elementi connessi e sovrapposti su scala nazionale alcuni, altri invece che operano a livello internazionale: ognuno di questi elementi avrebbe un potere assoluto di giudizio su tutto ciò che da esso dipende, mentre sarebbe totalmente subordinato a sua volta alle istanze superiori, che conosce solo attraverso gli individui preposti al collegamento. Nel caso in cui avvenissero delle defezioni o delle pericolose divulgazioni, con questo sistema di compartimenti stagni, gli strati superiori non potrebbero mai venire raggiunti. Inoltre, in casi simili, le sanzioni sarebbero senza pietà: da qui l'esiguo numero dei tradimenti.

Tratto da “governi occulti e società segrete”, di S.Hutin (ed.Mediteranee)



Viaggiare nel tempo

Analizzare determinati tipi di fenomeni storici, per loro natura complessi ed articolati, ragionando per slogan,  seguendo ciecamente mode e diktat culturali del momento, è il peccato originale di chi si appresta ad esaminare tali questioni ed a divulgare "studi" e conclusioni tratte. Si fa un gran parlare, spesso a sproposito, di "fascismo", da una parte con riferimento al neonato governo Meloni, reo di aver arruolato tra le sue fila pseudo nostalgici del regime, dall'altra etichettando con tale definizione i provvedimenti draconiani e repressivi delle libertà personali presi dall'autorità in questi anni di delirio giuridico/sanitario. Ma è giusto il percorso che si tende a seguire? L'errore che spesso viene in auge, commesso financo da molti "storici" che si cimentano in materia, è quello della mancata contestualizzazione, del non riportare i fatti rapportandoli al proprio tempo, di ragionare con schemi mentali improntati sulla modernità, imperniati sul nostro modus operandi, sui vincoli culturali odierni. Il lavoro svolto, così, risulta sempre carico di sovrastrutture, poco obiettivo, scarnificato, eccessivamente semplificato. Seguendo questa malsana prassi, ogni avvenimento politico, ogni personaggio rilevante del passato, piegati ed ingabbiati nella nostra rete di pensiero, diverrebbero disumani, bestiali, poiché non incarnanti quei "valori" imposti ( se si possono definir tali) che caratterizzano il nostro approccio alla vita. Così, di questo passo, i grandi condottieri dovrebbero essere etichettati come volgari assassini, tutti gli imperatori romani od i sovrani, persino i più illuminati, come beceri e violenti, i più importanti generali e strateghi militari come uomini senza scrupoli e macellai. Persino Giuseppe Ungaretti, di cui si incensano da sempre umanità ed immense doti di poeta, potrebbe esser definito un "sanguinario", in quanto sfidò a duello Massimo Bontempelli sotto lo sguardo vigile di Luigi Pirandello, per questioni che, senza mezzi termini, secondo i nostri canoni  definiremmo delle bagatelle Nella storia dunque, scritta peraltro dai vincitori, non esistono solamente i buoni od  i cattivi. Tutto questo è falsità e mera riduzione a puerili sillogismi.  Se non si parte dal punto fermo della contestualizzazione, se non si comprendono a fondo dinamiche, situazioni economiche e politiche, gli equilibri internazionali, i costumi di quel determinato spaccato, l' hic et nunc in cui certe decisioni maturano, si ragiona solo per "etichette".  Se si aziona il pilota automatico, dunque, senza" viaggiare nel tempo", rimanendo inchiodati alla nostra epoca, ci si perde, mestamente, in fumose elucubrazioni, in "parole d'ordine" preimpostate, in maldestri tentativi di propaganda, che si scontrano incontrovertibilmente  con la logica e la verità, rendendo tali discipline solamente funzionali alla narrazione dominante, schiave del sistema imposto, dirette a plasmare ex ante il nostro modo di pensare ed agire, a rendere superficiale, ozioso e fanciullesco ogni dibattito, mortificando miseramente  spirito critico e volontà di reale approfondimento.




La guerra dal divano

In Ucraina si apprestano a passare un durissimo inverno. Temperature proibitive, elettricità ad intermittenza e dissesti alla rete idrica rendono la situazione drammatica, in relazione soprattutto a bambini ed anziani, vere e proprie vittime innocenti di questa guerra annunciata. Le famose sanzioni però, al contrario di ciò che parte della controinformazione afferma, stanno assolvendo perfettamente alle loro funzioni, nonostante gli esiti drammatici a cui stiamo assistendo. La destabilizzazione economica dell'Europa, in primis dei paesi manifatturieri, crisi energetica, inflazione, rincaro folle delle materie prime, flussi migratori indotti che non accennano a placarsi, indeboliscono ancor di più il vecchio continente, relegato miseramente al ruolo di vassallo, che ha perduto oramai la sua identità, la sua forza, le sue tradizioni, il volksgeist che contraddistingue i suoi popoli.

Il mainstream nostrano, i popolari volti del giornalismo italico, gli pseudo intellettuali appiattiti sulla narrazione dominante, non fanno altro che soffiare sul fuoco del perenne stato di belligeranza, donandoci istantanee molto spesso alterate del conflitto in corso, soffermandosi in superficie, analizzando solo il "momento", non considerando volutamente pregressi storici, dinamiche geopolitiche, provocazioni, interessi delle parti occulte in causa, accordi prima sottoscritti e poi violati, riducendo il dibattito ad una volgare e fanciullesca semplificazione, riconducendo il tutto nell' alveo della dinamica aggressore/ aggredito. È a dir poco farsesco parlare di resistenza, invio di armi, tattiche militari e bombe atomiche comodamente seduti al caldo di uno studio televisivo, magari con uno sfavillante albero di natale alle spalle e con indosso un maglione con la renna, non analizzando in maniera critica ed approfondita i fatti, voltando le spalle alla verità ad alla reale sofferenza di chi vive drammi di tale portata sulla sua pelle. Pochi hanno il coraggio di dire che la tanto decantata pace, ora, non interessa a nessuno, tantomeno ai registi celati dietro le quinte di questo crudo ed evitabile bagno di sangue.

 

È stato ar fronte, sì, ma cór pensiero,
però te dà le spiegazzioni esatte
de le battaje che nun ha mai fatte,
come ce fusse stato per davero.  
Trilussa



Cavalcare la tigre di Julius Evola

“Cavalcare la tigre” uscì nel 1961 ma in realtà venne concepito e iniziato ad essere redatto circa dieci anni prima.

Per inquadrare il quadro storico di quegli anni, occorre fare velocemente un passo indietro. Evola, scampato all’incidente di Vienna nel gennaio del 1945, resta paralizzato agli arti inferiori e appena rientrato in Italia, non solo trova mutato il clima politico ma avverte immediatamente, dopo aver compreso gli scenari ormai imperanti, l’esigenza di rivolgersi, a chi chiedeva conforto o appoggio dottrinario, di realizzare un opuscolo dal titolo “Orientamenti” in cui, in modo succinto ma pienamente esaustivo, esponeva alcuni indirizzi per sopravvivere e mantenersi “in piedi in un mondo di rovine”. Rovine materiali, ereditate dalla fine della seconda guerra mondiale, ma anche e soprattutto spirituali. Uno scenario apocalittico che inaugurava l’avvento della Guerra Fredda ed il pericolo nucleare sullo sfondo. Per i pochi che non si riconoscevano nella modernità realizzò appunto “Orientamenti” che altro non era che il seme da cui avrebbe preso forma una sorta di aiuto per le giovani generazioni. Per esse, il tradizionalista, scrisse due libri. Rivolti a due categorie differenti di uomini o per meglio dire a due categorie di uomini che avevano, nei confronti della modernità, un approccio differente. Il primo libro era appunto “Gli uomini e le rovine” (1953), testo che era una esposizione di punti fermi a cui aderire, per una correzione della società, e rivolta a chi aveva voglia di intraprendere una causa politica attiva. Nonostante avesse ammonito che nulla poteva essere cambiato, Evola volle comunque dare queste indicazioni. Nello stesso periodo, vide la luce anche il testo gemello che però venne pubblicato solo 8 anni dopo. Appunto nel 1961. “Cavalcare la tigre”, il "libro per tutti o per nessuno", era pensato invece per chi voleva confrontarsi e tuffarsi nel mondo moderno. Prendendo spunto da un detto orientale, il filosofo romano realizzò un libro affascinante, che diede adito negli anni successivi a tante incomprensioni. Perché? Perché Evola, pienamente consapevole che gli eventi storici, il nichilismo del nostro mondo, la decadenza, non poteva essere “ribaltata” indicò una strada differente. Una strada irta di innumerevoli pericoli: superare il nichilismo usando lo stesso nichilismo. “Cavalcare la tigre” non era solo un libro di formazione ma un manuale pratico per il cosiddetto “uomo differenziato”. L’uomo che viveva in un’epoca non sua ma di cui non poteva distaccarsi o farne a meno. Era un libro che dava l’opportunità, all’uomo della Tradizione, di coltivare il distacco interno dal mondo usando il mondo stesso. Attraversando il nulla, restando sé stessi ed anche più fortificati. Come un’asceta che non si piega, uno stoico fuori tempo.

“Cavalcare la tigre” era, ed è ancora oggi, un manuale di sopravvivenza, un aiuto per l’uomo a-politico. Ma non a-politico perché sprovvisto di una visione politica ma a-politico perché la propria visione dell’esistenza tendeva al sacro in un mondo “dove Dio è morto”, dove il sacro è sepolto dalle scorie della secolarizzazione, del progresso e dell’utilitarismo. Una visione metapolitica, alta e nobile, improntata alla Tradizione perenne ed immutabile. Un manuale per chi non potrà modificare il contingente ma che userà il contingente, come il motto orientale suggerisce, per sopravvivere. Un manuale per colui il quale non crede più in nulla perché quello in cui crede appartiene ad un mondo differente. Se il mondo moderno è la tigre, la tigre non si può sconfiggere. Si può solo assecondare i suoi movimenti, assecondare la sua forza distruttiva e feroce restando in groppa. Tenendo duro cercando di non essere sbalzati via, disarcionati. E sperare, quando sarà stanca, quando avrà esaurito tutta la sua furia, di poter scendere e darle il colpo di grazia. Una resistenza eroica, aristocratica e solitaria per un nichilismo attivo.

Un libro che ebbe fin da subito e lo ha ancora tuttora, un fascino ineguagliabile. Un’opera scritta in piena decadenza che non si oppone ad essa ma che anzi caldeggia e asseconda i processi dissolutivi fino al raggiungimento del punto zero. Così da poter poi, per chi dovesse riuscire, risalire la china dell’epoca nichilista.

“Cavalcare la tigre” resta, allora come oggi, un testo difficile e disperato, che ha dato adito ad interpretazioni fuorvianti anche all’interno dello stesso ambiente a cui questa opera si rivolgeva. Ma resta in ogni caso un documento insuperabile per resistere ad una tigre che corre sempre più veloce verso il nulla. Una medicina amara ma indispensabile per preservarsi e superarsi. Un libro forse davvero per nessuno, di chiara impronta alchemica, che indica la dissoluzione ed il perdersi come strade necessarie per ricomporsi, fortificarsi e ritrovarsi.


Prince Rupert


Colpa dei medici "novax"

Era colpa dei medici “novax” se, durante i picchi influenzali degli anni passati, i posti letto negli ospedali e le terapie intensive furono tagliati per il sacro ed inviolabile principio del pareggio di bilancio. È altresì loro massima responsabilità se i pronto soccorso versano ancor oggi in condizioni disastrose, se un anziano rimane infreddolito e sofferente su una barella avvolto da una coperta raggrinzita per giorni, se le strutture ospedaliere sono decadenti e fatiscenti. È a causa dei camici bianchi “novax” se la medicina di base è praticamente paralizzata e protocollare, se dovete attendere mesi e mesi per una visita od un esame a carico del sistema sanitario nazionale ma intra moenia è subito disponibile, se il privato sta soverchiando il pubblico e può curarsi solo chi ha i soldi per farlo. È colpa dei medici non benedetti se l'autorità ha mentito senza pudore alcuno, se il lasciapassare è uno strumento di ricatto che nulla ha a che fare col bene comune, se le case farmaceutiche con una "pandemia" in essere sono quotate nel mercato del capitale di rischio e speculano sulla nostra salute, se vi siete "contagiati" nonostante 3 o 4 dosi di siero. D'altronde, come credere ad un uomo di scienza che non ha fede nella scienza stessa? Come fidarsi di un "dottore" che ritiene che un farmaco sperimentale non sia somministrabile erga omnes e magari ve ne sconsiglia l'utilizzo? Perché stare a sentire chi ha dei dubbi, chi preferisce un approccio diverso alla professione medica, chi non è dogmatico, chi ha pagato sulla propria pelle le conseguenze delle sue scelte, chi ha avuto coraggio, chi antepone l'etica al conflitto d'interessi, chi ha dato rilevanza e sacralità al principio dell'habeas corpus?

Accusare senza prove, incitare all'odio, etichettare, volgarizzare e semplificare il dibattito è oramai la specialità della casa di chi ha deciso di continuare a trascinare questa storia e questo delirio oltre le colonne d'Ercole del sopportabile. Sta a noi recuperare il contatto con la realtà, giorno dopo giorno, sino alla completa depurazione. Guardare alla loro miseria e povertà di spirito deve donarci orgoglio e forza per continuare a lottare nel quotidiano ed affrontare, con rinnovato vigore, le sfide infinite che la vita ci pone, con fermezza e coraggio.

Semper adamas.




Critica al progressismo - G.Sermonti

Se il secolo XX avrà un'insegna nella storia futura, essa sarà quella del “progresso” perché mai nessun secolo vide, e probabilmente vedrà, tante trasformazioni tecniche quante il nostro. Queste grandi trasformazioni avrebbero dovuto porre l'uomo in crisi di fronte al problema morale, politico ed estetico del significato e del valore dei cambiamenti in atto; sono state invece accolte con disarmato ottimismo e qualificate genericamente come avanzamento, come progresso, come crescita. Il più grande successo del progresso tecnico è stato per l'appunto quello di essere riuscito ad assorbire, o quanto meno ad attutire, tutte le crisi che esso ha generato, di essere riuscito a dimostrare che anche la parte nociva che produceva risultava a suo vantaggio, o perché era convertibile in applicazioni benefiche (vedi l'utilizzazione dell'energia atomica per la produzione di elettricità), o perché, rappresentando un pericolo, rendeva ancor più imperativo un ulteriore progresso che servisse a neutralizzarlo (vedi l'uso dei tranquillanti per superare gli effetti nocivi della vita moderna sul sistema nervoso) .

I danni del progresso sono serviti soprattutto a trasferire l'attenzione dell'uomo verso i correttivi e i palliativi, e ad allontanarla dal problema principale che il progresso avrebbe dovuto porre, cioè quello del suo senso, del suo “bene”. (...)

Nell'idea di progresso è sempre presente l'aspirazione a rendere più semplici, più efficienti, insomma “più razionali gli strumenti per ottenere un risultato, che era già conseguito prima, ma in maniera involuta e inadeguata.  La razionalizzazione risulta in ultima analisi un affrancamento da qualcosa di molesto o quanto meno di superfluo che ci ha proibito sinora la via più semplice per giungere allo scopo, tenendoci in una condizione di “repressione” di fronte alle nostre aspirazioni. Ma come spiegare storicamente il fatto che davanti a una finalità elementare da raggiungere l'uomo si sia smarrito in tortuosi labirinti e inutili complicazioni? La spiegazione che viene fornita è in genere questa: che alla finalità elementare si sono sovrapposti interessi oscuri che hanno deviato a loro profitto la spinta dell'uomo semplice verso la sua meta. Questi falsi scopi, queste finalità riposte complicano il semplice itinerario che l'uomo altrimenti percorrerebbe verso il suo paradiso. Bisognerebbe poter dimostrare, per sostenere questa tesi, che l'irrazionalità sia stata una deviazione della razionalità, una sua produzione secondaria. Io non so se ciò possa essere dimostrato, ma a me sembra comunque legittimo avanzare un'ipotesi diversa: e cioè che nel comportamento non razionalizzato ciò che è complesso non è il procedimento per raggiungere lo scopo, ma lo scopo stesso.

Scrive H.D. Thoreau : “Le nostre invenzioni sono…solo dei mezzi progrediti diretti a un fine troppo facile da conseguirsi”. La “razionalizzazione” non farebbe che sfoltire un universo di motivazioni per ridurlo a uno scopo solo, che inizialmente poteva non avere nel complesso che un valore collaterale, sussidiario. Lo scopo residuo non è quello primario, ma semplicemente quello che tecnicamente riusciamo a realizzare meglio, e che appare primario proprio perché è quello più a portata di mano. Scrive al riguardo R.S. Morison: “Per i nostri fini la parola chiave è razionalizzare. In verità i nostri sistemi razionalizzati sembrano aver sviluppato la capacità di vivere di vita autonoma, così che gli uomini qualunque sono forzati, contro la loro volontà, a seguire gli sviluppi di un processo logico… La professione medica segue le orme del suo dinamico programma di ricerca e si accinge a compiere i trapianti cardiaci, con grande dispendio, soprattutto perché ha trovato come farli. 

Noi “razionalizziamo” quindi spesso le nostre pratiche escludendo dalle nostre finalità tutto ciò che in esse vi è di meno accessibile e indichiamo come unico scopo ciò che ci è possi- bile ottenere più direttamente. Questo ci dà la sensazione di essere sempre più efficienti, ma impoverisce progressivamente i nostri fini. Al limite rischia di far sorgere in noi una profonda ostilità per quei fini che non siano chiarissimi, per ogni alta finalità, per ogni finalismo.

Prendiamo ad esempio la storia della “casa”. Ad essa attribuiamo come unico fine razionale quello di fornirci rifugio e conforto, al minor costo possibile. Ma è questo lo scopo originario della casa? “Ogni nuova casa che si costruisce”, scrive Mircea Eliade, “imita ancora una volta, e in certo senso ripete, la Creazione del Mondo…Come la città è sempre una imago mundi, così la casa è un microcosmo. La soglia separa i due spazi, il focolare è assimilato al centro del mondo…Ogni abitazione, mediante il paradosso della consacrazione dello spazio e mediante il rito della costruzione, è trasformata in un centro, e quindi tutte le case – come tutti i templi, i palazzi, le città - sono situate in un solo e medesimo punto comune, il Centro dell'Universo”. Questa finalità cosmogonica della casa, questa necessità rituale nella sua costruzione non sono motivazioni aggiunte e sovrapposte a una finalità originaria pratica e razionale. Sono motivazioni genuine e primarie. Non sono sovrastrutture che nascondono interessi estranei, anche se, in una condizione di degradazione dei significati e dei riti, qualcuno può aver sfruttato questa esigenza primaria attribuendosi il diritto esclusivo di fabbricare e vendere Centri di Universo e Creazioni del Mondo.

L'architetto razionalista tende ad attribuire alla casa una funzione immediata e quindi, in definitiva, “animale”, di rifugio e protezione dalle avversità. Eppure, salvo rare eccezioni, gli animali, e particolarmente i mammiferi e i primati, non si costruiscono alcuna abitazione. La spiegazione “protettiva” della casa fornisce quindi verosimilmente una ragione secondaria e accessoria. Si può ipotizzare che l'uomo abbia dapprima inteso la fondazione della sua dimora come delimitazione di uno spazio, con significato rituale-religioso. Egli si è trovato poi di fronte all'esigenza di difendere quel territorio, più che se stesso, di proteggere un contorno che definiva il suo mondo, più che proteggere la propria persona. La protezione personale resta quindi come una motivazione forse necessaria, ma insufficiente, e storicamente secondaria e inadeguata a giustificare la casa in tutte le sue strutture e nelle sue dimensioni Le ragioni originarie della costruzione della casa sono realmente scomparse, o sono state solamente messe da parte dall'assolutismo razionalista che ha adottato motivazioni “animali” (o estetizzanti) come esclusivo criterio di valutazione e di progresso? In questa seconda ipotesi il costo del progresso sarebbe una costante perdita di significati, e la casa razionalizzata assolverebbe solo a una funzione accessoria, privandosi di quei valori che ne avevano motivata la fondazione.

Considerazioni analoghe possiamo fare riguardo alla trasformazione più importante che si è verificata nella preistoria umana, cioè al passaggio dalla vita nomade dei cacciatori e dei pastori all'insediamento stabile degli agricoltori. In termini di progresso quantitativo si può dire che la nascita dell'agricoltura ha permesso un aumento grandissimo di risorse alimentari e una conseguente crescita della popolazione. Ma sono questi gli apporti più rilevanti che l'origine dell'agricoltura ha portato alla civiltà umana?

“Il destino dell'umanità”, scrive Mircea Eliade, “non fu deciso né dall'aumento di popolazione né dalla sovralimentazione, bensì dalla teoria che l'uomo elaborò scoprendo l'agricoltura. Quel che egli ha veduto nei cereali, quel che ha imparato da questo contatto, quel che ha inteso dall'esempio dei semi che prendono la loro forma sottoterra, tutto questo rappresentò la lezione decisiva. L'agricoltura ha rivelato all'uomo l'unità fondamentale della vita organica. Tanto l'analogia donna-campo, atto generatore- semina, ecc., quanto le più importanti sintesi mentali uscirono da questa rivelazione: la vita ritmica, la morte intesa come regressione, ecc. Queste sintesi mentali sono state essenziali per l 'evoluzione dell'umanità e furono possibili soltanto dopo la scoperta dell'agricoltura… Per l'uomo primitivo, l'agricoltura, come ogni altra attività essenziale, non è una semplice tecnica profana. Essendo in relazione con la vita e ricercando l'accrescimento prodigioso della vita presente nei semi, nei solchi, nella pioggia e nei geni della vegetazione, l'agricoltura è soprattutto un rituale… L'agricoltore penetra e si integra in una zona ricca di sacro; i suoi gesti, il suo lavoro sono responsabili di conseguenze importantissime, perché si compiono entro un ciclo cosmico, e l'anno, le stagioni, l'estate e l'inverno, il periodo delle semine e quello del raccolto, fortificano le proprie strutture e prendono ciascuno un suo valore autonomo”.

La rappresentazione progressista della civiltà coglie nell'agricoltura solo il valore alimentare: la terra è concepita come fonte di produzione di sostanze nutritive e in definitiva di frutti economici. Il lavoro agricolo appare come rozza fatica e sfruttamento servile. La macchina entra nei campi e aumenta la produzione riducendo la fatica. Gli uomini abbandonano il luogo dello sfruttamento e si portano nella città, dove sono destinati i prodotti della terra che qui vengono consumati e goduti. Ridotta a tecnica profana, l'agricoltura non è che un'industria sporca di terra ed esposta alle intemperie e alle incertezze del tempo. Il progresso tecnologico dell'agricoltura e la nuova esplosione demografica hanno lasciato da parte come pregiudizi e superstizioni tutti i valori, le analogie, le teorie, i ritmi, che rappresentano – secondo Eliade - il contributo più fondamentale dell'agricoltura alla civiltà umana. Essi sono stati abbandonati semplicemente perché estranei a una visione economico-razionale della realtà. Si obietterà che le “lezioni” dell'agricoltura preistorica sono state acquisite dalla scienza, che ha rivelato analogie e leggi ben più precise e ampie di quelle della esperienza religiosa primitiva. Ma queste nozioni sono divenute un corpo astratto, un fatto di erudizione avulso dalla vita, e in particolare dalla vita dell'uomo semplice, che ha assimilato i ritmi, la logica, le teorie meccaniciste del mondo della produzione industriale. La trasformazione del mondo agricolo tradizionale nel mondo moderno è avvenuta ed è continuata sul filo di una giustificazione progressista che ha risolto l'intera realtà civile in termini di produzione e consumo.

L'uomo moderno non ha trovato una differente soluzione per i problemi esistenziali e morali posti dalla vita agricola, bensì ha semplicemente cambiato i suoi problemi, interessandosi principalmente a quelli che egli era in grado di risolvere, misurando la propria capacità nella misura in cui era capace di risolverli. La logica dello sviluppo economico moderno non è quella di cercare prodotti per i bisogni dell'uomo, ma quella di cercare bisogni umani per i propri prodotti. “In verità, si può mostrare”, scrive Morison, “che il moderno opulento consumatore è, in certo senso, vittima di desideri sintetici che sono creati, piuttosto che soddisfatti, dall'incremento di produzione”. L'insieme di questi desideri provocati e alimentati dalla produzione compone la fisionomia dell'uomo moderno, un essere altamente “razionale” perché desideroso proprio di quelle cose cui può razionalmente accedere.

Ogni nuova civiltà finisce col creare o scegliere i desideri umani, conferendo ad alcuni di essi una dignità superiore. Nella civiltà industriale avanzata non si è coscienti che questa creazione porta alla fondazione dell'uomo, e non ci si preoccupa di che cosa quest'uomo si avvii ad essere. L'uomo è considerato come una realtà biologica già data, da esaminare e analizzare così come si compie un'analisi biologica o un'indagine di mercato.

La dinamica dei processi economici offre all'uomo non solo il modo di soddisfare i suoi bisogni, ma anche teorie sull'esistenza, analogie e sintesi mentali sostitutive di quelle della civiltà agricola: essa ci fornisce la logica del profitto e dello sfruttamento, della domanda e dell'offerta, l'analogia vita-macchina, l 'equiparazione tempo-denaro, l'ideologia del successo e tutto un insieme di modelli mentali, di cui il più significativo è quello del progresso.

La critica che in sintesi si può rivolgere al progressismo è quella di aver adottato per l'uomo e per la società delle finalità accessorie, per la sola ragione di avere a disposizione i mezzi tecnici per realizzarle, e di avere - più o meno consapevolmente - individuato la vera fisionomia dell'uomo nella propensione a perseguire queste finalità. In pochi decenni l'uomo si trova in crisi proprio di fronte alle motivazioni di fondo, alle ragioni della vita sociale e della sua personale esistenza.

Fonte: tratto da "Il crepuscolo dello scientismo" di G.Sermonti (Rusconi editore)