Il potere odia la proprietà privata

I sistemi liberali occidentali hanno tutelato il diritto alla proprietà privata (che è un valore politico, prima che economico) finché essa poteva garantire privilegi e sfruttamento del debole, ma quando la forbice sociale diventa tale che la quasi totalità della ricchezza viene convogliata nelle casseforti di una ristrettissima élite e la povertà si avvia a diventare il minimo comun denominatore dell'intero tessuto sociale, allora la proprietà privata va abolita come norma e sancita come eccezione, per blindare i privilegi dei pochi e la dipendenza dei molti. Proprietà privata è sinonimo di autonomia e libertà. Il suo archetipo è un solido bastione difeso con le armi, o un confine da proteggere per la sicurezza di un popolo. Proprietà privata è, nell'esperienza comune, una casa dove custodire famiglia e trasmettere memoria e valori; dei risparmi che garantiscono progettualità e futuro; un mezzo che permette di spostarsi dove si desidera quando si desidera. E poi un pensiero proprio ed indipendente, un piacere che solo noi conosciamo, un'emozione o un ricordo che non desideriamo condividere. Il potere odia ogni margine di autonomia, ogni cono d'ombra, ogni momento di cui non può appropriarsi. Per questo moltiplica i punti di osservazione, costruisce diaframmi tecnologici tra il suddito e il mondo in modo da divenire i suoi occhi, suggerisce letture ed interpretazioni della realtà dissuadendo i punti di vista non funzionali al sistema. Desidera, insomma, la dipendenza e il controllo totali, ma per farlo in modo definitivo deve abbattere il bastione e violare il confine. Difendere, custodire, trasmettere.





La questione dell'astensionismo

 

Vale la pena tornare ancora una volta sulla questione dell'astensione dal voto, perchè recentemente abbiamo sentito di nuovo affermare da una nota voce della cosiddetta "area della resistenza" che chi si esprime (o si è espresso) contro il voto o è un "infiltrato", o è un "utile idiota". Questo perchè pensare di far crollare il sistema mediante l'astensione è un'ingenuità, mentre l'unica soluzione coerente è invece canalizzare tutto il malcontento verso l'attuale situazione politica per il voto verso forze "rivoluzionarie" organizzate in forma partitica, capaci di realizzare da dentro il sistema tutte quelle riforme che potrebbero cambiare l'attuale assetto di potere.
Cogliamo l'occasione per chiarire ancora una volta la nostra posizione in merito, non perchè ci interessino particolarmente le opinioni di chicchessia (soprattutto quando sono così grossolane), ma perchè in passato siamo stati chiamati in causa proprio da quegli ambienti come presunti promotori dell'astensionismo e quindi come "cattivi maestri", "infiltrati" o "utili idioti".

Concordiamo pienamente sul fatto che non votare non porti a nessun crollo del sistema: il sistema non è intaccato né dal voto nè dal non voto. Chi pensi che non votare possa portare a un cambio di regime è di certo un ingenuo, anche perchè si scontrerà sempre con quelle masse organizzate di votanti che sono le basi militanti dei partiti, le quali esisteranno finché esisterà il sistema partitico. Non concordiamo, invece, sul fatto che i motivi per cui non si vota siano esclusivamente l'idea di favorire il crollo del sistema, o la sfiducia nella politica, o il volontario sabotaggio di un'area o un soggetto politico (come se recuperati i voti degli astenuti, questi potessero essere sicuramente e automaticamente capitalizzati a proprio vantaggio, cosa tutta da verificare).

Altrettanto problematica è l'affermazione che esista la possibilità di un'autentica "rivoluzione" che passi attraverso la via riformista. Una riforma del sistema non è una "rivoluzione": è una possibilità che il sistema contempla e di cui ha congeniti tutti gli anticorpi necessari affinché non degeneri nella dissoluzione del sistema stesso. Quindi parlare di "rivoluzione" riformista è una pura forma retorica: nessun cambiamento radicale può avvenire per via parlamentare, semmai un suo raddrizzamento, o una sua moralizzazione, o un ripristino della regolare prassi democratica. Nessuna di queste possibilità è tuttavia "rivoluzionaria", ma a favore del sistema e per una sua normalizzazione.

La nostra posizione non è in alcun modo assimilabile a nessuna delle possibilità citate. È facilmente verificabile che in ogni occasione elettorale essa non è cambiata: non è nata con le ultime elezioni e pertanto non ha relazioni con il dibattito recente ed esso non l'ha spostata di un millimetro. Non nasce da alcun calcolo politico, né si prefigge alcun risultato sul campo elettorale; non dà alcuna speranza infondata (che, tra l'altro, nessuno può dare) e non pretende di essere la soluzione giusta per tutti. Non l'abbiamo mai promossa invitando qualcuno a non votare, ma anzi, abbiamo invitato a votare chiunque si riconosca nel sistema parlamentare, non tacendo tuttavia quelle che sono le nostre riserve sul rito elettorale e sul sistema parlamentare/rappresentativo. Non votare è semplicemente l'unica risultante che può scaturire dai nostri principi e dalle assunzioni che riteniamo valide.
La nostra posizione nasce da una radicale messa in discussione del sistema stesso: è quindi indifferente alle vicende della piccola politica. È una scelta politica responsabile non perchè riteniamo produca un effetto calcolato e favorevole rispetto agli equilibri parlamentari, ma perchè esprime una visione politica coerente e meditata, che in sostanza è il rifiuto di partecipare al meccanismo parlamentare e rappresentativo. Chi rifiuta in toto la visione politica liberale e moderna semplicemente rifiuta il suo calendario e i suoi riti. Non c'è nulla da riformare: il sistema riformato è ancora il sistema.

Finchè desidereremo perseverare in questa forma d'ordine non ci sarà alcuna rivoluzione autentica, ma solo la riproduzione delle medesime logore dinamiche che, dal nostro punto di vista, non sono accidentali, ma costitutive e logicamente conseguenti ai presupposti del sistema stesso. È partendo dalla costruzione di una visione del mondo realmente antagonista che si può costruire il cambiamento, non su un'attività politica, per quanto genuina e retta dalle migliori intenzioni, improntata a redimire la piccola, vecchia, stanca politica. È per questo motivo che secondo noi la battaglia è prima di tutto - ed essenzialmente - culturale.

Chi considera sé e il proprio entourage l'élite culturale dell' "area della resistenza" dovrebbe avere chiara cognizione del fatto che la critica strutturale (e non contingente o storica) del sistema parlamentare/rappresentativo ha una lunga e autorevole tradizione filosofica e politologica, la quale non può essere semplicemente liquidata come confusione elettorale, e che i suoi esponenti più insigni sono ben più credibili e hanno uno spessore intellettuale ben più consistente di qualsiasi odierno intellettuale di provincia che pretenda di sbarazzarsene con le solite etichette di comodo. Se si esclude dalle possibilità del non voto l'adesione a tale orizzonte del pensiero critico, o lo si ignora, e allora consigliamo di rivedere la autoelezione al ruolo di élite culturale, o lo si tace per deliberatamente, e in questo caso non si è in buona fede, volendo dimostrare che non esiste alcuna ragione coerente e sensata per sottrarsi alla liturgia elettorale.

Piuttosto che etichettare gli astensionisti come gentaglia o idioti, sarebbe utile a chi cerca appoggio e voti prima di tutto il concentrarsi nel convincere i titubanti (non di certo noi) dando prova che esista realmente un'alternativa politica nella politica, cosa che è ancora lungi dall'essere dimostrata, visto che a partire dalle ultime elezioni non abbiamo visto altro che il costante ripetersi delle solite consunte e deprimenti lotte di potere e dinamiche di partito, il cui spettacolo è alla base della disaffezione e sfiducia della maggior parte del potenziale elettorato.



L'intelligenza umana è replicabile?

Si discute molto se l'intelligenza umana sia replicabile artificialmente o meno. La risposta è vincolata all'idea di intelligenza che si condivide. A partire dall'epoca moderna l'intelligenza è stata identificata essenzialmente nella razionalità, ossia nella capacità di calcolo ed elaborazione complessa di linguaggi simbolici. Fino alle soglie della modernità sopravvive, invece, anche una visione antica che riconosce all'uomo una facoltà di intelligenza sovraindividuale superiore a quella razionale, l'intelletto, la quale si basa sulla diretta appercezione dei principi metafisici mediante un atto accostabile analogicamente a quello sensibile (visione e gusto in primis). Cosa intendiamo dunque propriamente per intelligenza umana? La facoltà razionale o quella intellettuale? Mentre la facoltà razionale è replicabile mediante algoritmi, quella intellettuale è invece totalmente incompatibile con il modello computazionale. È a partire dalla riduzione moderna dell'uomo ad essere razionale privo della facoltà intellettuale che si è aperta la possibilità di concepire la replicazione sintetica dell'intelligenza, allo stesso modo che l'aver assimilato, sempre nella modernità, il corpo a una macchina in una visione essenzialmente materialistica e meccanicistica della natura, ha reso possibile l'idea dell'automa o dell'ibridazione uomo-macchina. Il transumanesimo si può combattere solo culturalmente, mediante il recupero di una visione integrale e tradizionale dell'essere umano che ne rivendichi le peculiarità e l'inassimilabilità a qualsiasi forma di riduzionismo moderno. La via politica, in assenza di una antropologia solida e tradizionale che la sostenga, è destinata a fallire: le lusinghe luciferine e prometeiche del sintetico e dell'inorganico, all'interno dell'orizzonte culturale che le ha espresse, sono irresistibili e potenzialmente invincibili.




La retorica della pace

 

1. La retorica della pace è stucchevole quanto quella della guerra. Si può avere pace solo dopo che si è avuta giustizia, altrimenti chiedere pace senza esigere giustizia è come voltarsi dall'altra parte di fronte a un crimine perché si preferisce non vederlo o far finta che non esista.

2. La guerra è un evento tragico ma, in un mondo pieno di ingiustizie, è inevitabile. Quando si combatte per riparare un torto, un crimine o un sopruso, non bisogna vergognarsene ma esserne fieri. Chi si vergogna di combattere è perchè è dalla parte sbagliata e lo sa.

3. Le grandi nazioni moderne non combattono per ideali, ma per i propri interessi. Ad esempio, combattere per la sicurezza nazionale è il legittimo interesse di una nazione, mentre combattere per la libertà, la democrazia o i diritti di un altro paese è una favola. In altre parole in questo contesto non esistono ideali, ma eventualmente interessi inconfessabili.

4. La guerra comporta delle responsabilità. Per prima è che si assumano i rischi delle proprie scelte combattendo in prima persona. La seconda è che se ne paghino le conseguenze in caso di sconfitta. La terza è che si abbia rispetto del proprio nemico, combattendo in modo leale e riconoscendogli comunque dignità e diritto.

5. Dal momento che oggi si combatte per lo più per motivi che si ha vergogna di dichiarare, e lo si fa in modo sleale e irresponsabile, senza onore e senza rispetto non solo del nemico, ma spesso neppure degli alleati, la guerra è diventata una cosa sporca e odiosa, forse addirittura peggiore di tutti i torti che si vorrebbero raddrizzare.