2023, l'anno della caduta delle maschere

Vogliamo ricordare il 2023 come l'anno della caduta delle maschere.

La prima, la più clamorosa, è quella che si è staccata dal volto delle democrazie occidentali allorché hanno accordato pieno appoggio alla strage di civili palestinesi ad opera di Israele. Il cinismo di Israele è il cinismo dell'Occidente stesso, che per i propri scopi non arretra neppure di fronte al genocidio e alla pulizia etnica, dimostrando la malafede di chi per decenni si è riempito la bocca di condanne rivolte al male assoluto, salvo poi macchiarsi di crimini altrettanto raccapriccianti senza un attimo di indecisione. Come nel caso dell'Ucraina, l'Occidente si servirà del fanatismo nazionalista israeliano fintanto che questo sarà utile al suo progetto di riequilibrio degli assetti globali, salvo poi scaricare il partner senza troppi scrupoli quando questi avrà esaurito il proprio ruolo sulla scacchiera geopolitica, probabilmente dopo il disastro o il collasso.

È il caso dell'Ucraina, nazione che dopo essere stata sedotta dall'Occidente e inviata al massacro carica di armi e promesse, è ormai un rottame che manda al fronte bambini e disabili e che si sostiene esclusivamente grazie ad aiuti Occidentali, che oggi sono sempre più dubbi e discussi. Lo scopo primario della guerra in Ucraina, ossia il proposito di Stati Uniti di minare ogni presupposto di solidarietà tra Russia ed Europa, può essere considerato in gran parte raggiunto, con un processo di deindustrializzazione dell'area EU in costante crescita e un'economia sempre più precaria. Oggi che l'impossibilità di vincere la Russia viene dichiarata anche dagli organi di informazione generalisti, gli scopi e i frutti di questa guerra sono palesi a chiunque. Può dunque cadere anche quest'altra maschera: non tanto quella della sconfitta ucraina, che era palese a chiunque non fosse annebbiato dall'ideologia, ma quella della menzogna di chi ha promesso vittoria ad oltranza e ora si accontenta di ipotesi di negoziato e di contenimento dei danni.

Cade quindi la maschera dal volto della stampa, che oggi dubita delle certezze di ieri, e delle personalità in maglia verde che pochi mesi fa incensava e che oggi si scoprono non troppo limpide e non troppo democratiche. Cade pure la maschera dal volto del governo, sorpreso a dichiarare la propria stanchezza nei confronti di un conflitto che si sa di non poter vincere, ma da cui non ci si può sottrarre. A proposito, tra quanto cadrà pure la maschera dell'ostilità al MES, visto che il più sovranista dei governi italiani si è rivelato essere il più prono ai dettami europei e alle sue grottesche icone? Ricordiamo en passant la commedia della critica di Meloni a Draghi, e l'epilogo comico di chiarimenti e smentite.

Cade la maschera dal volto della Chiesa, che con l'ultima apertura alle benedizioni delle unioni omosessuali dichiara esplicitamente (e non più equivocamente) la propria vocazione antitradizionale, modernista e – in definitiva – anticattolica. Di fronte a questa presa di posizione appare esplicita la volontà non tanto di adeguarsi allo spirito dei tempi, ma di farsi promotrice dello spirito medesimo, di esserne un centro di propagazione. Ognuno, di fronte a questo punto di non ritorno, faccia le proprie valutazioni: quel che è certo che non se ne possono più ignorare la portata e le conseguenze. Del resto, che la furia del progressismo più virulento spiri da tutti i fronti, è apparso in maniera palese dalla vomitevole strumentalizzazione ideologica di recenti fatti di sangue di cui molto si è parlato. Su tali episodi sarebbe opportuno soprassedere se tuttavia non fossero un indicatore sociale particolarmente significativo in merito a come le masse siano facilmente suggestionabili e manipolabili a partire da particolari stati emotivi collettivi, che possono essere opportunamente indotti a partire da efficaci campagne di comunicazione pianificate e coordinate. In questo caso penoso, cade la maschera di dolore dal volto della collettività, per mostrare la nuova incarnazione dell'odio di classe, della discriminazione sociale, dell'interesse di chi vuole una società divisa e avversaria nella sua radice più intima ed essenziale: quella della famiglia, degli affetti, della relazione tra i sessi.

Cade infine la maschera dal volto deluso del fronte del dissenso. Il 2023 è stato un altro anno di faide, di conflitti, di defezioni, di calunnie, tutti interni all'ambiente di chi vorrebbe rappresentare verità e giustizia, e spesso non incarna altro che se stesso, il proprio interesse e la propria egocentricità. Inutile rilevare la lunga teoria di contraddizioni, miserie e assurdità che caratterizza questo ambiente e che non smetteremo di denunciare, proprio perché, essendone parte, fanno da specchio a ciò che non vogliamo essere e a ciò che consideriamo i più grandi pericoli per chi persegue un ideale di verità e giustizia.




L' accoglienza indifferente

Oltremodo paradossale, al giorno d'oggi, è il concetto di "accoglienza". Sciorinato sguaiatamente, senza soluzione di continuità, dai maggiori organi d'informazione nostrani e sventolato, come falso vessillo di solidarietà, da pseudo intellettuali da salotto, buonisti e sinistri vari, tale cortocircuito alberga indisturbato tra gli argomenti prediletti di quella branca di popolazione che si vuole sentire a tutti i costi dalla parte dei giusti, dei civili, degli equi, dei moderati. Paradigmatico, in tal senso, è il periodo natalizio. Mentre, infatti, i più si affannano alla ricerca del regalo ideale da mettere sotto l'albero ed organizzano cene e pranzi familiari, nell' indifferenza generale, soggetti sradicati e smarriti errano raminghi nei centri storici e nelle periferie delle grandi città, manifestando disagio, colonizzando abusivamente intere aree urbane, arrangiandosi alla meglio per sopravvivere, totalmente avulsi dal contesto circostante, con nessuna voglia di integrarsi con una cultura ed una società totalmente distante dal loro modo di vivere e pensare. È questa, forse, la tanto sbandierata accoglienza? Qui risiede la tanto decantata integrazione? Così, mentre chi ha spento da tempo il cervello si accontenta, da un lato, della melassa appiccicosa propinata dalla propaganda globalista e dall'altro di finte beghe e proclami sovranisti, la "disintegrazione" dei popoli va avanti indisturbata, sotto le mentite spoglie della "solidarietà" e dell’ "uguaglianza", senza che nessuno alzi realmente la voce, per paura d'esser appellato come fascista o tacciato di "razzismo".

" Ma noi siamo talmente toccati
Da chi sta soffrendo
Ci fa orrore la fame, la guerra
Le ingiustizie del mondo
Come è bello occuparsi dei dolori
Di tanta, tanta gente
Dal momento che in fondo
Non ce ne frega niente" ( G. Gaber)




Georg Trakl, tra tormenti e intuizioni

Georg Trakl è stato un Poeta austriaco che solo da pochi lustri ha avuto visibilità in Italia.

“Il singolo, nella società moderna si isola perché preferisce essere dissoluto anziché inautentico. Io anticipo le catastrofi mondiali, non prendo partito, non sono un rivoluzionario. Sono il partito della mia epoca e non ho altra scelta se non il dolore”.

Bastano queste poche frasi per presentare Georg Trakl, forse uno dei più grandi poeti di lingua tedesca del Novecento, autore apocalittico che visse durante l’angosciosa vigilia della Grande Guerra, apparentemente lontano dalla nostra epoca ma terribilmente attuale.

Agli occhi dei pochi che in Italia si sono accostati alle sue poesie, è parso di scorgere le stesse linee dei poeti maledetti francesi ma è l’epilogo della sua vita che ha fatto assumere alla sua poetica un contorno più tragico e più viscerale.

La sua fu un’esistenza tormentata e breve, consumata da una misantropia estrema, spesa nell’esaltazione di una natura misteriosa e sconosciuta.

Come un personaggio di Dostoevskij, Trakl si sentiva perseguitato da una colpa innominabile, sofferente in una società che reputava inadeguata, consumato dal bisogno di alcool e stupefacenti, ossessionato da visioni di decadenza e dall’ incapacità di vivere.

Trakl è difficilmente etichettabile, collocarlo in un movimento letterario sarebbe riduttivo, così come risulterebbe arduo il tentativo di dare alla poesia del poeta austriaco un’interpretazione esaustiva e definitiva.

L’opera di Trakl ha una dimensione esistenziale, le sue liriche erano una esemplare espressione della crisi epocale della cultura occidentale agli inizi del Novecento. Una crisi che in Trakl non trovava risposte ma solo domande. Domande che si esplicavano in un linguaggio inadeguato a tracciare i contorni dell’esistenza e del suo senso.

L’uomo che scaturisce dalle liriche di Trakl è un viandante, un essere che cerca di tendere al suo luogo originario. Ormai perduto e lontano, di lui resta solo un ricordo sbiadito. Uno straniero alla ricerca di un proprio centro interiore, smarrito da una modernità ormai incombente.

Lo straniero a volte assume anche le sembianze del folle, colui che è in grado di allontanarsi dalla realtà quotidiana e di compenetrare o cercare almeno di interpretare la verità tramite le manifestazioni della natura. In una continua oscillazione tra visioni di caduta e resurrezione e immagini di idilliaco accordo tra uomo e natura.

Per Trakl l’uomo contemporaneo, vista l’impossibilità di superare la crisi di significati e di valori, avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di percorrere l’avventura del nichilismo sino in fondo, pagandone anche le estreme conseguenze. Trakl difatti si suicidò nel novembre del 1914.

La sua poetica vive nella luce incerta del crepuscolo ma anche dell’aurora, sospesa tra fine ed inizio in un linguaggio visionario e lacerato.

Al centro troviamo l’uomo solo che si aggira in un mondo di brutture, di inganni e di disvalori, sempre alla ricerca di una luce negata.

In un mondo dove “Dio è morto” leggere Trakl significa chiedersi se il tramonto che investe la storia e di conseguenza l’esistenza individuale, significhi uno spegnersi definitivo o un buio che si deve attraversare per giungere ad una nuova alba.



                                                   OC

Apolidi della Verità - Weltanschauung Italia

E' disponibile il nostro nuovo libro “Apolidi della Verità”.

Apolide è colui che, per circostanza o per scelta, non possiede cittadinanza alcuna.

L'Apolide della Verità è colui che, nell'aspirazione all'autenticità, rinuncia alla propria patria ideologica e si mette in cammino. Senza una cittadinanza ideologica, per rinuncia o necessità, egli si incammina deciso in direzione del Sole, attraversando metropoli d'idee consunte e in rovina, tra cadaveri di finti maestri, presso vestigia di ciò che è stato ed è naturale non torni.

Poche cose reca con sé, solo l'essenziale. Egli, infatti, può essere definito anche come l'uomo residuale.

L'espressione indica colui che è portatore di ciò che rimane dell'essere umano in senso proprio, dopo che l'epoca dell'umano ha ceduto il passo a quella dell'inumano. Egli è il custode di ciò che nell'uomo non può essere ulteriormente ridotto, il non negoziabile, quanto non può essere oggetto di compromesso, pena la perdita dell'umanità.

Buona lettura a chi vorrà leggerci.

LINK ACQUISTO

LINK ACQUISTO 2

WI




Come nasce il senso religioso? - G. Rensi

Vuoi sapere quale e l'indizio che il senso veramente religioso abbia cominciato a prendere radice in te? Quando tutte le cose in cui, dacché hai aperto gli occhi, si svolse e fu intrecciata la tua vita, ad esempio le forme d'abitazione, case, stanze, appartamenti, natura e distribuzione dei mobili; i mezzi di locomozione, ferrovie, automobili, tram; la foggia dei vestiti e le particolarità dell'abbigliamento; le istituzioni politiche e i rapporti e le concessioni sociali di qualunque genere che constati esistenti sulla terra; la forma dei concetti nella mente umana, il modo con cui questa li concatena, cioè la natura del pensiero nostro, il sistema con cui sulla terra si pensa; la maniera di comunicazione degli uomini fra loro con la parola parlata o scritta; persino la costruzione, il funzionamento e i bisogni del tuo stesso corpo: persino il sorgere e il tramontare del sole – quando tutte queste cose familiari a te, tue proprie, connaturate con te e con la tua mentalità, cose che sono ovviamente cosi come sono, che è naturale siano cosi; quando, improvvisamente, tutte queste cose ti susciteranno un senso di stupita curiosità, come se fossero gli usi e i costumi d'un remoto villaggio dell'Estremo Oriente o dell'Africa centrale dove ora per la prima volta ti accade di passare; quando percependo quelle cose a te familiari sin dall'infanzia ti sentirai interiormente spuntare l'esclamazione:

ma che cose singolari! ma che stranezze! che curiose consuetudini dominano qui! in quali particolarissime abitudini e modi di vita e d'essere questa regione dell'universo si è intricata!; – quando, ancora, scuole, esami, concorsi, impieghi, professioni, carriere ti faranno pensare: 

ma in quali strani stampi viene racchiuso lo spirito qui!; – quando ti sentirai sorgere questi pensieri, avrai in ciò un indizio che il senso religioso comincia a vigoreggiarti dentro. Da questi pensieri ti scaturisce l'oscuro ed enigmatico sentore che ciò che in te fu per cinquanta o settant'anni spettatore di tutte quelle cose, a te sinora cosi familiari, cosi tue, non è di questo paese sublunare, paese che tu attraversi come un forestiero, come se attraversassi curiosamente un villaggio orientale o africano; ma e di un altro paese, d'un'altra patria. Quale? Questo ti è assolutamente oscuro, perchè, tanto è l'interesse che hai preso agli usi e costumi del paese sublunare in cui ti è avvenuto di passare e soggiornare per cinquanta o ottant'anni, tanto di quegli usi e costumi ti sei impregnato, che quale sia il tuo paese te lo sei dimenticato e non ti è restata che l'incerta e nubilosa impressione che esso non è questo.


Tratto da "Lettere spirituali" di G.Rensi



Il vecchio contadino

Il vecchio contadino, dalla collina, osservava malinconico il tramonto. Un tiepido sole, che pareva quasi esser ingoiato dalla città sottostante, risplendeva ancora sulle rughe del suo viso arrossato, rendendole così profonde da sembrare solchi scavati nella terra stessa, così marcate da esser manifesto pulsante di vita vera e vissuta. 

Era un uomo onesto e semplice, il vecchio contadino, ed era proprio per questo che non si trovava più a suo agio nel mondo. Non sopportava la viltà, la menzogna, i voltagabbana, l'ambiguità di un sistema "democraticamente" coercitivo, la distruzione sistematica d'ogni identità, l'omicidio premeditato della logica e del buonsenso, la sepoltura, nei meandri polverosi del nuovo mercato, delle arti, del folklore, dei mestieri. Non tollerava, sopra ogni cosa, l'uguaglianza funzionale all' annientamento, la mortificazione dei più giovani, la guerra travestita da pace, l'assenza di spirito critico. Era uno all'antica il vecchio contadino. Suo malgrado, infatti, credeva ancora nell'esistenza dell'uomo e della donna, nella sacralità della promessa fatta, nella forza e nella concretezza delle braccia, nella stretta di mano che vale come un contratto, nell'atto di volontà, nell'azione che, come un tumultuoso fiume in piena, sbaraglia i fragili argini delle parole vuote e degli inutili sproloqui da salotto. Osservava ancora il tramonto dalla collina, il vecchio contadino, abbozzando stavolta uno strano sorriso. Percepiva infatti, con estrema chiarezza, che lo spettacolo che si stagliava dinnanzi ai suoi occhi stanchi non era soltanto il volgere al termine della giornata, bensì il crepuscolo di un'intera civiltà. Promise a sé stesso, in quel preciso momento, stringendo con forza il bicchiere di vino che teneva saldo tra le sue dita consunte dal lavoro nei campi, che sarebbe sempre rimasto saldo, fedele ai suoi principi, sino alla fine dei suoi giorni, marciando in direzione ostinata e contraria. 




Sospensione della Verità

Quando il dissenso rispetto ad una narrazione mainstrem si limita a essere solo una contronarrazione meramente contro, senza una riflessione profonda e completa, entriamo in uno stato di "sospensione della verità", dove cosa accade veramente non interessa più a nessuno, interessa solo un NOI contro LORO. Ed è lo stato attuale in cui ci troviamo. Si possono fare degli esempi concreti. 

1. I malori improvvisi anche in giovane età sono un problema serio, da indagare. Abbiamo la narrazione ufficiale che li minimizza, dice che ci sono sempre stati o li attribuisce alle cause più fantasiose e abbiamo un certo dissenso che strombazza qualunque malore non per porre domande, ma per affermare con certezza che muoiono solo i vaccinati, come se i non vaccinati fossero diventati immortali. Dove sta la verità? Altrove. Sta in uno spazio in cui si dovrebbe poter studiare seriamente, qualunque medico che si occupa di danni da vaccino ti dice che con i normali controlli di routine non arrivi a nulla, occorre andare a cercare cose specifiche per capire cosa accade e dove. Porre domande sui malori significa anche ampliare l'orizzonte angusto della medicina scientista e dogmatica verso paradigmi assolutamente scientifici, ma negati. Eppure tanti cosiddetti dissenzienti hanno una reazione di panico anche solo a sentire le parole "medicina quantistica" e vorrebbero una risposta dentro lo stesso angusto paradigma scientista che ha causato il problema. 

2. Un tragico fatto di cronaca viene strumentalizzato per fare propaganda e criminalizzare il maschio in quanto tale. Abbiamo da un lato una folla inferocita che sbatte il mostro in prima pagina e pretende che ogni uomo innocente chieda scusa perchè un assassino avrebbe ucciso la ex fidanzata e abbiamo una folla altrettanto inferocita a caccia di particolari morbosi per screditare la famiglia della vittima con ricostruzioni da film horror, perchè bisogna smontare la propaganda: non dire la verità, conta solo smontare la propaganda degli altri, a qualunque prezzo. Se per ipotesi il reo confesso fosse davvero colpevole, per assurdo preferirebbero un criminale libero piuttosto che darla vinta ai progressisti. Ma qui non salta solo la verità sul fatto concreto in sè, non c'è alcun interesse reale ad un'analisi profonda che riguarda tutti sulla violenza nella nostra società, sull'individualismo, sulla competizione esasperata, sulla fragilità. I progressisti strillano al patriarcato violento di ogni maschio, i conservatori prendono la posa dei bei tempi che furono quando gli uomini difendevano le donne, come se fosse mai esistito un "eldorado". Nè interessa realmente una riflessione dolorosa sulla fragilità dei nostri ragazzi, fragilità che porta a non tollerare nessuna delusione, fragilità di cui noi adulti siamo responsabili, perchè stava a noi formare uomini e non bambini con fattezze di adulti. Non interessa perchè dovremmo riconoscere che anche violentare la natura e le aspirazioni dei nostri figli perchè si pretende da loro un adeguamento al mondo e ai suoi dettami, può generare disastri e fragilità immani. Perchè le famiglie dove si pretende che il figlio accantoni una sincera vocazione giudicata poco vincente e remunerativa per soluzioni che garantiscono posizione e potere sociale, possono essere proprio quelle famiglie anaffettive che tanto ci scandalizzano, ma solo quando sono sbattute in televisione, non quando le abbiamo accanto nella vita quotidiana. C'è solo un NOI buono e un LORO cattivo, dove ognuno si sente parte del NOI. La verità, quello che accade davvero nella realtà, la volontà di costruire non esistono più. Conta solo dimostrare che l'altro è nel torto.

La costruzione di un mondo migliore non è mai un mero reazionario ritorno al passato, ma un'evoluzione nel solco della Tradizione.




Mishima, un eroe anti moderno

 

Yukio Mishima, nome d’arte di Kimitake Hiraoka, non fu un semplice scrittore. Chi non vive solo di compartimenti stagni, e non ha una visione edulcorata dell’arte, non può relegare in un angolo un percorso artistico così multidisciplinare, poliedrico e complesso.

Tutta la vita dell’autore giapponese è un tendere alla perfezione ed alla completezza. Un anelare alla bellezza, un tentativo di congiungere in un unico punto, elevato e splendente la sintesi tra “la penna e la spada”. In un equilibrio fragile ma accecante come appunto i fiori di ciliegio all’apice della fioritura.

Mishima fu scrittore, poeta, drammaturgo, attore, fu uomo coerente con la sua costante ricerca in ogni ambito in cui si cimentò. Una personalità totalizzante lo portò anno dopo anno, fino alla parte finale della sua esistenza terrena, alla continua riscoperta delle proprie radici, in un percorso a ritroso, un risalire il fiume della tradizione del Giappone oltraggiato e mortificato. Un Giappone svilito nella sua intimità dalle pesanti condizioni imposte dai “liberatori”. Il Giappone, forse l’ultimo baluardo contro la modernità, ridotto a “mera espressione geografica”, oltraggiato a dismisura. Un’antica nazione, una società organica, che basava la propria esistenza sul culto di un Imperatore come rappresentazione pura della Divinità, ridotta ad un cumulo di macerie spirituali. È questo l’aspetto di cui bisogna tener conto accostandosi, a poco più di 50 anni dalla sua morte, ad uno scrittore che sfiorò tre volte il premio Nobel per la letteratura. L’aspetto che deve risaltare al di là dei suoi innumerevoli capolavori, dei suoi tanti romanzi di successo che citare sarebbe solo esercizio pedante, è principalmente la sua storia esistenziale, tesa in modo ossessivo a forgiare uno spirito eroico ammantato da una profonda sensibilità. Chi si accosta a Mishima senza prendere in considerazione lo scambio continuo che c’è tra la sua vita e le caratteristiche dei suoi personaggi va fuori strada. Semplicemente perché tutto l’universo di Mishima si pone in una prospettiva ideale, complessa, che però fonda le sue radici sulla sua stessa vita quotidiana.

L’autore giapponese era un anti moderno, come lo fu Drieu La Rochelle, come lo fu Venner che condividono con lui lo stesso sentiero e la stessa tragica fine. La culminazione in un idealismo eroico che trasformò la propria vita in una poesia, in un esempio accecante, in una stella polare, in un richiamo ad un substrato da risvegliare, rivitalizzare, richiamare in vita. Disprezzando il presente (famosa la sua frase: “in nome del passato, abbasso il presente”), amando la perfezione fisica come emblema di quell’equilibrio con lo spirito, il sacrifico e l’abnegazione (il praticare il Kendo), la disciplina (la costituzione dell’Associazione dello Scudo) e per una restaurazione dell’uomo integrale che deve ricongiungersi ai e nei valori originari.

Un mito impolitico si potrà obiettare ma non è questo il punto. Il punto è essere capaci, per chi ne è in grado, di inseguire la Bellezza e la Perfezione in un mondo che preferisce preservare la carne e non curare lo spirito. Mishima può essere capito veramente solo da chi è avversario di questa epoca, da chi è davvero anti moderno e non da chi cerca solo un altro bel romanzo da leggere. Da chi non crede ai miti fallaci e fumosi della democrazia, alle sue prospettive piatte e banali, dalla svilente corsa al successo, dalla fangosa realtà del culto dell’apparenza e dall’idolatria dei feticci di plastica. Andando oltre, cercando la Morte, confrontandosi con essa per far cadere tutte le maschere che l’ipocrisia borghese impone.

Se proprio dovessimo consigliare dei romanzi di Mishima da leggere, senza dubbio consiglieremmo i quattro testi che compongono la tetralogia de “Il mare della fertilità”: “Neve di Primavera”, “Cavalli in fuga”, “Il tempio dell’alba” e “La decomposizione dell’angelo”.  Quattro libri, composti nella parte finale della sua vita, con trame diverse ma unite in continuum temporale che unisce alcune situazioni ed uno dei protagonisti. Quattro libri che si inseriscono in una storia vasta e complessa che altro non è che una metafora ficcante ed esauriente del senso della vita. Non a caso, l’ultimo dei quattro, “La decomposizione dell’angelo”, venne completato la notte del 24 novembre del 1970. L’ultima notte del più grande scrittore giapponese (e non solo) del Novecento, dell’uomo che poche ore dopo sarebbe diventato definitivamente l’ultimo, autentico samurai. L’uomo che divenne esattamente come Isao, il protagonista di “Cavalli in fuga” che nel togliersi egli stesso la vita, con l’antico rituale, sentì, nel momento estremo, il Sole che gli esplodeva dentro, dietro le sue pupille. Perché era lui stesso ad essere diventato pura luce. Quella mattina dell’ormai lontano 25 novembre del 1970 fu il momento in cui l’uomo Mishima divenne immortale e quel rituale fece diventare la sua vita un capolavoro.

Da qualche parte deve esistere un principio più elevato che riconcili l’Arte e la Vita. Poi ho intuito che quel principio era la Morte”.


      OC

Problema "patriarcato"?

Il messaggio che si sta facendo passare nel presente è che esiste un problema sociale legato a una generalizzata cultura della morte e della sopraffazione che riguarderebbe il maschio in quanto tale, e che andrebbe estirpata imponendo nuovi modelli di relazione tra i sessi e nuovi apparati legali destinati a proteggere la parte debole (in questo caso la questione di genere è accantonata in vista di una ben più definita generalizzazione biologica). I termini del discorso sono chiari e riguardano l'emergenza femminicidio.

Ora, basta un dato per far crollare questa tesi, che ha pretese sociologiche. Se anche il rapporto degli omicidi di donne da parte di uomini, rispetto a quelli dei maschi uccisi da donne, fosse di 10 a 1 (numero che da dati ISTAT stiamo di gran lunga sovrastimando), su una popolazione di 58000000 di abitanti, trattandosi di percentuali di almeno 4 zeri sotto lo zero, staremmo comunque parlando di fenomeni praticamente irrilevanti, che statisticamente hanno di fatto lo stesso peso, ossia nullo.

Da ciò se ne possono dedurre due cose: se ci si ostina a sostenere che esiste una cultura della morte e della sopraffazione maschile nei confronti della donna basandosi sul numero degli omicidi, essa riguarda anche la donna, visto che gli omicidi da lei commessi hanno la medesima rilevanza statistica. In realtà, ciò che dovrebbe essere dedotto è, invece, che se quella cultura che si intende attribuire al maschio esistesse in maniera generalizzata, su una popolazione maschile di almeno 27 milioni di persone, avremmo ben altri numeri.

Nulla toglie al dramma della morte iniqua di donne e uomini, ma teniamo bene a mente che dire che si tratta di casi unici ed eccezionali non ne minimizza la gravità, ma evita soltanto indebite e strumentali generalizzazioni.




Gli sciacalli mediatici a Palermo

Quel che stanno facendo i media con la ragazza vittima dello stupro di Palermo è indecente.

Prima l'hanno invitata su rete 4 in anonimo, poi lo ha fatto rai tre a volto scoperto per farle raccontare la sua esperienza.

La giustizia dovrà farà il suo corso e i ragazzi se hanno approfittato di una situazione in cui la ragazza non era consenziente verranno giustamente puniti, ma gli sciacalli mediatici devono starne fuori con i loro metodi comunicativi che condizionano i processi, manipolando l'opinione pubblica e narrando le cose a senso unico.

Questa ragazza andrebbe semplicemente aiutata non esposta, perché da quel che è emerso stiamo parlando di una giovane donna senza genitori che ha dei disordini affettivi che riversa su una sessualità provocatoria (ha denunciato anche altri abusi), sposando la cultura del degrado trap che viene propinata dal sistema. Basta guardare i suoi profili social per farsene una idea.

Invece fa più comodo andare di pancia, invitarla ovunque, dirle che deve essere se stessa e che i bruti vanno trucidati in piazza.

Insomma i soliti arruffoni, approfittatori mediatici in cerca di audience.

Se fossero davvero interessati alla ragazza dovrebbero tenerla lontano dai riflettori e aiutarla a trovare un equilibrio e una stabilità affettiva, solo così potrebbero realmente dare una mano ad una giovane donna con una vita difficile che ha subito uno stupro.




L'autonomia dell'Italia

Come sappiamo l’ Italia si è astenuta dalla risoluzione Onu che chiedeva un cessate il fuoco in Palestina. Le rappresentanze italiane presenti si sono giustificate per l'incompletezza del testo di risoluzione che non condannava gli attacchi terroristici di Hamas; lo stesso giochino della premessa messa in atto in periodo "pandemico" e successivamente nel conflitto in Ucraina, se non premetti non hai diritto di parola e non puoi accettare alcun tipo di proposta, anche se questa può salvare vite perché di fatto ti discosti dalla narrazione.

Ma mettiamo che avessero votato a favore, ciò avrebbe fatto la differenza rendendo possibile una tregua umanitaria?

Ovviamente no, il voto dell'Italia sarebbe contato poco visti i veti messi in atto da paesi più influenti. Inoltre sarebbe stata una brutta figura nei confronti del padrone USA, da evitare, a costo di permettere una carneficina.

È la solita illusione che ci portiamo dietro, ovvero quella di contare qualcosa, di essere una nazione forte, che ha superato a suon di lavoro le difficoltà del dopoguerra divenendo la quarta potenza industriale nel mondo. Sì, fino alla fine degli anni '80, seppur sempre legati ai padroni, avevamo una qualche importanza ma non è più così da trent'anni e ancora c'è gente che parla di decisioni sovrane sia a casa nostra che in politica estera. Non sono bastati gli ultimi esecutivi che hanno finanziato guerre, prodotto crisi economiche, ridotto la nazione a zerbino da tutti i punti di vista, per comprendere la questione? 

Cosa serve ancora per capire che non esistono decisioni autonome dell’Italia? Che chiunque salga al governo non può far altro che seguire diktat di enti sovranazionali? 

Dovrebbe essere palese a tutti la questione nel 2023. Invece non è così.




Giorgio Gaber e la cattiva divulgazione

Giorgio Gaber è stato un grande artista, con il suo teatro canzone, assieme a Sandro Luporini, ha saputo tratteggiare le contraddizioni dell’uomo postsessantottino ed è stato profetico in molte delle sue analisi.

Mai scontato, controcorrente, abbandonò presto la sua ordinaria carriera televisiva per cominciare a girare i teatri a partire dal 1970, sino alla fine degli anni ’90.

Riascoltare le sue stagioni teatrali, tenendo presente le questioni di attualità del periodo, è un’esperienza formativa, ci sono dei brani davvero straordinari, pensiamo a “Il cancro” a “Quando è moda è moda”, a “Il conformista”, a " La democrazia", a "l'America", a “Far finta di essere sani”, giusto per citarne qualcuno.

Non solo, stanco e malato a inizio nuovo millennio incise due dischi con brani memorabili che misero il timbro ad un fallimento generazionale, si pensi a “la razza in estinzione” o a “l’obeso”.

Non vogliamo però qui ripercorrere la carriera di Giorgio Gaber bensì far notare quanto accaduto attorno alla sua figura dopo la sua morte.

Qualche tempo dopo la sua dipartita sorse la “Fondazione Giorgio Gaber”, una organizzazione che aveva come obiettivo quello di divulgare l’opera del cantautore milanese.

Capitammo per caso a delle serate da loro organizzate dove venivano proiettate delle ricostruzioni della sua carriera e con nostra sorpresa notammo come si dava ampio spazio alla fase anni ’60 (davvero trascurabile) e poco spazio (e superficiale) a tutta la corposa opera teatrale a cui Gaber dedicò la propria esistenza.

Negli anni questa fondazione cominciò a organizzare anche dei festival a lui dedicati, gli invitati erano tutti personaggi di grande visibilità, da Laura Pausini, ad Arisa ad Emma. Il senso? Secondo tale fondazione, il fatto di portare grandi personaggi del mondo dello spettacolo dava visibilità all’opera di Gaber.

Peccato che il 90% di tali invitati non avesse la benchè minima attinenza con l’opera di Gaber-Luporini, ma questa è una visione settaria secondo costoro, bisogna divulgare Gaber!

E così negli anni si è continuato su questa scia, di Gaber oggi ne parlano Scanzi, Serra, lo cantano Mengoni e la cantante dei “La rappresentate di lista”.

Proprio ieri leggevamo un articolo in cui si organizza l’ennesimo evento su Gaber, ecco alcuni ospiti: Luigi Bersani, Claudio Bisio, Lorenzo Jovanotti Cherubini, Fabio Fazio.

Capite? Questa è la linea che va avanti da 20 anni. Un uomo che nella sua vita era fuggito dalle tv commerciali, abbandonando la facile carriera a cui era già ben avviato, per portare a teatro le sue riflessioni e le sue denunce, oggi è diventato una sorta di fenomeno da baraccone sui cui dibattere con le persone più conformiste in circolazione e da far canticchiare alle star di turno.

Un umile consiglio, se volete accostarvi all’opera di Giorgio Gaber acquistate i suoi dischi dal 1970 (Libertà obbligatoria) sino al 1998 (Un’idiozia conquistata a fatica), dopodichè ignorate tutto ciò che gli gira attorno, altrimenti vi ritroverete una immagine contraffatta mediata dalle parole di gente come Scanzi o Serra e la voce di un trapper dell’ultima ora.

Salvaguardiamo la memoria di Giorgio Gaber dal frastuono della cattiva divulgazione.


“Tu sei un ingenuo.
Tu credi che se un uomo ha un'idea nuova, geniale, abbia anche il dovere di divulgarla. Tu sei un ingenuo. Prima di tutto perché credi ancora alle idee geniali. Ma quel che é peggio, é che credi  all'effetto benefico dell'espansione della cultura.
No, al momento ogni uomo dovrebbe avere un suo luogo del pensiero, protetto e silenzioso. La cultura, dev’essere segreta, non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi.
Tu mi dirai che la divulgazione, é un dovere civile, e che evolve il livello della gente, non riesci proprio a distaccarti da un residuo populista, e anche un po' patetico. Purtroppo oggi, appena un'idea esce da una stanza, é subito merce, merce di scambio, roba da supermercato. La gente se la trova lì, senza fatica, e se la spalma sul pane, come la Nutella.
No, la cultura è delicata, e anche permalosa, ci resta male se non si sente amata, o se le viene il sospetto di non essere un bisogno vero. La cultura, è come una luce, che quando si espande troppo, perde la sua luminosità. Il frastuono della cattiva divulgazione la affievolisce, soltanto il silenzio, ne salva l’intensità.”
(Giorgio Gaber)



Teoria e fenomenologia del Soggetto radicale di A.Dugin

La casa editrice AGA pubblica nel 2019 il volume “Teoria e fenomenologia del Soggetto Radicale”, anticipato dalla breve antologia “Il Sole di Mezzanotte – Aurora del Soggetto Radicale”, la quale condensa e riassume attraverso una scelta di estratti e inediti la proposta filosofica e la visione del mondo sottese all'opera che qui presentiamo. “Teoria e fenomenologia del Soggetto Radicale” è la traduzione ampliata, rivista e corredata di specifico apparato critico, dell'imprescindibile “Il Soggetto Radicale e il suo doppio”, testo del 2009 che secondo alcuni è, assieme a “La Quarta Teoria Politica”, il più significativo e importante contributo del filosofo russo.

È necessario premettere che, a differenza di quanto sembra suggerire il titolo della traduzione italiana, nel testo non si troverà una trattazione sistematica ed esaustiva della materia; l'autore intende piuttosto suggerire e indicare un indirizzo di ricerca e meditazione che dovrà convergere in quella che Dugin definisce la Nuova Metafisica, ossia un pensiero non ancora pensato, soltanto intravisto ed intuito, capace di affrontare e confrontarsi con la paradossale realtà del postmoderno, epoca che infrange qualsiasi ordine di verità razionale e a fronte di cui gli attuali strumenti filosofici ed ermeneutici risultano inadeguati. In tale logos futuro, la cui urgenza è oggi drammaticamente impellente, potrà forse darsi una visione trasparente e compiuta del Soggetto Radicale, figura che allo stato attuale può essere approcciata solo in maniera intuitiva e descritta allusivamente, forzando il linguaggio filosofico in direzioni inusitate, contaminandolo con suggestioni ed echi del mito, del simbolo e della poesia. L'aspetto più ostico della lettura del testo è appunto questa volontà/necessità dell'autore, conforme alla natura ambigua della materia affrontata, di superare i limiti della razionalità moderna, sfruttando l'opportunità che il postmoderno  mette a disposizione, di perseguire un diverso ordine di verità del discorso, laddove proprio nel postmoderno il Soggetto Radicale avrà la culla del suo sorgere e manifestarsi, e pertanto la sua epifania non potrà che assecondare i ritmi, le dinamiche e le contraddizioni proprie dell'epoca natale. Nasce così lo stile enigmatico ed oracolare che Dugin utilizza ogni volta che intende approssimarsi alla profezia dell'avvento del Soggetto Radicale, promessa e speranza che è al medesimo tempo constatazione di un'istanza metastorica e invito a un decisivo impegno militante.

Impossibile comprendere il Soggetto Radicale se non si comprende la natura e l'essenza del postmoderno. L'epoca che succede alla modernità è, infatti, la piena realizzazione dei presupposti di quest'ultima, i quali, nella loro corrosività, giungono a minare le certezze e le illusioni della modernità stessa, minacciandone innanzitutto il fondamento, ossia la soggettività intesa come razionalità e volontà individuali. Il protagonista del moderno, il soggetto, nel postmoderno viene chirurgicamente sezionato dalla razionalità, la quale, come il biblico cane che torna al proprio vomito, giunge infine a liquidare se stessa e il proprio portatore. Il postmoderno è un'epoca che ha lasciato dietro di sé tutta la zavorra idealistica moderna, cannibalizzatasi nel dubbio e nello scetticismo radicali, per giungere a una sostanziale vacuità ontologica, dove verità e apparenza, identità e alterità, Essere e Nulla, coincidono. Tuttavia, si tratta di un olocausto ironico privo del pathos e dell'elemento tragico tipici della logica sacrificale, in quanto può esservi rischio e serietà solo dove vi sia qualcosa da perdere, mentre nel postmoderno nulla ha più valore e tutto è un gioco.

In questo contesto si innesta uno dei temi più suggestivi del libro, ossia il concetto di “miracolo nero”, che al contrario di quella rottura – significante e straordinaria – del naturale ordine causale costituito dal miracolo, così come quest'ultimo è comunemente inteso, è invece un evento tanto assurdo e insignificante quanto banale, che ha come unico effetto quello di catalizzare l'attenzione e intrattenere lo spettatore per un istante, salvo poi disperdere la propria vacua energia per alimentare nuovi coaguli di non senso. Luogo del miracolo nero è il post-spazio, ossia una diversa fenomenologia dell'estensione che l'uomo postmoderno esperisce grazie alla diverse possibilità messe a disposizione dall'epoca attuale, combinando tecnologia, abolizione di limiti e confini dell'individualità e nuove geografie simboliche.

Miracolo nero e post-spazio sono fenomeni emblematici del postmoderno, che ne riassumono perfettamente il carattere parodistico e assurdo, nonché l'inadeguatezza del logos moderno a dominarlo. Eppure, secondo Dugin, è proprio nel postmoderno che può aver luogo l'evento a cui tutta la storia tende come suo momento decisivo; l'intera dinamica degli eventi può essere interpretata, infatti, come il pretesto per il sorgere del Soggetto Radicale. È necessario che la storia precipiti nell'abisso perché il suo evento più straordinario, da essa custodito come un tesoro nascosto, si manifesti. Cos'è dunque il Soggetto Radicale, colui che, ricorrendo al linguaggio nietzschiano, Dugin definisce vincitore su Dio e sul Nulla? 

Ultima incarnazione ermeneutica di una serie di figure che lungimiranti profeti degli ultimi tempi hanno tratteggiato in folgoranti intuizioni (Nietzsche, Jünger ed Evola, giusto per citare i più influenti), egli è colui che, abbandonati tutti i riferimenti e i sostegni tradizionali, trova in sé stesso e solo in sé stesso il senso, la trascendenza e il sacro, ossia ciò che l'epoca premoderna garantisce per specifiche caratteristiche cicliche, ciò che il moderno oblia a favore dell'immanenza, e ciò che il postmoderno perverte e surroga in forme infernali. Egli trova tutto ciò, appunto, alle radici del proprio essere, nella più intima sostanza: in questo consiste la sua radicalità, ossia nel suo essere radicato nell'autenticità e nel reale, di cui è testimone e portatore nell'epoca dell'inautentico e dell'irreale trionfanti.

Se è vero che la sua sostanza trascende le epoche, è tuttavia solo a contatto con la totale dissoluzione degli orizzonti tradizionali che essa può manifestarsi nella propria nudità quintessenziale, libera da scorie e contingenze. Se un'esistenza integra e integrata è la norma nelle epoche tradizionali, in tale condizione non vi è nessun merito o eccezionalità, nonché piena consapevolezza; solo confrontandosi con la più cupa dissoluzione di qualsiasi orizzonte garantito, nel setaccio ardente del postmoderno, vi è l'autentica prova di sé che il Soggetto Radicale brama e sceglie volontariamente per saggiare la propria qualità. Egli è da sempre se stesso, in qualsiasi epoca, ma solo nell'ultima diviene certo di sé misurandosi con la propria forza e stabilità, confermandosi come centro laddove non vi è alcun centro, come generatore di senso laddove ogni senso dilegua. In questa dimensione volontaristica dell'avvento del Soggetto Radicale sta il supremo rischio del fallimento suo e della storia intera: se il processo storico verte al manifestarsi del Soggetto Radicale come suo scopo e compimento, e se tale avvento è legato a un atto di volontà che, in quanto libero, può anche non avvenire, allora tutto è appeso a un filo fino all'ultimo istante, tanto il trionfo quanto il fallimento. La responsabilità è dunque affidata a ciascuno che incarni il Sole di Mezzanotte, o ne favorisca il sorgere annunciandolo nel deserto e preparandogli la via quale un novello Battista dell'età della tecnica. Sono in ballo questioni epocali, non individuali; bene chiarirlo per coloro che vorrebbero ridurre tale figura a un segnavia etico a cui attenersi nelle temperie dello spaesamento. Ad attendere il suo avvento, tremante e trepidante, è l'Essere stesso; l'appuntamento mancato coinciderebbe, infatti, con la vittoria del Nulla incombente.



Il disastro del Vajont

 Progresso e profitto sono sempre andati a braccetto, perché? Perché nessuno dei due guarda in faccia nessuno.

Due linee parallele da cui l'uomo moderno, vivendoci in mezzo, attinge e gli esempi potrebbero essere infiniti ma oggi ricordiamo un fatto in particolare.
Una vicenda che vide come protagonisti uomo, progresso e profitto.
Il 9 ottobre, alle 22.39 di sessant'anni fa, la vela bianca del progresso in calcestruzzo veniva scavalcata dall'onda di morte che procurò in soli quattro minuti 1910 vittime (alcune mai trovate) nei pressi di quella che era ed è chiamata "la diga del Vajont" spazzando via interi paesi.
Una storia di intrecci e interessi del potere economico partiti ancor prima dello stesso boom: perizie, controperizie, presunzione, arroganza, negligenza e occultamento di documenti (riservati) tra enti pubblico/privati e ministeri che preferirono sacrificare vite piuttosto di ammettere l'errore, la spavalda leggerezza che nel nome del profitto mascherato da progresso costruì oltre alla diga anche i presupposti per una catastrofe più che prevedibile, con i media dell'epoca (ma ancora oggi) a riempirsi la bocca della parola tragedia.

Fu uno dei debutti in terra nostra di quella tecnica, affinata negli anni a seguire, che tra pubblico e privato permette il disastro colposo privo di colpevoli (se non qualche sacrificabile pedina).
Ma una verità, tra tutte, è che fu permesso. E poco importa se nel processo che ne seguì un paio di nomi furono condannati come RESPONSABILI ( tre anni e otto mesi con condono di tre anni, danno e beffa come titoli di coda).
La responsabilità per propria definizione doveva esserci prima, durante i lavori, durante le avvisaglie che la frana diede con largo anticipo; ritenere responsabili "post fata" non restituì in nessun caso né vite né averi di chi quella sera non poté difendersi.
 
Quella del Vajont è una tragedia che non viene mai ricordata. Dagli errori, si dice, si dovrebbe imparare e far sì che il progresso sia una delle fonti di benessere ma a quanto pare, di "imparato", è rimasto solo il profitto, con la memoria che viene meno perché perpetuare il ricordo di ciò che si poteva evitare porrebbe oggi troppi dubbi e confusione; il profitto non possiede memoria.

Per chi non conoscesse la vicenda suggeriamo il libro "Sulla pelle viva" di Tina Merlin e il monologo teatrale di Marco Paolini intitolato 
"Vajont 9 ottobre '63".



Le regole di Calvino per leggere i classici

"La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario."

1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: “Sto rileggendo…” e mai “Sto leggendo…”. Leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello di averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come ad ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più. Possiamo tentare allora quest’altra formula di definizione:

2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli. Infatti, le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita. […] Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l’origine. C’è una particolare forza dell’opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme. La definizione che possiamo darne allora sarà:

3. I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando si impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale. Dunque, che si usi il verbo “leggere” o il verbo “rileggere” non ha molta importanza. Potremmo infatti dire:

4. D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.

5. D’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.

6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume) La lettura d’un classico deve darci qualche sorpresa in rapporto all’immagine che ne avevamo. Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C’è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l’introduzione, l’apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne di più di lui.

8. Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso. Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo.

9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti. […] La scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici, tra i quali tu potrai riconoscere in seguito i “tuoi” classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta, ma le scelte che contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola.

10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani.

11. Il “tuo” classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.

12. Un classico è un libro che viene prima degli altri classici, ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia. L’attualità può essere banale o mortificante, ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si deve pur stabilire “da dove” li stai leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza tempo. Ecco, dunque, che il massimo rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la lettura d’attualità.

13. È classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.

14. È classico ciò che periste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona. […] Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti perché “servono” a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici. E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran: “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”.

Italo Calvino, “Perché leggere i classici”, Mondadori, 1981



"Io sono quello" di Nisargadatta Maharaj

Nisargadatta Maharaj non era un uomo istruito, non scriveva libri e si esprimeva in modo semplice.

Egli fu un uomo in ricerca, che dopo un periodo di meditazione, ritornò alla sua vita precedente di tabaccaio senza fondare alcun ashram con discepoli e denari. L’unica cosa che fece, oltre a svolgere il suo lavoro di sempre, fu quella di allestire una piccola stanza nella sua abitazione dove accoglieva chiunque avesse necessità di confrontarsi. Diversi studiosi ne riconobbero la saggezza e si interessarono ai suoi insegnamenti.

Tutti gli scritti che si trovano su di lui sono costituiti dai dialoghi che intrattenne con chi andava a trovarlo, trattasi di raccolte di pensieri trascritti con la classica forma del dialogo domanda-risposta.

In particolare, tra i pubblicati, se c’è un titolo rivolto a coloro che sono pronti a mettere in discussione tutto, questo è “Io sono quello”. Un libro che se viene compreso può essere devastante, per alcuni potrebbe essere l’ultimo libro di una lunga ricerca spirituale.

Il messaggio di Nisargadatta sembra trascendere tutto, c'è qualcosa di primordiale, di elementare e, al tempo stesso, di terribilmente complesso in ciò che viene espresso.

Non possiamo dire altro su questo libro, chi ne ha il coraggio può avvicinarsi, con la consapevolezza che la propria vita potrebbe cambiare per sempre.

“Quando non pretenderai nulla dal mondo e da Dio, quando non vorrai, non cercherai e non ti aspetterai niente, allora lo Stato Supremo verrà da te inatteso, senza essere stato invitato.”

“Ogni malattia ha inizio nella mente. Occupati innanzitutto della mente, rintracciando ed eliminando tutte le idee e le emozioni sbagliate. Poi vivi e lavora incurante della malattia. Con la rimozione delle cause, l’effetto è destinato a scomparire.”

“E’ sempre la falsità a farti soffrire: i falsi desideri, le false paure, i falsi valori e le false idee, i falsi rapporti umani. Abbandona il falso e sei libero dal dolore. La consapevolezza diventa coscienza quando ha un oggetto.”

“La libertà dall’attaccamento non si ottiene con la pratica, sopravviene naturalmente, quando uno conosce se stesso. La coscienza di se è distacco. Ogni desiderio è dovuto a un senso di carenza. Quando non ti manca niente, il desiderio cessa.”

“Non c’è niente da diventare, scopri solo ciò che sei. Cercare di conformarsi a un modello, è una insopportabile perdita di tempo, sii e basta.”




"Casi" di Daniil Charms

Daniil Charms è stato uno scrittore e poeta surrealista sovietico.

Il suo nome era uno pseudonimo (Daniil Ivanovič Juvačëv) con cui probabilmente volle evocare il suono - e le vibrazioni semantiche - dei termini harm (danno, danneggiare) e charme (fascino).

Charms amava definirsi "un gigantesco pagliaccio del mondo solare", il suo eloquio era sempre surreale o persino paradossale e a partire dalla fine degli anni venti i suoi versi anti-razionalistici, le sue ideazioni teatrali non conformiste, e i suoi comportamenti pubblici inneggianti al decadentismo e alla illogicità fecero guadagnare a Charms - che amava apparire in guisa di un dandy inglese - la fama di un eccentrico geniale ma folle all'interno dei circoli artistici e culturali di Leningrado.

Charms non mancava occasione per adottare comportamenti stravaganti, come l'abitudine di declamare i suoi versi chiuso in un armadio e restare completamente nudo quando presenziava alle riunioni del movimento d'avanguardia da lui fondato: OBĖRIU, ovvero Unione dell'Arte Reale, che abbracciava gli ideali artistici del Futurismo russo.

"Sono andato nudo alla finestra. Nella casa di fronte si è visto che qualcuno era indignato, credo fosse una marinaia. Sono piombati da me un poliziotto, lo spazzino e qualcun altro. Mi hanno detto che sono già tre anni che dò fastidio agli inquilini della casa di fronte. Ho appeso delle tende".

Tra i tanti testi pubblicati segnaliamo “Casi”, uno dei suoi scritti più rappresentativi.

Brevi scene surreali in cui vecchie cadono una dopo l'altra dalla finestra, uomini litigano per inezie, si picchiano e uccidono nei modi più assurdi e disparati, ma soprattutto i suoi personaggi cadono, non fanno che cadere, farsi male, morire, dormire, non dormire, sognare. Muoiono tutti allegramente, o almeno il lettore ride mentre muoiono.

 “A me interessano solo le sciocchezze, solo ciò che non ha alcun significato pratico. La vita mi interessa solo nel suo manifestarsi assurdo. Eroismo pathos, ardimento, moralità, commozione e azzardo sono parole e sentimenti che mi sono odiosi. Ma comprendo perfettamente e ammiro: entusiasmo ed esaltazione, ispirazione e disperazione, passione e riservatezza, dissolutezza e castità, tristezza e dolore, gioia e riso.”

Il regime stalinista considerò Charms un sovversivo, lo censurò e arrestò più volte fino a chiuderlo definitivamente nel manicomio criminale di Leningrado dove morirà di inedia.

Da Artaud a Charms, possiamo notare come sia democrazia che dittatura hanno il vizio di sopprimere grandi artisti danneggiando sé stessi, cioè il prestigio del loro Paese, il popolo e ovviamente i malcapitati interessati.

Un autore da riscoprire.




 


Che cos'è l'artigianato oggi?

Ogni tanto nelle situazioni estreme si discute di un passo indietro, di un ritorno all'artigianato.

Alle soglie del 2024 cos'è l'artigianato oggi?

Per gran parte della massa è un prodotto che è divenuto inaccessibile, costoso e il più delle volte con l'offerta delle multinazionali appare un qualcosa di improponibile. 

Ma vediamo in dettaglio ciò che c'è dietro...

L'artigiano non ha orari, l'artigiano non segue protocolli, l'artigiano è oggi colui che accetta la sfida del progresso senza la clausola del consumismo.

L'artigiano è colui che sviluppa arte e la propone ad un prezzo congruo, lecito.

L'artigiano è colui che ripara, aggiusta e crea la soluzione adatta con i mezzi che ha.

L'artigiano il più delle volte è colui che produce di ingegno proprio... Lo vediamo alle fiere medievali, ci giunge in casa per proporre alternative alla nostra negligenza.

L'artigiano è ciò che il progresso vede come acerrimo nemico perché mantiene e non consuma.

L'artigianato è la forma espressiva di ogni individuo che sfida se stesso e i tempi odierni.

L'artigianato non è più il mestiere del tizio sotto casa che ti ripara le scarpe comprate al decathlon ma una minaccia alla filiera del commercio facile.

L'artigianato è il contrapporsi a ciò che è facile ed immediato, soprattutto se arriva dall'estero.

I nostri liutai, coramai, mastri setaioli sono un ricordo da quando il libero commercio ha appiattito il consumo, da quando la nostra mente approda a facili e periodiche soluzioni dall'arte che pian piano ci abbandona.

Se non fosse per qualche folle artista che sfida, ci troveremmo senza artigiani, succubi della plastica che adorna le nostre case.


Eugenio Montale ed il suo segreto

 Eugenio Montale è stato uno dei più grandi poeti italiani. Un classico, nel vero senso della parola, a cui guardare con riverenza.

Il suo “Ossi di Seppia” è una raccolta di poesie ispirata dal duro paesaggio ligure con cui Montale esprimeva una visione della vita aspra e desolata, con un linguaggio spolpato da qualsiasi decorativismo. Una linea asciutta ed essenziale, come una forma di ermetismo tendente alla meditazione che molto deve al Simbolismo. Simbolismo che viene superato con un senso di angoscia e di mistero di stampo esistenziale.

Il premio Nobel alla letteratura mise in mostra le ferite della vita. “Un male di vivere” che si incontra in Natura come “un ruscello che non scorre” o una foglia che non può verdeggiare.

Montale fu un poeta asciutto, sobrio nella constatazione dell’assenza di certezze.

Il suo fu un approccio attento, con un’osservazione contemplativa. Di quella contemplazione dei movimenti tenui ed impercettibili della Natura. Alla ricerca spasmodica del segreto che possa svelare il senso della vita. Sormontato da quei “cocci aguzzi di bottiglia” in cima ad un invalicabile muro la cui scoperta implicherebbe il superamento dei sensi e della condizione umana.

In una ricerca senza fine (al centro della sua poesia resta sempre il problema del significato) che non trova risposte ma solo ulteriori domande. Ma forse è proprio il dubbio e l’ardire che possono portare al superamento del limite e al raggiungimento della conoscenza di quel mistero insondabile che ha sempre attanagliato l’uomo. Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?

Ecco quindi l’ascendenza simbolista che in lui prende il sopravvento e che pone al centro la parola come strumento di analisi della realtà. Quella realtà che può essere (ed è) diversa da quella che i sensi riescono a cogliere.

Montale si chiede tutto ciò perché lui non si ferma all’apparenza ma è uno di quegli “uomini che si voltano”. E voltandosi resta solo col “suo segreto”.



                                 OC