Democrazia liberale e “Divide et impera”.
La nevrosi post-moderna – K.Lorenz
La nevrosi può essere definita un processo che
assegna a determinate idee un valore sproporzionato. A un certo punto la
fissazione su di esse arriva a dominare l'intera personalità di un individuo,
mettendo alla fine a tacere in lui ogni altra forma di motivazione.
Purtroppo tutte le nevrosi che attualmente
prosperano all'interno della civiltà occidentale e che possono essere
ricondotte alla definizione data sopra hanno questo in comune: esse soffocano
le qualità e le funzioni che noi consideriamo costitutive dell'autentico
«essere uomini». Un tipico esempio di nevrosi dalla quale la
personalità umana viene a poco a poco «divorata», fino al punto che l'uomo
perde qualsiasi interesse per ogni altra cosa, è l'avidità di denaro. Una regola
di comportamento in base alla quale desideriamo possedere degli oggetti è
naturalmente presente anche nella persona normale (se essa sia radicata nel
nostro programma genetico, è controverso). Nella nostra cultura fra lo spirito
competitivo e il desiderio di possesso si verifica senza dubbio un
rafforzamento reciproco. Inoltre la quantità dei beni accumulati sembra
rafforzare a sua volta la spinta ad accumularne ancora. La natura patologica di
tale processo si manifesta nel potere che esso esercita sul malato, il quale,
dominato dalla sua nevrosi, lavora più duramente dello schiavo del più crudele
dei padroni.
L'impulso a superare i nostri simili conduce
anch'esso a una forma di fissazione, e molti uomini civili subiscono tale
coazione. Il desiderio di «far carriera» a qualunque costo è caratteristico
della nostra società ossessionata dal successo.
La concorrenza produce i suoi effetti peggiori sul
piano economico- finanziario. «Time is money» (il tempo è denaro) è una
constatazione vera, ma non per questo meno sconsolante.
Una terza motivazione coopera con l'impulso patologico ad accumulare ricchezza e con il desiderio di superare i propri simili: il rispetto innato per la gerarchia, del quale si è parlato nel paragrafo sullo spirito competitivo. Questi tre impulsi messi insieme danno vita a un circolo vizioso nel quale l'umanità si dibatte in modo sempre più vorticoso. Trovare una via d'uscita da questo cerchio perverso è tutt'altro che facile.
Fonte: tratto da "Il declino dell'uomo"
di K.Lorenz (ed CDE S.P.A)
Il progresso secondo E.Jünger
È per me un antropomorfismo con il quale l'uomo moderno ha tentato di leggere la storia. Un surrogato dell'idea di «spirito del mondo ». Bisogna prenderne le distanze e osservare piuttosto l'universo e la sua storia dal punto di vista del principio della conservazione dell'energia. La potenza del cosmo rimane sempre la stessa, non ci sono progresso o regresso né accelerazione o decelerazione che possano modificarla. Ciò che cambia sono solo le figure, le forme che la storia, anzi, la terra produce incessantemente dal suo profondo. Il problema che qui vedo sorgere è un altro: possiamo considerare l'uomo, questa apparizione sovrana nella storia dell'universo, responsabile della sua evoluzione?
Ritiene ancora possibile salvaguardare lo stile, questo gesto delicato e aristocratico, in un mondo che tende alla spersonalizzazione e alla manipolazione dell 'individuo?
Definirei la nostra una società di individui massificati che necessita per questo di élite molto ristrette, destinate a svolgere una funzione importantissima. Su questo punto mi attengo alla sentenza eraclitea che dice: "Uno solo, per me, è diecimila ». Questo numero andrebbe oggi elevato a potenza.
Nel senso che le élite andrebbero allargate o ristrette ulteriormente?
Nel senso che quanto più cresce la massificazione, tanto più grande è il valore e la forza spirituale di quei pochi capaci di sottrarvisi.
Siamo abituati a pensare alle élite in termini Più sociologici che spirituali. Lei che definizione ne darebbe?
La definizione sociologica di élite è già indice della corruzione del concetto. Un ammonimento, per me, a non avere più fiducia nemmeno nelle élite, ma ormai soltanto nei grandi Solitari.
In Italia si discute accanitamente di « destra» e « sinistra». Che cosa pensa di queste due categorie?
Sono ormai categorie organiche, come le parti del corpo. Pensate per esempio alle mani: sono entrambe indispensabili. E ovvio che Ciascuna esiste in funzione dell'altra. Da questo punto di vista, dunque, la «destra» e la «sinistra» sono ugualmente necessarie. Ciò che fin dalle convulsioni della Repubblica di Weimar mi apparve chiaro è che non tiene più la tradizionale raffigurazione spaziale del significato politico di queste due categorie, secondo l'immagine di un parlamento in cui la destra siede da un lato e la sinistra dall'altro. E questo vale ancor più oggi, nell'età della tecnica e delle comunicazioni di massa. Personalmente, comunque, mi ritengo al di là di questo schema, che ha riempito scaffali di ideologia.
Come immagina dunque il prossimo secolo?
Non ne ho una idea troppo felice e positiva. Per dirla con una immagine, vorrei citare Holderlin, il quale in Pane e vino ha scritto che verrà l'evo dei Titani. In questo evo venturo il poeta dovrà andare in letargo. Le azioni saranno più importanti della poesia che le canta e del pensiero che le riflette. Sarà un evo molto propizio per la tecnica ma sfavorevole allo spirito e alla cultura.
Fonte: tratto da "I prossimi Titani, Conversazioni con Ernst Jünger", Adelphi, Milano 1997
La causa universale - Dionigi Aeropagita
Diciamo dunque che la causa universale, superiore a tutte le cose, non è priva di essenza, di vita, di ragione, d’intelligenza; non è neppure un corpo, e non possiede né una figura, né una forma, né una qualità, né una quantità, né un peso; non si trova in nessun luogo, non è visibile, né può essere toccata materialmente; non ha sensazioni, né è oggetto di sensazioni, né disturbata da passioni materiali, né fa albergare in sé il disordine e la confusione; non è neppure priva di forza, come se fosse soggetta alle vicissitudini del mondo sensibile, né ha bisogno della luce; non ammette in sé né il cambiamento, né la corruzione, né la divisione, né la privazione, né lo scorrimento, né alcun’altra cosa sensibile; e non è neppure qualcuna di queste cose.
La causa per eccellenza di tutte le realtà intellegibili non è nessuna realtà intellegibile.
Procedendo quindi nella nostra ascesa diciamo che la causa universale non è né anima, né intelligenza, e non possiede né immaginazione, né opinione, né parola, né pensiero; che essa stessa non è né parola, né pensiero; e che non è oggetto né di discorso, né di pensiero. Non è né numero, né ordine, né grandezza, né piccolezza, né uguaglianza, né disuguaglianza, né somiglianza, né dissomiglianza; non sta ferma, né si muove, né rimane quieta, né possiede una forza, né è una forza; non è luce; non vive e non è vita; non è né essenza, né eternità, né tempo; non ammette neanche un contatto intellegibile; non è né scienza, né verità, né regno, né sapienza; non è né uno, né unità, né divinità, né bontà; non è neppure spirito, per quanto ne sappiamo; non è né figliolanza, né paternità, né qualcuna delle cose che possono essere conosciute da noi o da qualche altro essere; non è nessuno dei non-esseri e nessuno degli esseri, né gli esseri la conoscono in quanto esiste; e neppure essa conosce gli esseri in quanto esseri. A proposito di essa, non esistono né discorsi, né nomi, né conoscenza; non è né tenebra, né luce; né errore, né verità; non esistono affatto, a proposito di essa, né affermazioni, né negazioni: quando facciamo delle affermazioni o delle negazioni, a proposito delle realtà che vengono dopo di essa, noi non l’affermiamo, né la neghiamo. In effetti, la causa perfetta ed unitaria di tutte le cose è al di sopra di ogni affermazione; e l’eccellenza di colui che è assolutamente staccato da tutto e al disopra di tutto è superiore ad ogni negazione.
Tratto da “Teologia mistica” di Ps.Dionigi Aeropagita (ed.Città Nuova)
La predizione sugli psicopersuasori di V.Packard
(..)
Alcuni aspetti del nostro comportamento di consumatori sono così tortuosi e irrazionali che i tecnici della vendita si trovano, talvolta, a roteare gli occhi esasperati e impotenti. Le nostre singolarità psicologiche sono soprattutto rivelate dal fatto che noi, senza esserne coscienti, vediamo e sentiamo, in uno slogan o in un bozzetto pubblicitario, cose che non avremmo dovuto né vedere né sentire. Tale è la sensibilità del nostro occhio interno e del nostro orecchio interno nel cogliere messaggi non intenzionali, che si stenta, talvolta, a reprimere un senso di pietà per i poveri tecnici del mercato. Questi, di fronte alle nostre capricciose, inspiegabili resistenze, si rivolsero ai tecnici della profondità per ottenere diagnosi e rimedi ai loro malanni.
(..)
Le inquietanti caratteristiche orwelliane del mondo verso il quale i persuasori sembrano volerci sospingere — sia pure involontariamente - appaiono in tutta la loro evidenza quando si considerano talune delle loro più audaci e ingegnose operazioni.
Ad esempio nel mercato dei beni di consumo, ci pare di poter considerare un segno premonitore di eccezionale gravità l’impiego delle tecniche del profondo per determinare il grado di vulnerabilità delle bambine ai messaggi pubblicitari. Nessuno, letteralmente, può sfuggire all’occhio onniveggente degli analisti motivazionali allorché si presenta la minima occasione di vendita.
(..)
A che genere di «domani» stiamo andando incontro nella vendita di prodotti si può vedere dall’uso della psicanalisi sulle ragazzine per scoprire quanto siano sensibili al messaggio pubblicitario. Nessuno, assolutamente nessuno, evidentemente, può essere risparmiato dall’occhio onniveggente del Grande Fratello, il ricercatore motivazionale, se pare che un’occasione di vendere si presenti
A lunga scadenza - diciamo nel 2000 - tutte queste manipolazioni a base psicologica sembreranno, forse, molto ingenue e un po’ ridicole. A quell’epoca i biofisici avranno probabilmente assunto il comando delle operazioni con il « biocontrollo », ossia la persuasione del profondo portata alle sue conseguenze estreme. Il biocontrollo è la nuova scienza che controlla i processi mentali, le reazioni emotive, e le percezioni mediante segnali bioelettrici. Al congresso nazionale di elettronica tenutosi a Chicago nel 1956, l’ingegnere Curtiss R. Schafer, della Norden Keaty Corporation, lesse una relazione sulle prodigiose possibilità offerte dal biocontrollo. Egli affermò che l’elettronica è in grado di provvedere al controllo di tutti gli individui in qualche modo «difficili», facendo risparmiare agli specialisti delle varie discipline sociali tempo e seccature. A suo dire, si tratterebbe di una operazione relativamente semplice.
Gli aeroplani, i missili, talune macchine, sono già guidate elettronicamente; lo stesso principio si può applicare al cervello umano, che ha in sostanza la struttura di una macchina calcolatrice. Attraverso il biocontrollo gli scienziati sono già riusciti ad alterare, in alcuni soggetti umani, il senso d’equilibrio. E hanno provocato artificialmente la sensazione della fame in animali sazi; in altri, hanno provocato il panico senza che nulla di visibile li minacciasse. La rivista «Time» riassumeva in questi termini il pensiero di Schafer: «Il limite ultimo del biocontrollo potrebbe essere il controllo dell’uomo stesso... Ai soggetti controllati non si permetterebbe mai di pensare individualmente. Pochi mesi dopo la nascita, un chirurgo sistemerebbe sotto la cute del bambino degli elettrodi collegati a determinate regioni del cervello... Le percezioni sensoriali e l’attività muscolare del bambino potrebbero essere modificate o completamente controllate da segnali bioelettrici irradiati da un trasmettitore azionato dalle autorità statali ».Per rassicurare i lettori, lo scienziato precisava che gli elettrodi «non provocano alcun disturbo».Non dubito che gli psicopersuasori dei nostri tempi rifiuterebbero con indignazione di commettere una simile sopraffazione a danno dell’uomo. In massima parte, si tratta di persone moralmente integre e bene intenzionate, che seguono l’onda inarrestabile del progresso moderno: vogliono, è vero, controllarci, ma solo per quel tanto che basta a venderci prodotti che potrebbero esserci utili o a diffondere tra di noi idee e opinioni che sono spesso degnissime.Ma quando il processo di manipolazione è cominciato, dove deve arrestarsi? Chi stabilisce il limite oltre il quale esso diventa socialmente pericoloso?
Fonte: tratto da “I persuasori occulti” di V.Packard (ed.Einaudi), 1957
Il disgregamento dell'anima nella civiltà occidentale - C.Dawson
Il mondo che i Cristiani debbono oggi affrontare
assomiglia più a quello descritto nell'Apocalisse che a quello di
Sant'Agostino. Il mondo è forte, dominato da padroni malvagi; ma questi padroni
non sono Nerone o Domiziano, autocrati rotti al vizio; sono gli ingegneri
costruttori della macchina d'una potenza mondiale, ben più formidabile e
tremenda di quanto abbia mai conosciuto il mondo antico, perché essa non si
limita, come i dispotismi del passato, ad usare mezzi esterni, ma si vale di
tutte le risorse della psicologia moderna per fare dell'anima umana la forza
motrice del suo arbitrio dinamico.
Così i principii fondamentali agostiniani dei Due Amori e delle Due Città,
ancor validi, assumono oggi una forma nuova, ignota alla Chiesa del passato.
Perché oggi assistiamo ad un meditato tentativo di unificazione e di
potenziamento della società umana, fin dalle più profonde radici ; si tenta di
portare la Gerusalemme, che è lo spirito dell’Uomo quale ricettacolo dello
Spirito di Dio, alla schiavitù di Babilonia, che è lo spirito dell'uomo
degradato a cieco strumento d'una diabolica volontà di potenza. Non abbiamo qui
spazio per discutere le origini e lo sviluppo di questo male, ma basti dire che
le tendenze rivoluzionarie del mondo moderno, ispirate in principio ad un
ottimismo umanitario positivo, sono degenerate in una "Rivoluzione
distruggitrice". E, come ha osservato Nietzsche, la causa principale di
ciò va cercata nella perdita dei valori morali cristiani, che
"trattenevano l'uomo dal disprezzo di se stesso, da una ribellione contro
la vita, e dalla disperazione, figlia della conoscenza".
Perché una morale, privata delle basi religiose e metafisiche non può che
subordinarsi a fini più bassi; e quando questi fini sono negativi, come nella
guerra e nella rivoluzione, tutta la scala dei valori morali ne rimane
invertita. È comprensibile che un simile nichilismo morale s'accompagni ad un
idealismo fanatico in un movimento rivoluzionario clandestino, ma diventa un
male molto più grave quando un governo ne faccia il suo credo, quando la forza
che domina lo stato se ne serva per difendere la violenza e l'ingiustizia,
quando il terrorismo rivoluzionario della società segreta si fonda col
terrorismo repressivo della polizia segreta, per produrre una nuova tecnica
totalitaria di governo di forza e di terrore che mina le basi psicologiche
della libertà morale.
Alla luce del Cristianesimo, l'aspetto più grave di questa situazione è che il
male si è per così dire spersonalizzato, svuotandosi di passioni e d'appetiti
individuali ed innalzandosi di là dall'umanità, in una sfera dove si confondono
e si trasfigurano tutti i valori morali. I grandi terroristi da Robespierre e
St. Just a Dzerscinski non erano uomini immorali, ma rigidi puritani che
facevano il male freddamente, per principio, disinteressatamente; mentre i
dittatori moderni assommano in sé le qualità più alte e più basse della natura
umana, - dedizione e devozione illimitata, ed un altrettanto illimitato spirito
di vendetta e di violenza - per affermare la loro volontà di potenza.
(..)
La subordinazione della morale alla politica, il regno del terrore, la tecnica
della propaganda e dell'aggressione psicologica, possono diventare gli
strumenti d'un qualsiasi potere o partito che abbia l'audacia di rinunciare
agli scrupoli morali e di precipitarsi nell'abisso.
Questa è per noi la difficoltà più grave, perché questo male prospera e trionfa
nella guerra, e la necessità di combattere lo spirito dell'aggressione sfrenata
colla forza delle armi crea un'atmosfera particolarmente favorevole al suo
sviluppo. Per conseguenza abbiamo l'arduo compito di condurre una guerra su due
fronti.
(..)
Il disgregamento della civiltà occidentale, dovuto alla pressione economica e
morale della guerra, costituisce un pericolo serio da non scartarsi alla
leggera. Né i Cristiani possono affrontarlo collo stesso animo con cui
affrontavano la caduta dell'Impero Romano. Quello era un disastro esterno che
lasciava intatte le sorgenti della vita spirituale, mentre quella odierna è una
catastrofe spirituale che colpisce le basi morali della nostra società, e
distrugge non la forma esterna della civiltà, ma l'anima dell'uomo, principio e
fine d'ogni cultura umana.
Fonte: tratto da “il giudizio delle nazioni” di C.Dawson (ed.Bompiani)
Il trionfo della tecnocrazia - D.Lamènie
«L'economia ha assunto, a causa dello sviluppo
della tecnica, un'importanza tale nella nostra epoca che ormai sono i suoi
imperativi a determinare della nostra società le strutture. I mali di cui
soffriamo dipendono in gran parte dal fatto che non abbiamo saputo sostituire
abbastanza in fretta i vecchi quadri sociali, ereditati da un passato ormai
sepolto, con uomini nuovi preparati per le loro conoscenze a svolgere le
funzioni governative che il mondo moderno comporta. Il Progresso, che è una
necessità talmente evidente da esser diventato il denominatore comune degli
ideali di ogni cittadino, esige che venga bandito l'empirismo in un'epoca in
cui ormai non ha più motivo di esistere, poiché le scienze razionali illuminano
ogni giorno una nuova zona d'ombra.
I primi mutamenti del mondo moderno sono stati caratterizzati da un notevole
balzo in avanti delle scienze della materia, cui non corrispose un adeguato
progresso delle scienze umane. In questa prima fase il progresso materiale pur
apportando benessere, non eliminò completamente l'infelicità, anzi talora
contribuì ad aggravarla, poiché mancava una sufficiente conoscenza dell'uomo,
della sua natura e dei suoi bisogni. In seguito, tuttavia, le scienze umane
hanno cominciato a recuperare questo loro ritardo a passi da gigante: non è più
soltanto sulle sue conoscenze nel campo della chimica, della fisica o anche
della biologia che l'uomo d'oggi può contare, ma su quelle non meno razionali
nel campo della psicologia, individuale e di gruppo, della sociologia,
dell'economia, ecc. D'ora in poi il progresso materiale nei suoi risultati non
sarà più lasciato al caso: l'uomo, forte della conoscenza di se stesso, potrà
ormai orientare il progresso tecnico in modo da ritenere i soli risultati felici,
possiamo quindi parlare di Progresso anche senza precisarne il campo, poiché
l'uomo è in grado di far concorrere tutti i progressi particolari al Progresso
generale, assoluto, il cui scopo è la felicità del genere umano.»
Ecco, in breve, quali sono le opinioni che costituiscono il credo tecnocratico
e che oggi godono del consenso generale del grande pubblico, nonostante la
sopravvivenza di alcuni focolai di oscurantismo inveterato che sussistono nelle
più svariate categorie: si tratta di certi nostalgici della cultura dei secoli
cosiddetti "grandi", ferventi sostenitori della tradizione, più
legati alle discipline dello spirito e alla qualità del suo progresso che non
all'efficacia della sua produzione; di certi medici che continuano a vedere nel
carattere personale dell'esercizio della loro professione una condizione della
sua oblatività, di certi militari che, malgrado l'evidenza della potenza dei
mezzi di distruzione, affermano ancora il primato delle forze morali e dubitano
allo stesso tempo dell'esistenza di metodi scientifici atti a suscitare e
mobilitare dette forze; di tal uni bottegai e artigiani maniaci
dell'indipendenza, alcuni dei quali continuano a prosperare grazie all'anarchia
politica che sussiste ancora; di taluni coltivatori che hanno una sorta di
culto per la terra che lavorano e sono in generale troppo anziani per aver
potuto assimilare le concezioni che i «Giovani Agricoltori» si sforzano di
diffondere; e di altri ancora...
Ma si tratta qui di minoranze, perché non solo i tecnici, la cui mentalità è
particolarmente sensibile all'idea di una società scientificamente organizzata,
ma anche uomini di ogni specie si schierano oggi con entusiasmo o con
malinconico rammarico dalla parte delle "verità" tecnocratiche che ho
appena schematizzato a grandi linee.
Ovviamente, i più convinti sono i tecnocrati stessi, e cioè coloro che si
sentono chiamati a diventare gli eletti del sistema sociale moderno, coloro che
per formazione mentale e competenza tecnica sono designati al potere. È inutile
dire chi siano questi uomini, perché tutti li conoscono: i loro nomi figurano
in una quantità più o meno notevole di commissioni e di organismi che si
propongono lo scopo di ristrutturare la nazione o anche in gruppi
internazionali più vasti, occupano in qualità di grandi esecutori le posizioni
chiave della vita nazionale. Il saggio di H. Coston, Les Technocrates et la
Synarchie, ci offre un elenco piuttosto nutrito di molti di coloro che lavorano
come funzionari, ma, nell'insieme, i tecnocrati vanno ben oltre questa
categoria. In effetti, è sempre più lo stesso genere di persone, si può dire la
stessa casta, a occupare posizioni di potere, sia nell'ambito
dell'amministrazione pubblica che in quello dei grandi affari cosiddetti
privati, che in realtà, perdono sempre più il loro carattere privato con il
diffondersi del dirigismo e della concentrazione industriale che oggi
caratterizzano, molto di più che le nazionalizzazioni, la socializzazione del
Paese.
Molto spesso, i dirigenti delle grandi società sono ex funzionari che hanno
mantenuto l'accesso all'amministrazione tramite le loro relazioni con i
colleghi di un tempo; essi parlano lo stesso linguaggio, che non è più quello
degli uomini d'azione, ma è il vocabolario tutto neologismi degli
organizzatori. Provengono tutti dalle stesse grandi scuole, dove tenuti lontano
dalle realtà molteplici della vita, perché percepirne le infinite sfumature
avrebbe significato turbare e distrarre in modo pericoloso lo spirito nell'età
in cui è malleabile, hanno passato gli anni giovanili impregnandosi di schemi
semplificatori che ne segneranno l'intelligenza con un sigillo comune che, più
tardi, servirà loro da talismano e consentirà loro di intendersi di primo
acchito nel corso dei loro incontri per tutta la vita.
Il Piano è il motivo conduttore di questi incontri organizzati: il Piano,
questo vecchio sogno sinarchico che la IV Repubblica ha riconosciuto
ufficialmente dopo che i principali organizzatori dell'economia del regime di
Vichy gli avevano spianato la via, e al quale il tecnocrate Bloch-Laìné ha
riservato, nel suo libro La Réforme de l'Entreprise, un posto speciale, quello
di crocevia dei padroni della vita economica.
È inutile precisare che la casta è mossa da una forte volontà di potenza,
riscontrabile tanto nei parvenus che vi sono entrati tramite concorso, quanto
in coloro, che sono d'altronde i più numerosi, che assommano e i prestigiosi
diplomi e una appartenenza familiare alla classe dirigente. Si tratta degli
eredi di grandi signori che hanno dimenticato le loro tradizioni, di grandi
borghesi stanchi di intraprendere nel rischio, di grandi funzionari o di
distinti rappresentanti delle professioni liberali nei quali è svanito
l'orgoglio dell'indipendenza. Agli uni e agli altri si aggiungano poi gli
apatridi, per i quali la nazione è oggetto di conquista e la cui influenza
sotterranea è, purtroppo, determinante.
Questa volontà di potenza si esprime in concreto nella volontà di escludere dal
potere le persone che non appartengono alla casta. Il metodo più sicuro è l'edificazione
di un sistema in cui non esista alcuna possibilità di inserimento per chi non è
"ferrato in materia", e che valorizzi unicamente quelle doti che
vengono considerate valide in base ai criteri stabiliti da coloro che lo
sono.
I tecnocrati comunque, non disdegnano alcuna occasione per eliminare qualsiasi
tipo di concorrenza che possa contendere loro i posti di comando, sia che si
tratti di notabili provenienti dalle strutture naturali che ancora resistono o
rinascono nonostante tutto, sia che si tratti di indipendenti incalliti
appartenenti a varie categorie professionali e presunti beneficiari di
privilegi, sia che si tratti di politici; questi ultimi sono certamente i più
vulnerabili a causa della loro mediocrità giustamente proverbiale e dell'origine
del loro potere che è altrettanto artificiale nella nostra democrazia quanto
quella a cui si appellano i tecnocrati.
(...)
L'appetito dei tecnocrati è lo strumento di mire ideologiche di ben altra
portata: la Rivoluzione vuole la distruzione dell'ordine naturale, la
tecnocrazia, che è una forma della Rivoluzione, concepisce tale distruzione
come un capovolgimento che, nella sfera temporale, tende a sostituire
l'«economico innanzitutto» al «politico innanzitutto. »
(...)
I mezzi che i tecnocratici si propongono di usare non possono essere valutati
adeguatamente se non in funzione dello scopo che essi si prefiggono. È sempre
il problema della finalità che domina tutto il resto. Le Réflexions pour 1985
di Pierre Massé sono molto significative a questo riguardo.
Innanzitutto, bisogna essere inseriti in una certa dinamica, bisogna diffidare
di tutto ciò che è permanente, di tutto ciò che potrebbe indurci a «fuggire
l'avvenire», perché il passato vale solo nella misura in cui esso prepara
l'avvenire - quello dei tecnocrati, ben inteso. «La vastità delle
trasformazioni che i nostri sistemi di valori hanno subito sulla scia della
rivoluzione industriale ci dà la misura dei mutamenti di significati che
dobbiamo aspettarci nei prossimi vent'anni.»
La famiglia, ovviamente, è uno dei valori minacciati, poiché, essendo una
cellula naturale fondamentale, non è stata creata dall'uomo: «perché l'uomo
possa vedere nella civiltà un mondo a sua immagine, egli dovrà potervi
riconoscere sia l'opera delle sue mani, sia la partecipazione dei suoi sforzi
.... »
Ed ecco come viene formulata l'idea di Educazione permanente, che si è ormai
istituzionalizzata:
«Adattandosi in un modo più elastico a finalità più coscienti (la formazione)
dovrà sfociare nell'educazione degli individui sia come consumatori, che come
cittadini, che come produttori, e permettere loro di accedere nel migliore dei
modi a tutte le felicità possibili ....»
Dietro l'enfasi di queste parole è chiaramente riconoscibile una concezione
puramente materialistica del mondo, l'edonismo, è l'idolatria dell'Evoluzione.
Incapace di scorgere il vero fine dell'uomo creato a immagine di Dio, e
concepito per servirlo, il tecnocrate considera l'individuo uno strumento di
produzione e un organo di consumo. Il tutto è coronato da un vago estetismo:
poiché, secondo il tecnocrate, il fine dell'uomo si identifica con il suo ruolo
di produttore e di consumatore, è proprio assumendo al meglio queste funzioni
che egli troverà, per ciò stesso, la felicità alla quale aspira. Ci troviamo
dunque di fronte a un capovolgimento totale della gerarchia dei valori che
aveva instaurato il cristianesimo: la tecnocrazia non è che una forma
particolarmente insidiosa della sovversione.
Fonte: tratto da “La tecnocrazia” di L.Damènie (Società editrice Il Falco)
La filosofia marxista - J.Daujat
Il marxismo è una trasposizione materialista della
filosofia di Hegel: vogliamo con ciò dire che esso si oppone all'idealismo
(e opera un vero e proprio capovolgimento del sistema hegeliano) facendo
delle idee un semplice prodotto dell'evoluzione delle forze materiali
nel cervello umano, di modo che le forze materiali vengano a essere
il vero agente creatore di storia. L'Idea, che era tutto per Hegel,
non è niente per Marx, se essa non è il prodotto di un cervello,
esso stesso prodotto delle forze materiali: in questo modo
il materialismo è integrale. Ma questo materialismo conserva l'evoluzionismo
assoluto di Hegel: non c'è alcuna realtà che sia, che resti o che perduri,
vi sono solo forze materiali in perenne conflitto e, di conseguenza, in
perenne contraddizione; l'azione e il conflitto di tali forze, creatori di
perenni trasformazioni, fanno della storia - che ne è il frutto - una
perpetua evoluzione nella contraddizione e nella lotta. Questo
materialismo è dunque un materialismo storico, un materialismo per il
quale non esiste niente altro che la storia, ed essa stessa è solo un
cambiamento incessante, generato dalle forze materiali in incessante
lotta. Esso, poi, è anche un materialismo dialettico, essendo l'evoluzione
storica fatta di un ritmo di opposizioni generatrici di cambiamento ed
essendo ritmata per tesi, antitesi e sintesi, come in Hegel. Non vi è
dunque per Marx alcuna verità che meriti un sì o un no, che darebbe un
senso a un'affermazione, ma sí e no, affermare e negare, si chiamano e
si confondono nella contraddizione, principio del cambiamento; l'evoluzione
nega domani ciò che oggi afferma, soltanto la contraddizione è regina e
non esiste alcuna verità da affermare.
Ci si inganna dunque profondamente quando si dà al
la parola "materialismo" il suo significato piú comune, per
attribuirlo al marxismo. Marx ha definito la sua filosofia come
materialismo "storico" o "dialettico": la maggior
parte dei nostri contemporanei, ignorando Hegel e non sapendo ciò che
questo significhi, dimenticano le parole "storico" o "dialettico"
e perciò considerano il marxismo come un materialismo comune, non
ricordando altro che la parola "materialismo". Ora, si chiama
normalmente materialismo la filosofia che considera la materia come
l'unica realtà; tuttavia questo materialismo ammette una realtà, quella
della materia, di una materia che esiste e che dura e che è la sostanza di
cui sono fatte tutte le cose. Essa ammette dunque una verità, la verità
che afferma la realtà della materia e spiega tutto con la sola
materia. Marx ha solo, sarcasmi per questo materialismo, che qualifica
come materialismo "contemplativo" o "dogmatico
(contemplativo,perché considera la materia come una realtà o un oggetto da
conoscere; dogmatico, per la sua affermazione della realtà della
materia) opponendolo al suo materialismo storico o dialettico. Per Marx non vi
è alcuna realtà materiale che esista e duri, vi sono solo forze materiali
la cui azione perennemente trasformatrice non lascia esistere nulla. Non è
dunque la materia, ma il conflitto incessante delle forze materiali in
azione, a costituire la base della sua filosofia. Ricordiamo di aver
sentito qualcuno affermare, con lo scopo di spiegare che il marxismo è il
materialismo piú totale che possa esistere, definirlo come "la
filosofia che fa della materia un assoluto": è impossibile mostrare
una incomprensione piú completa del marxismo, poiché il primo principio
del marxismo è precisamente che non vi è alcun assoluto, che non vi è
niente che possa essere posto come avente un'esistenza che basti a sé
stessa e che duri, che vi sono soltanto le forze in lotta, le quali
non lasceranno mai esistere né durare nulla.
Lo spirito, per Marx, non ha un grado maggiore di
esistenza della materia stessa: esso è il prodotto delle forze materiali.
Ma può essere uno strumento potente dell'azione delle forze
materiali agenti nella storia; e i marxisti non temeranno - a causa
della natura del loro materialismo - di servirsi all'occorrenza di
un linguaggio spiritualista, per prendere in esame l'azione storica
delle idee o di altre forze spirituali (morali o religiose, per esempio)
quali organi potenti per l'azione delle forze materiali che lottano
e agiscono attraverso i cervelli umani. Dottrina, ideali,
costumi, doveri, religione, tutto questo è solo il prodotto delle
forze materiali e lo strumento della loro azione. Neppure l'individuo ha
un grado maggiore di esistenza propria: egli è solo una
rotella dell'immenso conflitto delle forze materiali che modella la
storia.
Quale sarà il posto e il destino dell'uomo in una
simile concezione?
L'uomo non ha piú verità da conoscere: non c'è
alcuna realtà esistente o stabile che possa essere oggetto di conoscenza,
neppure la materia, come nel materialismo contemplativo o dogmatico.
Ogni ricerca di verità, ogni affermazione di
dottrina, ogni atteggiamento contemplativo, sono impietosamente rifiutate.
Non resta che agire, realizzarsi per mezzo dell'azione, coinvolgendo
sé stessi nella lotta e nel conflitto, esercitare l'azione
trasformatrice, che plasma l'evoluzione perpetua della storia. Non v'è
esistenza che nell'azione, e nell'azione materiale: non si esiste se non
agendo e trasformando continuamente sé stessi attraverso la propria
azione.
Per Marx l'uomo non è niente altro all'infuori
dell'azione materiale che svolge, e non possiede realtà diversa
dall'azione materiale da lui esercitata. Questa è l'essenza stessa del
marxismo, che è una filosofia dell'azione materiale pura, un totalitarismo
dell'azione materiale (come l'hitlerismo è un totalitarismo
dell'espansione vitale). Ne risulta immediatamente che per il marxismo l'uomo
tanto piú esisterà e tanto piú sarà uomo, quanto piú eserciterà un'azione
materiale potente: e qui è contenuto tutto il marxismo.
Con la sua azione materiale l'uomo fa la storia,
cosí che tutta la storia umana, è solo la storia dell'azione produttiva
dell'umanitá e nient'altro che il conflitto tra le forze produttive; ogni
epoca della storia è solo un sistema e una lotta di forze produttive.
L'uomo esiste perché modifica il mondo con il suo lavoro, l'umanità
si genera dal conflitto delle forze produttive. L'uomo è lavoro
ed esiste solo modificando il mondo col suo lavoro: nell'uomo vi è
solo il lavoratore. Il lavoratore è l'essenza dell'umanità, il marxismo
è un totalitarismo del lavoro.
Pertanto non è solo la storia che l'uomo crea e
trasforma senza tregua con la sua azione materiale, ma anche e soprattutto
sé stesso.
Cogliamo qui fino a che punto marxismo e
cristianesimo siano agli antipodi e diametralmente opposti. Il
cristianesimo pensa che l'uomo sia stato creato da Dio e abbia ricevuto da
Dio una natura umana stabile che lo fa essere e rimanere uomo, il marxismo
invece pensa che l'uomo si crei da sé, si dia da sé la propria esistenza e
si modifichi senza tregua per mezzo della propria azione materiale.
Non si può eliminare l' idea di Dio in un modo piú
totale che sopprimendo l'idea di qualsiasi esistenza che venga da lui
per riconoscere soltanto quel la di un'azione eternamente modificatrice.
Il marxismo non riconosce alcuna natura umana
stabile che faccia sí che l'uomo sia uomo. L'uomo con la sua azione si dà
da sé stesso la sua natura e la modifica senza sosta; l'uomo cambia la sua
natura cambiando il sistema delle forze produttive. Il lavoratore
industriale di oggi non è piú lo stesso uomo che era il contadino e
l'artigiano di un tempo; ha cambiato natura, è un'altra umanità che si è
generata attraverso la rivoluzione industriale, come è una nuova umanità
che deve generarsi attraverso la rivoluzione marxista. Ogni
grande opera storica è dunque un vero snaturamento dell'uomo:
essa consiste nel cambiare l'essenza dell'umanità. Da qui la
volontà marxista di strappare il piú possibile l'uomo alla natura, al
ritmo naturale delle stagioni e della vegetazione, che sfugge in parte
alla sua azione, per giungere a un mondo completamente meccanizzato
che sia pura creazione del lavoro umano. Si tratta di ricreare un mondo
che non sia quello creato da Dio, ma soltanto opera dell'uomo. In questo
senso il marxismo è un umanesimo totale; per esso niente esiste se non
attraverso l'azione umana, e non riconosce niente altro che l'uomo, il
quale si fa da sé attraverso la propria azione.
L'azione umana, come la concepisce il marxismo, è
essenzialmente rivoluzionaria:l'uomo tanto piú esisterà e sarà tanto piú
uomo, nella misura in cui trasformerà piú profondamente ciò che esiste
e trasformerà piú profondamente sé stesso Nel rifiuto assoluto di
ogni verità da conoscere o ríconoscere, di ogni contemplazione di ciò
che è, il marxismo chiama l'uomo alla piú gigantesca opera
di rivoluzione, alla piú potente azione di trasformazione e di sconvolgimento.
Per Marx non vi è altra verità al l'infuori delle esigenze dell'azione
materiale piú potente e delle necessità dell'azione rivoluzionaria. A
seconda del cambiamento di queste esigenze e di questi bisogni, la verità
cambierà dall'oggi al domani, il sí si muterà in no, poiché l'affermazione
non esprime alcuna verità e ha il solo scopo di esprimere le esigenze del
l'azione. Non è dunque per conversione, né per ipocrisia che i comunisti
cambiano senza tregua, e dicono e fanno ogni giorno il contrario di ciò
che hanno fatto e detto il giorno precedente; ciò è conforme alle
piú pure esigenze del marxismo ed essi non sarebbero marxisti
se agissero diversamente; poiché il marxismo è un
evoluzionismo integrale, essi devono - in quanto sono marxisti - evolversi
e contraddirsi senza tregua. Bisogna, una volta per tutte,
convincersi che ciò che essi dicono non esprime alcuna verità, ma
unicamente le esigenze del la loro azione, poiché per essi niente esiste
all'infuori di questa azione. L'azione è una evoluzione perpetua in cui il
sí diventa no a ogni momento. Riconoscere una verità, equivarrebbe
a riconoscere qualche cosa che esiste, e con ciò rinunziare
a trasformarla con la propria azione. Per Marx, conoscere è
niente, condurre un'azione è tutto.
Marx non s'interessa maggiormente a un ateismo
contemplativo o dogmatico che a un materialismo ugualmente contemplativo
o dogmatico: il suo è un ateismo pratico, un rifiuto di Dio
attraverso l'azione creatrice di una umanità e di un mondo che non vengono
da Dio. Ma il rifiuto di Dio è in questo modo molto piú totale che in
un ateismo dottrinale. Per rifiutare completamente Dio occorre
un rifiuto totale di tutto ciò che è stato creato da Lui o che viene
da Lui. Dunque non bisogna accettare nessuna realtà stabile, nessuna natura
durevole che sarebbe nell'uomo e nelle cose, nessuna verità costante, ma
occorre opporsi sempre a ciò che esiste trasformandolo con l'azione
rivoluzionaria. Con essa ci si crea e si crea la storia, nel rifiuto di
ogni dipendenza da Dio, e ci si pone in un atteggiamento che cosi è
totalmente "senza Dio". Non solo in modo dottrinale, ma con il
rifiuto pratico e totale di Dio i comunisti sono senza Dio, perciò essi si
professano "senza Dio militanti". E qui, per qualificare il loro
materialismo, bisogna porre l'accento sulla parola "militanti",
come sulla parola "storico". Questa
parola, "militanti", significa che si sopprime Dio non con una
negazione intellettuale, come nel l'ateismo dottrinale, ma con l'azione e
la lotta rivoluzionaria contro tutto ciò che viene da Lui, contro tutta la
sua creazione. Vedremo piú avanti come ciò può, in certe
tappe dell'azione rivoluzionaria, accordarsi perfettamente con
la tolleranza religiosa e perfino con la mano tesa al la religione.
Il marxismo va al l'estremo della rivendicazione
d' indipendenza totale del la creatura, ed è con ciò soprattutto che esso
è l 'ultimo frutto di tutto i l pensiero moderno: è il rifiuto definitivo
di qualsiasi realtà da cui l 'uomo dipenderebbe e che gli si imponesse, sia
che si tratti di una verità qualsiasi, di una realtà da conoscere cosí
com'è, o che si tratti del la sua stessa natura umana. Con l'azione,
e l'azione sola, facendo sé stesso e la storia senza dipendere da nulla e
da nessuno e senza accettare alcunché di esistente, l'uomo conquista una
indipendenza assoluta, essendo solo creatore e trasformatore attraverso
l'azione e nient'altro. Non è possibile un rifiuto piú assoluto di ogni
oggetto, di ogni esistenza che sia posta dinanzi e prima dell'attività umana
che s'imponga a questa e la sottometta: la nostra azione non è sottomessa
a niente e non dipende da nulla di esistente, c'è solo ciò che essa fa,
nient'altro che l'azione pura.
Occorre qui fare bene attenzione a ciò che è la
pura azione materiale rivoluzionaria per un marxista. Per l'uomo
comune l'azione ha uno scopo, si agisce per ottenere o realizzare un
bene, di modo che l'azione è subordinata o sottomessa a questo
bene ricercato, il quale costituisce cosí un oggetto posto dinanzi al
nostro volere come la realtà da conoscere dinanzi al la nostra
intelligenza.
E' evidente che il marxismo, non ammettendo alcuna
dipendenza né alcun oggetto, non ammetterà neppure un bene da amare
o realizzare in misura maggiore di quanto ammette che vi sia
una verità da conoscere. Un bene e un male la cui distinzione
e opposizione si impongano a noi, sono altrettanto inaccettabili per
il marxismo quanto un sí e un no, una verità e un errore. Per il marxismo
non vi è bene da amare né da realizzare, non c'è che l'azione da condurre.
Ammettere un bene che sia un fine, qualche cosa di buono che si debba
amare perché è buono, significherebbe imporre una dipendenza all'azione
umana. Il marxista che vive il suo marxismo non può amare nulla, poiché
l'amore mette in dipendenza dell'oggetto amato; il marxismo è il rifiuto
definitivo di ogni amore come di ogni verità. Se un comunista ci
presenta qualche ideale come un fine, per esempio l' ideale di giustizia
sociale messo innanzi alle rivendicazioni operaie, oppure
l'ideale patriottico, proposto oggi al popolo russo o al popolo cinese,
è unicamente perché la presenza di un ideale nei cervelli
umani diventa in questi casi un mezzo efficace per trascinarli all'azione
e alla lotta, un organo o uno strumento d'azione e di lotta delle
forze materiali. Stiamo certi, però, che il comunista che vive il
suo marxismo, ha in vista solo l'azione rivoluzionaria e la lotta
da condurre; l' ideale che mette avanti è solo un mezzo per condurre
meglio tale azione e tale lotta, e non ha, in sé stesso, alcun valore ai
suoi occhi: esiste solo in funzione di questa azione e di questa lotta e
solo per tutto il tempo che è utile a essa.
Questa esposizione del marxismo ci mostra a
qual punto, in tutto e totalmente, il marxismo stesso sia esattamente il
contrario e l'opposto del cristianesimo e di tutte le concezioni
cristiane, e con quale intelligenza inaudita e a dire il vero sovrumana,
esso prenda di contropiede il cristianesimo e realizzi praticamente
il materialismo e l'ateismo infinitamente meglio delle dottrine materialiste
o atee. La filosofia cristiana dimostra l 'esistenza di Dio partendo
dall'esistenza dell'uomo e dell'universo e come causa e origine di questa
esistenza; essa insegna che, se non ci fosse Dio a comunicare l'esistenza
a esseri che non se la sono potuta dare da soli, bisognerebbe concludere
che niente esiste. Il marxismo fa fronte rigorosamente a questa prova
ammettendo che, effettivamente, niente esiste, e conclude che Dio non
esiste poiché niente esiste; supponendo poi che si trovi, di fronte a noi
o in noi, qualche esistenza che sia il segno e la traccia di Dio, esso
insegna che non bisogna accettarla, ma sopprimerla attraverso
l'azione rivoluzionaria che gli è propria. Cosí il marxismo resta solo
un umanesimo esclusivo, che ammette solo l'azione umana. A questo umanesimo
esclusivo il pensiero moderno, imperniato esclusivamente sull'uomo, doveva
fatalmente pervenire. Chiunque vuole riconoscere soltanto la crescita e
l'indipendenza dell' individuo o della persona umana, o anche della
collettività o della società umana, e rifiuta di sottomettere tale
crescita e indipendenza a Dio e alla sua legge e di orientarle verso Dio,
apre fatalmente la strada al marxismo, sebbene solo il marxismo giunga al
termine di questa strada. Chiunque rifiuterà il primato della contemplazione, l'abbandono
dell' intelligenza a una verità da conoscere e della volontà a un bene da
amare, per rifugiarsi nell'ebrezza dell'azione pura e curarsi solo di
agire, è sulla strada del marxismo. Il capitale o l' industriale del secolo
scorso o di oggi, che fa del lavoro produttivo e dei suoi risultati
materiali lo scopo e l'essenza della vita umana, pianta un albero di cui
il marxismo sarà il frutto. Tutti coloro che annunciano che la civiltà
futura sarà una "civiltà del lavoro", ossia una civiltà in cui
il lavoro è il valore supremo della vita, sanno poi che l'unica civiltà
totalmente e unicamente "del lavoro" è il marxismo?
Ma al punto di crisi a cui siamo giunti oggi, le
soluzioni di compromesso non sono piú possibili: si tratta di essere o
marxisti o cristiani. Tra comunismo e cristianesimo bisogna scegliere: non
si possono associare le due cose, o metterle d'accordo, o
farle collaborare.
Fonte: tratto da “Conoscere il comunismo” di
J.Daujat (Società editrice Il Falco)
Origine del falso egualitarismo – G.Thibon
Il rifiuto dell’ascesi cristiana di Jung - J.C.Larchet
Che cos'è la sapienza - N.Cusano
Quanto ammirabile è quella forma, la cui infinità semplicissima non possono esplicare tutte le forme formabili! Solo chi s’eleva con sommo intelletto al di sopra d’ogni opposizione, riesce a intuire questa verità profondissima. E, se uno considerasse la forza naturale che è nell’unità, vedrebbe quella forza, se la concepisse in atto, come qualcosa di formale, visibile da lontano al solo intelletto. E poiché sarebbe la forza semplicissima dell’unità, sarebbe un’infinità semplicissima. Quindi, se questi considerasse la forma dei numeri, considerando la dualità o la decina, e tornasse, quindi, a considerare la forza attuale dell’unità, vedrebbe in questa forma, che si è ammesso essere la forza attuale dell’unità, l’esemplare precisissimo della dualità, della decina e d’ogni altro numero numerabile. Questo farebbe l’infinità della forma di ciò che abbiamo chiamato forza dell’unità: cioè che, mentre guardi la dualità, questa forma non può essere né maggiore né minore della forma della dualità di cui è l’esemplare precisissimo. Così vedi che la sapienza unica e semplicissima di Dio, in quanto infinita, è l’esemplare verissimo di tutte le forme formabili.
E questo è il suo modo di cogliere tutte le cose: per cui le attinge, le delimita e le ordina. È, infatti, in tutte le forme come la verità è nell’immagine, l’esemplare nell’esemplato, la forma nella figura e la precisione nell’assimilazione. E, sebbene [la sapienza] si comunichi a tutti con somma liberalità, essendo infinitamente buona, tuttavia, da nessuno può essere compresa come essa è. L’identità infinita non può essere ricevuta in altro, perché in altro sarebbe ricevuta secondo l’alterità. E benché non possa essere ricevuta in uno se non con alterità, essa è tuttavia ricevuta nel miglior modo possibile; ma l’infinità immoltiplicabile si esplica meglio nell’esser ricevuta in modo vario: la grande diversità, infatti, esprime meglio l’immoltiplicabilità. Ne consegue che la sapienza, ricevuta in modo diverso nelle diverse forme, fa sì che una forma qualunque chiamata all’identità nel modo che le è possibile, partecipi della sapienza, sicché alcune la partecipano in uno spirito molto distante dalla forma prima, il quale dà a esse a mala pena l’essere elementare; un’altra forma la partecipa in uno spirito più formato e le dà l’essere del minerale; un’altra in un grado ancor più nobile e le dà la vita vegetativa; un’altra in un grado ancor più alto e le dà la vita sensibile; e, quindi, vi sono le forme che [ricevono] la vita immaginativa; poi quelle che [ricevono] la vita razionale e, infine, quelle che hanno quella intellettuale.
Questo è il grado più alto: l’immagine più vicina della sapienza. Ed esso solo è il grado che ha l’attitudine a elevarsi al gusto della sapienza, perché nelle nature intellettuali l’immagine della sapienza è viva di vita intellettuale; la forza di questa vita sta nell’esprimere da sé il moto vitale che consiste nel tendere all’oggetto proprio che è la verità assoluta che è la sapienza eterna, grazie all’intendere. Questo tendere, essendo intendere, è anche gustare intellettualmente: apprendere con l’intelletto è cogliere la quiddità nel modo migliore con una degustazione graditissima. Come, infatti, con il gusto sensibile che non coglie la quiddità della cosa, si percepisce sensibilmente una gradevole soavità negli aspetti esterni della quiddità, così con l’intelletto si gusta nella quiddità una soavità intellettuale che è l’immagine della soavità della sapienza eterna che è la quiddità delle quiddità. E il paragone tra la soavità dell’una e dell’altra non è possibile.
Data la brevità di tempo, ti basti quanto abbiamo già detto, per sapere che la sapienza non sta nell’arte oratoria, né nei grandi volumi, bensì nel separarsi da queste cose sensibili, nel rivolgersi alla forma semplicissima e infinita, nel riceverla nel tempio puro da ogni vizio, nell’aderire a essa con amore ardente, al punto di poterla gustare e vedere quanto soave sia, essa che è ogni soavità. Quando l’avrai gustata, disprezzerai tutto quello che ora ti sembra grande e diventerai umile, in modo che nessuna traccia di superbia rimanga in te, né nessun altro vizio, perché con cuore castissimo e purissimo aderirai in modo indissolubile alla sapienza una volta che l’avrai gustata, preferendo abbandonare questo mondo e tutte le cose che non sono la sapienza, piuttosto che la sapienza stessa. Con indicibile letizia vivrai, morirai e riposerai in eterno, oltre alla morte, in essa, in un amorosissimo abbraccio; il che conceda a te e a me la sapienza sempre benedetta di Dio, Così sia.
Fonte: tratto da "La sapienza dell’idiota", Libro primo. Cfr. I dialoghi dell’idiota, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2003
La caduta degli ideali universali – G.K.Chesterton
Saper tacere ed ascoltare - Filone d'Alessandria
Fonte: tratto da "L’erede delle cose divine" di Filone d'Alessandria
Democrazia e Politìa secondo Aristotele
Secondo Aristotele siccome in psicologia
metafisica l’anima e la ragione comandano sul corpo
e sui sensi, così in politica devono governare gli
uomini in cui predominano l’anima e l’intelletto, mentre
quelli che vivono soprattutto secondo il corpo e i sensi o le passioni debbono
essere governati.
Per essere cittadino in una polis non
basta abitare in un villaggio ma occorre partecipare
al suo governo mediante il diritto e le leggi è per
questo che la democrazia o governo di tutti gli
uomini in vista del benessere temporale della massa è una
degenerazione della politìa, che è il governo di
una moltitudine capace di poter servire lo Stato nell’esercito e
nella magistratura, ossia la maggior parte di coloro
che partecipano alla vita pubblica mediante le leggi e il diritto
(magistrati e guerrieri) per il bene comune della Società e non di una sola
classe (massa/popolo).
Perciò la politìa per Aristotele non è il governo di tutti o della massa informe, ma del popolo inteso come la maggior parte dei cittadini (“i più/la moltitudine”), ossia la sanior pars civitatis. La democrazia è per Aristotele una degenerazione della politìa poichè non mira all’interesse comune, ma della massa e quindi è vera e propria tirannide della massa o demagogia (dal greco demagogòs capo-popolo, agogòs-dèmos, che si accattiva il favore della massa con promesse di beni difficilmente realizzabili), che rende ingovernabile la polis.
“L’errore in cui cade la democrazia è quello di ritenere che poichè tutti sono uguali nella libertà, tutti possano e debbano essere uguali anche in tutto il resto”.
Quanto alle classi che compongono
la polis Aristotele le divide così:
1) i coltivatori della terra e
gli allevatori del bestiame, che forniscono il cibo alla città;
2) gli artigiani, che
forniscono strumenti e manufatti ai cittadini;
3) i commercianti, che producono
ricchezza importando ciò che manca alla città
4) la polizia che difende
l’ordine interno alla città dai delinquenti e i guerrieri, che difendono la
città dai nemici esterni;
5) i giuristi, che stabiliscono per legge ciò che è giusto e ciò che è ingiusto per i cittadini, ossia i diritti e i doveri;
6) i filosofi che contemplano la verità e i sacerdoti, che rendono il culto alla Divinità.
Le prime tre classi (contadini, operai,
commercianti) non hanno le capacità e il tempo
per dedicarsi alla vita virtuosa, quindi non sono
veri cittadini ma servi di essi. Solo le altre tre classi
(esercito/polizia; giuristi/magistrati; filosofi/sacerdoti) sono veri
cittadini atti a governare la polis e a partecipare alla vita
politica scegliendo i governanti. Come si vede la sua non è affatto una
concezione democratica della politica in senso moderno.
Pur non avendo la concezione di un ordine
soprannaturale e di una Chiesa divinamente fondata Aristotele
concepisce il benessere comune temporale dello Stato subordinatamente a quello
spirituale o intellettualmente e praticamente virtuoso.
Infatti nell’Etica a Nicomaco e a
Eudemo aveva insegnato che i beni sono di due tipi: esterni o materiali
(del corpo) e interni o razionali (dell’anima). I primi sono semplici mezzi
ordinati ai secondi come al loro fine e
“ciò vale sia per l’individuo che per lo Stato. Quindi anche lo Stato deve
ricercare il bene comune temporale in maniera limitata o ordinata, ciò in
funzione dei beni spirituali, nei quali soltanto consiste la felicità
individuale e sociale. Di modo che la polis virtuosa è felice e fiorente. Non
può essere felice chi non vive virtuosamente e secondo ragione, sia individuo o
Stato. Quindi come il senno e la virtù rendono giusto, saggio e assennato il
privato cittadino, così è per la città".
Fonte: tratto da "Sintesi di filosofia politica", C.Nitoglia