Fluffer

A suscitare pena non sono tanto le celebrità che difendono e giustificano lo status quo, siano esse appartenenti al clero massmediatico dell’infotainment o alle schiere di virologi da salotto, all’esercito degli opinionisti onnipresenti, dei giornalisti totalmente asserviti al potere o delle stelline dell’industria pseudoculturale del divertimento di massa, quanto piuttosto i loro sostenitori o i loro follower, come usa dire oggi.

Quando si leggono i post di questi bramini fautori del politicamente corretto, della litania dei sacrifici inevitabili e dell’irreversibilità di certe scelte, cediamo spesso alla insalubre abitudine di scorrere i commenti sotto, un po’ per osservazione sociologica e un po’, ammetto, per macabra e morbosa curiosità.

Questi festanti e schiumanti adoratori, che fanno quadrato attorno ai loro idoli difendendoli da ogni critica e ribadendo con livore ogni loro posizione, ricordano la grottesca figura dei fluffer, quegli uomini e quelle donne che, nell’industria pornografica antecedente all’avvento dei farmaci per il vigore sessuale, dietro le quinte avevano il compito di mantenere gli attori eccitati tra una una scena e l’altra o in attesa che il regista trovasse l’inquadratura giusta.

Tuttavia, se almeno i fluffer, pur non godendo ovviamente della fama, dei compensi o dell’orgasmo liberatorio degli attori, ricevevano comunque una paga in cambio della loro peculiare attività, gli odierni ed entusiasti seguaci dei social, non solo dal loro titillare e conservare ben turgido ed eretto l’Ego di questi personaggi tramite messaggi di consenso, incitamento e approvazione, non ricavano alcun vantaggio concreto e materiale ma, addirittura, si fanno tragicamente complici, in un capolavoro di masochismo digitale, sindrome di Stoccolma e identificazione proiettiva, della perpetuazione ad libitum proprio del medesimo sistema che mutila ogni giorno sempre più le loro esistenze.