La sprofessionalizzazione della medicina - I.Illich

Inseguendo l'ideale della scienza applicata, la professione medica ha in gran parte cessato di perseguire gli obiettivi propri di un sodalizio artigiano che mette a frutto la tradizione, l'esperienza pratica, la dottrina e l'intuito, e ha finito per svolgere un ruolo che una volta era riservato al clero, usando i principi scientifici a mo' di teologia e i tecnici a mo' di accoliti. Come impresa, la medicina si occupa ormai non tanto dell'arte empirica di guarire il malato curabile, quanto della ricerca razionalistica diretta a salvare l'umanità dall'assalto del male, dai ceppi della menomazione e addirittura dalla necessità di morire.

Trasformandosi da arte in scienza, il corpo medico ha perso i suoi caratteri di una associazione di artigiani che applicano a beneficio di malati in carne e ossa le regole fissate per guidare i membri del mestiere. E' diventato un apparato ortodosso di amministratori burocratici che applicano principi e metodi scientifici a serie di 'casi' medici.

In altri termini, la clinica è ormai un laboratorio.

Pretendendo di saper prevedere gli esiti senza considerare la prestazione umana di chi deve guarire e la sua integrazione col proprio gruppo sociale, il medico contemporaneo ha assunto la tipica posa del ciarlatano d'una volta.

Come membro della professione il singolo medico è un elemento inscindibile di una squadra scientifica. La sperimentazione è il metodo della scienza, e lo schedario che egli tiene fa parte, gli piaccia o no, del corredo di dati di un'impresa scientifica. Ogni cura non è che la ripetizione di un esperimento, che ha una probabilità di successo definita statisticamente.

Come in ogni operazione che costituisca una vera applicazione scientifica, l'insuccesso è attribuito a qualche specie di ignoranza: insufficiente conoscenza delle leggi che valgono nella situazione particolare, difetto di competenza personale da parte dello sperimentatore nell'attuazione dei metodi e dei principi, o ancora sua incapacità di padroneggiare quella variante sfuggente che è il paziente. Ovviamente, in un'attività medica di questo genere, quanto meglio si domina il paziente tanto più sarà prevedibile l'esito. E quanto più l'esito sarà prevedibile in riferimento a un'intera popolazione, tanto più si dimostrerà efficace l'organizzazione.

I tecnocrati della medicina tendono a promuovere gli interessi della scienza, non a favorire i bisogni della società. I medici curanti nel loro insieme sono una burocrazia adibita alla ricerca. La loro responsabilità primaria è verso la scienza in astratto o, nebulosamente, verso la loro professione. La loro responsabilità personale per il cliente particolare è stata riassorbita in un vago senso di potere che si estende a tutti i compiti e a tutti i clienti di tutti i colleghi.

La scienza medica applicata dagli scienziati della medicina fornisce il trattamento corretto, e non importa se ne risulterà la guarigione o subentrerà la morte o non ci sarà alcuna reazione da parte del paziente: quel trattamento è legittimato da tabelle statistiche, le quali prevedono con una precisa frequenza tutti e tre gli esiti.

Nel caso concreto il singolo medico potrà ancora ricordarsi che se ha avuto un buon risultato nell'applicazione della sua arte, deve alla natura e al paziente altrettanta gratitudine quanta il paziente ne deve a lui. Ma solo un alto grado di assuefazione alla dissonanza cognitiva gli permetterà di proseguire nei ruoli divergenti di guaritore e di scienziato. Le proposte che cercano di combattere la iatrogenesi eliminando le ultime tracce di empirismo dall'incontro fra il paziente e il sistema medico sono espressione di una novella crociata di spirito inquisitorio. Usano il credo scientista per svalutare il giudizio politico.

Mentre la misura della scienza è la verifica operativa in laboratorio, la misura della politica è il confronto di avversari che si appellano a una giuria la quale applica l'esperienza passata a un problema attuale così come è sentito da persone reali. Negando ogni legittimazione pubblica alle entità che non sono misurabili per mezzo della scienza, la richiesta di una pratica medica pura, ortodossa, comprovata, mette al riparo questa pratica da ogni valutazione politica.

La preferenza religiosa data al linguaggio scientifico rispetto a quello del profano è uno dei principali baluardi del privilegio professionale. L'imposizione di questo linguaggio al discorso politico sulla medicina svuota facilmente tale discorso di ogni efficacia.

La sprofessionalizzazione della medicina non implica la messa al bando del linguaggio tecnico come non richiede l'esclusione della competenza autentica, e non è neppure in contrasto con la pubblica critica e denuncia della cattiva pratica medica. Implica bensì una pregiudiziale contro la mistificazione della gente, contro il reciproco accreditamento di presunti guaritori, contro il sostegno pubblico di una corporazione medica e delle sue istituzioni, e contro la discriminazione legale a opera e per conto di persone che i singoli o le comunità hanno scelto e designato come loro guaritori.

La sprofessionalizzazione della medicina non significa rifiuto di stanziamenti pubblici per scopi curativi, bensì significa contrarietà all'esborso di questo pubblico denaro su prescrizione o sotto il controllo di membri della corporazione. Non significa l'abolizione della medicina moderna. Significa che nessun professionista deve avere il potere di profondere per qualunque suo paziente un complesso di risorse terapeutiche maggiore di quello che ogni altro possa pretendere per il proprio.

Infine, non significa noncuranza per le esigenze particolari che si presentano in particolari momenti della vita: quando si nasce, ci si spezza una gamba, si diventa invalidi o si affronta la morte. La proposta che i medici non siano abilitati da un gruppo di potere non vuol dire che le loro prestazioni non debbano essere valutate, ma che questo giudizio può essere dato più efficacemente da clienti istruiti che dai loro colleghi. Il rifiuto di finanziamenti diretti per gli arnesi tecnici più costosi della magia medica non significa che lo Stato non debba proteggere i singoli dallo sfruttamento dei sacerdoti dei culti medici; significa soltanto che il denaro dei contribuenti non deve servire a instaurare riti del genere.

Sprofessionalizzare la medicina vuol dire smascherare il mito secondo cui il progresso tecnico imporrebbe di risolvere i problemi umani mediante l'applicazione di principi scientifici, il mito del vantaggio che si ricaverebbe da una maggiore specializzazione del lavoro e dal moltiplicarsi di manipolazioni arcane, e il mito che la crescente dipendenza dal diritto di accedere a istituzioni impersonali sia meglio della fiducia dell'uno nell'altro.

Fonte: tratto da “Nemesi Medica” di I.Illich (ed Red)



Chi sono i "casualisti"?

 Tutti parlano dei "complottisti", nessuno si ferma invece a riflettere sui "casualisti", figure altrettanto affascinanti. 

"Casualista" è chi dietro i grandi eventi storici, le svolte epocali, i fatti di incidenza mondiale, sempre ravvisa una casualità fortuita, che si regge tanto sull'evidenza delle dinamiche manifeste, che sulla narrazione lineare (allineata?) di chi legge, interpreta e digerisce la storia per lui. 

Il "casualista" è una persona mediamente istruita e piuttosto fiera del proprio titolo di studio; peccato che in genere non abbia cultura, ossia non abbia coltivato l'uomo, il quale cresce a sale, curiosità e spirito critico. Insomma, tara e orgoglio del "casualista" è l'essere stato nutrito di quel becchime liofilizzato che università e istituti statali spargono ad ampie manciate nei pollai della cultura civile ed educata, inibendo così le funzioni superiori dello spirito. Non si può biasimarlo, il nostro amico: legge il mondo con occhi che per natura sono adatti alla superficie, e siccome non ha inquietudini (o perché è sazio della sua vita borghese, oppure perché è comodo presso la sede di qualche partito), non ama scrutare nell'ombra del sottobosco, o scavare tunnel in cerca di radici. Il "casualista", in fondo, non vuole che essere lasciato in pace: il suo posto nel mondo ce l'ha, e le spiegazioni che gli sono state inculcate ben rendono conto dell'ordine che vuol preservare, pena la perdita della serenità e della certezza. Non si accorge di essere profondamente conservatore: lo è nel sangue. Ha infatti il DNA di quella stirpe di despoti che soggiogarono i popoli non con l'autorità ma con l'autoritarismo; lo si evince dal suo profondo e radicato classismo. I "non-casualisti" sono infatti per lui dei poveracci (precari?), degli ignoranti (bassa istruzione?), delle persone grigie e insoddisfatte (tristi ed egocentriche?): insomma, la caricatura maligna che la borghesia faceva dell'operaio ai tempi della lotta di classe. Siccome, tuttavia, il "casualista" si considera progressista ed open-minded, provenendo in genere da ciò che è fermentato dalla decomposizione della sinistra storica, chi non gli assomiglia non può che essere un "fascista": ecco dunque servito l'ultimo termine con cui la propaganda "casualista", nel suo senso di colpa, produce ad hoc il nemico pubblico numero 1. Poi, con in mano la sua amata marionetta "complottista", il "casualista" se ne va in giro tronfio a sputare sui compagni di classe: nella sua ingenuità, non si rende neppure conto che quel pupazzo è un giocattolo che gli è stato messo in mano dai genitori per tenerlo occupato mentre loro cucinano la cena (roba pesante, si intende, che mangeranno dopo averlo mandato a dormire). Non biasimate i "casualisti": sono stati talmente tante volte smentiti dalla storia a suon di ceffoni in faccia che sono diventati sordi. Non sentono più quando parlate, non possono ascoltarvi. Non vi capiscono. Sentono solo una voce che hanno dentro e che ripete incessantemente, in modo ossessivo, "andrà tutto bene". Stavolta, però, non lo scrivono più sulle lenzuola: non sia mai che affiori in loro un qualche sospetto.