«È
proprio così» dissi io; «ma poiché è tuo compito spiegare le cause delle cose
misteriose e chiarire le ragioni avvolte dall’oscurità, ti prego di espormi con
tutta chiarezza la tua opinione su questo problema, poiché questo fatto
sconcertante più d’ogni altro mi sconvolge». Ed ella allora, sorridendo un
poco: «Tu m’inviti» disse «a indagare una questione che di tutte è la più
impegnativa da sviscerare, e che non si riesce mai a esaurire interamente. Si
tratta infatti di un argomento tale che, risolto un dubbio, ne ricrescono
innumerevoli altri, come le teste dell’Idra; e non se ne vedrebbe mai la fine,
se non venissero domati dal fuoco divampante della mente. In questo campo
d’indagine rientrano infatti la semplicità della provvidenza, l’ordine del
destino, i casi fortuiti, la conoscenza e la predestinazione divina e il libero
arbitrio, tutti argomenti di cui tu spesso puoi comprendere l’importanza. Ma
siccome anche la loro conoscenza fa parte della tua cura, cercheremo,
nonostante la ristrettezza del tempo, di giungere a qualche conclusione. E
anche se ti danno piacere le modulazioni della poesia accompagnata dalla
musica, è bene differire per un poco questo godimento, mentre dispongo in un
ordine organico le mie argomentazioni». «Come ti pare meglio» risposi.
Allora ella, quasi rifacendosi a un altro principio, così prese a esporre:
«L’origine di tutte le cose, l’evoluzione delle nature in divenire, e tutto ciò
che in qualche modo si muove, traggono le loro cause, l’ordine e le forme
dall’immutabilità della mente divina. Essa, raccolta nella roccaforte della sua
semplicità, determina la molteplice modalità in cui gli eventi si svolgono.
Questa modalità, quando la si considera nella purezza stessa dell’intelligenza
divina, viene detta provvidenza; quando invece la si riferisce agli esseri che
muove e dispone, è stata detta destino dagli antichi. La loro diversità
apparirà evidente a chi penetri con la mente la loro reciproca capacità
operativa; la provvidenza infatti è quella stessa ragione divina, riposta nel
sommo Sovrano di tutte le cose, che tutto dispone; mentre il destino è
l’assetto inerente alle cose mutevoli, per mezzo del quale la provvidenza
inserisce ogni cosa nel proprio ordine. La provvidenza pertanto abbraccia
egualmente tutte le cose, benché diverse, benché infinite; il destino invece
muove le singole cose secondo che son distribuite nei diversi luoghi, nelle
diverse forme e nei diversi tempi, così che questo dispiegarsi dell’ordine
temporale raccolto in unità dinanzi allo sguardo della mente divina è
provvidenza, mentre il medesimo complesso, distribuito secondo la successione
temporale, vien chiamato destino.
«Pur
essendo essi diversi, son tra di sé interdipendenti; l’ordine del destino
deriva infatti dalla semplicità della provvidenza. E come l’artefice dapprima
concepisce nella mente la forma dell’opera che vuol realizzare e poi la porta a
compimento, sviluppando in diversi momenti di tempo quel che aveva unitariamente
contemplato dentro di sé, così Dio mediante la provvidenza dispone in maniera
singolare e immutabile quel che dev’essere fatto, e poi mediante il destino
sovrintende all’attuazione nella molteplicità e nel tempo delle cose che aveva
preordinato. Pertanto, sia che il destino si compia per l’opera di spiriti
divini al servizio della provvidenza, sia che la trama del destino s’intessa
per mezzo dell’anima, o dell’intera natura, o dei moti celesti degli astri, o
della forza degli angeli, o della multiforme destrezza dei demoni, o di alcune
di queste cose o di tutte insieme, una cosa è chiara, che la provvidenza è la
forma semplice e immobile delle cose che devono essere compiute, mentre il
destino è il concatenamento mutevole e l’ordine temporale di tutto ciò di cui
la semplicità divina ha disposto l’attuazione.
«Ne
consegue che tutte le cose sottoposte al destino sono pure soggette alla
provvidenza, alla quale è soggetto lo stesso destino. Però alcune delle cose
che soggiacciono alla provvidenza trascendono il corso del destino, e sono
quelle che, stabilmente fisse vicino alla prima Divinità, si collocano al di
fuori dell’ordine inerente alla mutevolezza del destino. E come, tra più cerchi
volgentisi intorno a un medesimo fulcro, quello che è più interno si approssima
alla semplicità del punto medio, ed esso stesso diviene per così dire come il
fulcro attorno a cui tutti gli altri girano, mentre il cerchio più esterno,
ruotando con una circonferenza maggiore, si volge in spazi tanto più ampi
quanto più si allontana dall’indivisibile punto mediano – se poi qualche cosa
si unisce o si associa a quel punto mediano, diviene necessariamente semplice
anch’essa e cessa di estendersi ed espandersi –: in simile modo quello che più
s’allontana dalla prima mente, tanto più s’avviluppa nei lacci del destino e,
al contrario, tanto più un essere è libero dal destino quanto più s’avvicina a
quel fulcro di tutte le cose; e se aderisce alla stabilità della mente suprema,
privo di moto, s’innalza anche al di sopra della necessità del destino. Come
dunque il ragionamento sta all’intuizione, ciò che viene generato a ciò che è,
il tempo all’eternità, la circonferenza al centro, così il corso mutevole del
destino sta all’immobile semplicità della provvidenza.
«L’ordine
del destino muove il cielo e le stelle, associa tra di loro gli elementi e li
trasforma con alterne mutazioni, e rinnova tutto ciò che nasce e che muore
mediante consimili sviluppi di semi e di embrioni. E ancora quest’ordine
avvince le azioni e le varie vicende degli uomini con un’inscindibile
connessione causale; la qual connessione procedendo nella sua origine dai
principi dell’immobile provvidenza, è necessario che anche quelle cause siano
immutabili. Le cose infatti sono ordinate nella maniera migliore se la semplicità
che risiede nella mente divina dà origine a un ordine irremovibile di cause, e
quest’ordine poi con la sua immutabilità raffrena le cose mutevoli che
altrimenti andrebbero vagando caoticamente. Per quanto dunque a voi, del tutto
incapaci di discernere quest’ordine, tutte le cose appaiano confuse e
sconvolte, non di meno ubbidiscono tutte a una loro norma, che le orienta verso
il bene. Nessuna azione, infatti, viene compiuta a fin di male neppure dagli
stessi malvagi; questi, come ho abbondantemente dimostrato, cercano sì il bene,
ma ne sono sviati da un perverso errore; tanto è impensabile che l’ordine che
scaturisce dal fulcro che è il sommo bene possa mai deflettere dalla sua
origine.
«Ma,
dirai tu, quale confusione può essere più iniqua di questa, che ai buoni
tocchino in sorte ora casi avversi ora prosperi, e ai cattivi ora cose
desiderate ora sgradite? Ebbene, dimmi: gli uomini vivono di solito in una
condizione mentale così equanime, che le persone da loro giudicate buone o
cattive siano necessariamente tali in realtà, quali le hanno giudicate? Al
contrario, proprio in questo discordano i giudizi umani, tanto che gli uni
stimano degni di premio quelli stessi che gli altri ritengono meritevoli di
pena. Ma ammettiamo pure che alcuno sia in grado di distinguere i buoni dai
cattivi; potrà egli forse scrutare in profondità la struttura – come si dice
dei corpi – delle anime? Non sarebbe infatti diversa la sua meraviglia da
quella di chi non sapesse perché, tra i corpi sani, ad alcuni facciano bene
alimenti dolci, ad altri amari, e perché alcuni malati abbiano sollievo da
rimedi leggeri, altri da più energici. Ma di ciò non si stupisce affatto il
medico, il quale ben conosce la sintomatologia e le caratteristiche dello stato
di salute o di malattia. E che altro è la salute dell’anima, se non la probità,
che altro la malattia, se non il vizio? Chi altri è il difensore del bene e il
nemico del male se non Dio, signore e medico delle anime? Egli, guardando
dall’alto osservatorio della sua provvidenza, sa quel che a ciascuno conviene e
concede a ciascuno quel che sa essergli adatto. E qui sta quel mirabile
prodigio dell’ordine inerente al destino, che Chi lo conosce opera cose di cui
devono stupirsi coloro che tale conoscenza non hanno.
«Per
riassumere ora in breve le poche cose che la ragione umana è capace d’intendere
della profondità divina, ti dirò che l’onnisciente provvidenza può giudicare
diversamente una persona che tu ritieni quant’altri mai onesta e osservante
della giustizia. Il nostro Lucano ci avverte che agli dei piacque la causa del
vincitore, a Catone quella del vinto. Ecco dunque: quanto vedi avvenire al di
fuori di ogni aspettazione, in realtà è un ordine giusto, per quanto per il tuo
modo di vedere sia un’assurda confusione. Ma ammettiamo pure che uno sia così
ben costumato che nei suoi confronti il giudizio divino e quello umano
concordino pienamente; però è poco forte di animo e, se gli capitasse qualche
contrarietà, cesserebbe probabilmente di coltivare quell’integrità morale che
non gli valse a propiziargli la fortuna; per questo una saggia dispensazione
risparmia colui che le avversità potrebbero rendere meno buono, così che non
debba sopportare dure prove colui che non vi è adatto. Vi è un altro adorno
della perfezione di tutte le virtù, santo e prossimo a Dio: ebbene, la
provvidenza ritiene empio che questi sia colpito da qualsivoglia sventura, a
tal segno da non permettere che sia molestato neppure da malattie corporee.
Perché, come disse uno anche di me più eccelso, di un uomo santo il corpo l’han
costruito i cieli.
Accade
poi spesso che il potere supremo sia affidato ai buoni perché la disonestà
dilagante venga fiaccata. Ad altri la provvidenza distribuisce sorti variamente
combinate, a seconda delle qualità dei loro animi: ne affligge alcuni perché
non abbiano a insuperbirsi per un lungo periodo di felicità; lascia che altri
siano sfibrati da acerbe contrarietà perché con l’uso e l’esercizio della
pazienza consolidino le virtù dell’animo. Questi temono più del giusto quel che
possono sopportare, quelli prendono alla leggera più del giusto quello che non
possono sopportare; e costoro vengono messi alla prova dall’infelicità. Non
pochi s’acquistarono venerata rinomanza nei secoli a prezzo duna morte
gloriosa; taluni poi, indomiti dai tormenti, diedero agli altri dimostrazione
che la virtù è invincibile dal male; ed è indubitabile che tutto questo avviene
in modo quanto mai giusto e confacente, e con vantaggio di coloro che ne
sembrano colpiti.
«Dalle
stesse cause deriva anche il fatto che ai malvagi accadono eventi ora tristi
ora lieti. Dei tristi nessuno si meraviglia, poiché tutti pensano che essi si
sian comportati male; ed è poi certo che le punizioni da cui son colpiti non
solo distolgono gli altri dal mal fare, ma anche correggono quelli stessi che
le sopportano. I lieti poi forniscono ai buoni una gran prova della stima in
cui si debba tenere una felicità di tal genere, che vedono spesso al servizio
dei malvagi. A questo proposito credo che venga anche tenuto conto del fatto
che alcuno, dotato di indole impetuosa e sconsiderata, possa venir inasprito
fino al delitto dalle sue ristrettezze economiche; ma a una tal malattia
rimedia la provvidenza, colmandolo di ricchezze. Questi, esaminando la propria
coscienza macchiata di turpitudini e mettendo a confronto se stesso con la
propria fortunata condizione, vien forse assalito dal timore di dover perdere
nella tristezza tutto quello che ora gli è piacevole usare; si deciderà quindi
a mutar condotta, e così, per timore di perdere la propria fortuna, si
allontanerà dalle vie dell’iniquità. La felicità malamente usata fa precipitare
altri in ben meritata sventura; ad altri vien concessa facoltà di punire,
perché ciò sia di prova per i buoni e di castigo per i malvagi. Infatti, come
non può esservi alcuna intesa tra buoni e malvagi, così neppure i malvagi
stessi vanno mai d’accordo tra loro. E perché non dovrebbe essere così, dal
momento che ciascuno di loro è in disaccordo con se stesso, avendo la coscienza
dilaniata dai vizi, e commette spesso azioni che, quando le abbia compiute,
veda bene che non dovevano esser compiute?
«Da
ciò spesso la somma provvidenza ha tratto l’ammirevole prodigio che fossero dei
malvagi a rendere buoni altri malvagi. Infatti alcuni, giudicandosi vittime di
ingiustizie da parte di sciagurati, ardendo d’odio per chi fa loro del male,
ritornano sul buon sentiero della virtù, sforzandosi di esser diversi da coloro
che odiano. Soltanto per la potenza divina anche i mali son beni, in quanto,
usandoli convenientemente, ne ottiene un qualche risultato di bene. Un ordine
determinato abbraccia infatti tutte le cose; e quel che si allontana dalla
funzione che in quell’ordine gli è attribuita, ricade pur sempre in un ordine,
sia pure diverso, così che nel regno della provvidenza il capriccio del caso
non abbia alcun potere.
Ma
mi è di peso dir ciò, come se un Dio io fossi.
«Non
è infatti lecito a un uomo abbracciare con la mente o spiegare con le parole
tutti i particolari dell’opera divina. Basti aver compreso soltanto questo, che
Dio, creatore di tutte le cose naturali, tutte quante le ordina e le orienta al
bene, e che, mentre si preoccupa di conservare quel che ha procreato a propria
somiglianza, elimina ogni male dai confini del suo regno per mezzo della
successione degli eventi determinata dal destino. Ne deriva che, se consideri
l’opera ordinatrice della provvidenza, tu debba convincerti che non esiste
nessuno di quei mali, di cui si crede che la terra trabocchi. Ma vedo che tu,
gravato dal peso del problema e affaticato dalla lunghezza del ragionamento,
aspetti con desiderio un poco di sollievo da una poesia; prendine dunque un
sorso, per potere, ristorato, proseguire con maggior lena sulla via che ti
resta da percorrere.
Fonte:
tratto da
De
Consolatione philosophiæ, Libro IV, capitolo 6: Il Destino e
la Provvidenza (cfr. Boezio, La Consolazione della Filosofia. Gli opuscoli teologici,
a cura di Luca Obertello, Rusconi, Milano, 1979).
L’Essenza nelle sostanze composte – S.Tommaso D’Aquino
Bisogna
sapere che, come dice Aristotele nel quinto libro della Metafisica,
l'ente per sé si dice in due sensi: il primo è quello per cui si divide
nelle dieci categorie, il secondo è quello che esprime, nelle
proposizioni, il loro essere vere. La differenza è che nel secondo senso
può essere detto ente tutto ciò su cui può essere formulato un giudizio
affermativo, anche se ciò non pone nulla come esistente nella realtà.
In questo senso anche le negazioni e le privazioni si dicono enti, e
infatti diciamo che l'affermazione è opposta alla negazione e che la
cecità è nell'occhio. Ma nel primo senso non si può dire ente se non ciò
che ponga qualcosa come esistente nella realtà, e di conseguenza,
secondo questo modo di intendere, la cecità e le realtà di questo tipo
non sono enti. Il termine di essenza non deriva quindi dall'ente inteso
nel secondo senso, poiché in riferimento ad esso sono dette enti delle
realtà che non hanno essenza, come è evidente nelle privazioni:
piuttosto, il concetto di essenza deriva dall'ente inteso nel primo
senso. Perciò Averroè, nello stesso luogo, nota: l'ente inteso nel primo
senso è ciò che indica l'essenza della cosa. E poiché, come si è detto,
l'ente inteso in questo senso si divide nelle dieci categorie, è
necessario che l'essenza significhi qualcosa di comune a tutte le
nature, per le quali i diversi enti vengono collocati nei diversi generi
e specie, come l'umanità è l'essenza dell'uomo e così via. E poiché ciò
per cui le cose sono costituite nel proprio genere o specie è ciò che
indichiamo con la definizione che dice cosa è quella realtà, i filosofi
trasformano il termine essenza in quello di quiddità e questo è ciò che
Aristotele spesso chiama quod quid erat esse, ossia ciò per cui qualcosa
è qualcosa di determinato. Viene anche detta forma, in quanto con
questa parola si indica l'essere determinato di ogni cosa, come dice
Avicenna nel secondo libro della sua Metafisica. Infine può essere detta
anche natura, assumendo il termine nel primo dei quattro sensi che
Boezio, nel De duabus naturis, gli assegna, secondo il quale natura è
ciò che in qualunque modo può essere colto dall'intelletto. Infatti una
realtà non è intelligibile se non per la sua essenza e la sua
definizione: e infatti Aristotele dice, nel quarto libro della
Metafisica che ogni sostanza è natura. Il termine natura, assunto in
questo significato, sembra indicare l'essenza della realtà in quanto è
ordinata alla propria operazione, in quanto nessuna realtà può mandare
della propria operazione. Il concetto di quiddità in realtà viene
desunto da ciò che indica la definizione, ma è detta essenza in quanto
con essa e in essa l'ente ha l'essere. Ma poiché l'ente è in senso
assoluto e primario la sostanza, e solo secondariamente e in senso
relativo gli accidenti, l'essenza in senso vero e proprio è nelle
sostanze, e negli accidenti solo in un certo senso e relativamente. Tra
le sostanze alcune sono semplici e altre composte: in entrambe c'è
l'essenza, ma in modo più vero e più nobile in quelle semplici, per il
fatto che possiedono un essere più nobile. Sono infatti causa di quelle
composte, per lo meno quella sostanza semplice e prima che è Dio. Ma
poiché le essenze di quelle sostanze sono per noi più nascoste bisogna
iniziare dall'essenza delle sostanze composte, in quanto è metodo
didattico più conveniente partire dalle cose più facili.
Nelle
sostanze composte, quindi, forma e materia sono note, come nell'uomo
l'anima e il corpo. Non si può però sostenere che una sola di queste due
realtà sia l'essenza. È evidente, infatti, che la materia da sola non è
l'essenza, poiché una realtà è conoscibile proprio in virtù della sua
essenza e viene classificata in genere e specie grazie ad essa, mentre
la materia non è principio di conoscenza, e neppure può determinare
qualcosa secondo il genere o la specie: ciò è possibile solo grazie a
ciò per cui qualcosa è in atto. E neppure si può identificare l'essenza
con la sola forma della sostanza composta, sebbene alcuni si sforzano di
sostenere questa tesi. Da quanto è stato detto è evidente, infatti, che
l'essenza è ciò che viene indicato con la definizione della cosa, e la
definizione delle sostanze naturali contiene non solo la forma ma anche
la materia: se così non fosse, non ci sarebbe alcuna differenza tra le
definizioni delle realtà fisiche e quelle delle realtà matematiche. E
neppure si può affermare che la materia, nella definizione della
sostanza naturale, venga posta come qualcosa di aggiunto alla sua
essenza, o come un ente indipendente dalla sua essenza: questo tipo di
definizioni infatti è tipico degli accidenti, che non hanno una essenza
in senso proprio, e la cui definizione perciò deve comprendere il
soggetto che è esterno al loro genere. E' evidente quindi che l'essenza
comprende materia e forma. D'altra parte non si può neppure sostenere
che l'essenza indichi la relazione tra la materia e la forma, o qualcosa
di aggiunto ad esse: infatti ciò sarebbe, necessariamente, un accidente
o comunque qualcosa di estraneo alla cosa in questione, e non sarebbe
possibile conoscere, attraverso di essa, la cosa stessa. Tutto ciò,
invece, è proprio dell'essenza. Infatti attraverso la forma, che è atto
della materia, quest’ultima è resa ente in atto e realtà determinata, e
perciò ciò che si aggiunge non da alla materia semplicemente l'essere in
atto, ma l'essere-tale, come fanno gi accidenti: la bianchezza, per
esempio, fa esistere in atto una cosa bianca. Perciò quando viene
acquisita una forma simile (cioè accidentale) non si può dire che generi
qualcosa in senso vero e proprio, ma solo in un certo senso. Resta
stabilito che il termine essenza nelle sostanze composte indica ciò che è
composto dalla materia e dalla forma. Boezio è d'accordo con questa
affermazione quando dice, commentando le Categorie, che ousia significa
composto. Ousia infatti presso i Greci ha lo stesso significato che
essenza per i Latini, come egli stesso spiega nel libro De duabus
naturis. Anche Avicenna dice che la quiddità delle sostanze composte è
la stessa composizione di materia e forma. E infine Averroè, a proposito
del settimo libro della Metafisica, scrive: "La natura che hanno le
specie nelle cose generabili è qualcosa di medio, cioè composto di
materia e forma". Il ragionamento infine conferma queste affermazioni
autorevoli, poiché l'essere della sostanza composta non è solo l'essere
della forma e neppure quello della sola materia bensì dallo stesso
composto: l'essenza invece è ciò sotto il cui profilo la cosa è detta
esistente.
Da qui
segue necessariamente che l'essenza, in forza della quale la cosa viene
detta ente, non sia solo forma o solo materia, ma entrambe, sebbene sia
solo la forma a suo modo la causa di questo essere. Infatti vediamo qui,
come in altri casi, che le cose che sono costituite di più principi non
traggono il loro nome da uno solo di quei principi, ma da ciò che li
raccoglie entrambi. Ciò è evidente nei sapori: la dolcezza è causata
dall'azione del caldo che digerisce l'umido, e sebbene il questo modo il
calore sia la causa della dolcezza, tuttavia un corpo non viene detto
dolce per il calore, ma per il sapore che comprende il caldo e l'umido.
Ma dato
che il principio di individuazione è la materia, sembra seguire che
l'essenza, che raccoglie contemporaneamente in sé forma e materia, sia
soltanto particolare e non universale. La conseguenza sarebbe che gli
universali non avrebbero una definizione, dato che l'essenza è ciò che
viene indicato con la definizione. Bisogna perciò sapere che non la
materia intesa in qualunque senso è principio di individuazione, ma solo
la materia signata, e chiamo materia signata quella considerata sotto
certe dimensioni. Questa materia non entra nella definizione di uomo in
quanto uomo, ma entrerebbe nella definizione di Socrate, se Socrate
avesse una definizione. Nella definizione di uomo entra invece la
materia non signata perché nella definizione di uomo non entra questo
osso e questa carne, ma l'osso e la carne intesi in senso assoluto
questa è la materia non signata dell'uomo.
Risulta
quindi evidente che l'essenza dell'uomo e quella di Socrate non
differiscono se non per il fatto che nella seconda esiste qualcosa di
determinato quantitativamente e nella prima no: perciò Avicenna, a
proposito del settimo libro della Metafisica, nota: "Socrate non è altro
che animalità e razionalità, che sono la sua essenza". E così anche
l'essenza del genere e quella della specie differiscono per una maggiore
o minore determinazione, sebbene nei due casi ci siano due modi diversi
di determinazione. Infatti la determinazione dell'individuo nei
confronti della specie avviene attraverso la materia nella quale si
possono individuare le tre dimensioni, mentre la determinazione della
specie nei confronti del genere avviene attraverso la differenza
specifica che deriva dalla forma.
Ma
questa determinazione o designazione, che troviamo nella specie rispetto
al genere, non avviene per qualcosa che esiste nell'essenza della
specie e che non c'è in nessun modo in quella del genere: piuttosto,
tutto ciò che esiste nella specie esiste anche nel genere, ma come
indeterminato. Infatti, se l'animale non fosse tutto ciò che è l'uomo,
ma solo una sua parte, non verrebbe predicato di lui, perché nessuna
parte integrante può venire predicata dell'intero di cui è parte.
Come
accada questo si può vedere se si consideri la differenza tra il corpo
inteso come parte dell'animale e il corpo inteso come genere: non si può
dire che è genere allo stesso modo in cui è parte dell'intero. Quindi
il nome corpo può essere inteso in diversi significati. Infatti viene
detto corpo se considerato nella categoria della sostanza, per il fatto
di avere una natura tale che in esso si possono indicare le tre
dimensioni. Queste stesse dimensioni, in quanto determinate
quantitativamente, costituiscono il corpo nella categoria della
quantità. Ma accade in natura che a ciò che possiede una sola perfezione
possa aggiungersi una perfezione ulteriore, come appare evidente
nell'uomo, che ha la natura sensitiva e in più quella intellettiva. In
modo simile, anche alla perfezione che consiste nel possedere una forma
tale che in essa possano essere determinate le tre dimensioni, si può
aggiungere un'altra perfezione, come la vita o qualcosa del genere.
Quindi
questo nome, corpo, può indicare una certa realtà determinata, che
possiede una forma tale da implicare in quella realtà la possibilità di
indicare le tre dimensioni, con esclusione di ogni altra perfezione che
possa seguire da quella forma, in modo che, se si aggiunge
qualcos'altro, sia qualcosa di ulteriore al significato di corpo inteso
in questo modo. In questo senso il corpo è parte materiale e integrale
dell'animale poiché l'anima sarà qualcosa di ulteriore a ciò che è
significato col nome di "corpo" e si aggiungerà allo stesso corpo, cosi
che l'animale sarà costituito da queste due realtà, cioè anima e corpo,
come da due parti.
Il corpo
può anche essere inteso in modo tale da indicare una realtà che
possieda una forma per la quale si possano indicare in essa realtà le
tre dimensioni, qualunque sia quella forma, sia che da essa possa
provenire un'ulteriore perfezione oppure no. In questo modo corpo sarà
il genere "animale" poiché nell'animale non è possibile concepire nulla
che non sia contenuto implicitamente nel corpo.
L’anima
infatti non è un forma diversa da quella per cui in quella realtà si
potevano indicare le tre dimensioni : per questo, quando si diceva che i
corpo è ciò che possiede una forma tale per cui si possono indicare
nella realtà le tre dimensioni, si intendeva qualunque forma, sia
l'anima o la pietreità o qualunque altra. Così la forma dell'animale è
contenuta implicitamente nella forma del corpo, in quanto il corpo è il
suo genere.
Identico
è il rapporto che c'è tra animale e uomo. Se infatti il termine animale
indicasse soltanto una realtà che avesse la perfezione di sentire e di
muoversi grazie a un principio a lui intrinseco, escludendo altre
perfezioni, allora qualunque altro modo di essere superiore
sopraggiungesse, sarebbe da considerare, rispetto all'animale, come una
parte e non come implicitamente contenuta nel concetto di animale: e
cosi animale non sarebbe un genere. Ma è genere in quanto indica una
realtà dalla cui forma provengono sensibilità e capacità di movimento,
qualunque sia quella forma, sia che sia un'anima soltanto sensitiva sia
che sia sensitiva e razionale insieme. Così infatti il genere indica in
modo indeterminato tutto ciò che è nella specie, e non soltanto la
materia. In modo simile anche la differenza specifica indica la
globalità dell'ente individuale, non solo la forma. Anche la definizione
indica la globalità dell'ente, e così la specie, ma in modi diversi,
perché il genere indica la globalità dell'ente come una certa
determinazione che determina l'aspetto materiale della cosa, senza
determinare la forma specifica. Perciò il genere deriva dalla materia,
anche se non è materia, come risulta evidente dal fatto che si chiama
corpo quel modo d'essere per cui si possono determinare nella realtà le
tre dimensioni, modo d’essere che è come l'aspetto, materiale nei
confronti di un modo d'essere di ordine superiore. La differenza
specifica invece e al contrario è come una determinazione presa da una
forma in modo determinato, senza che nel suo primo concetto sia inclusa
la materia determinata, come è evidente quando si dice "animato", ossia
ciò che ha l'anima: infatti non si precisa che cosa sia, se un corpo o
qualcosa d'altro. Perciò Avicenna afferma che il genere non viene
pensato nella differenza specifica come una parte dell'essenza, ma solo
come un ente al di fuori di essa, come per esempio il soggetto nel
concetto delle passioni. E perciò il genere non viene predicato,
propriamente parlando, della differenza, come dice Aristotele nel terzo
libro della Metafisica e nel quarto libro dei Topici, se non, forse,
come il soggetto viene predicato delle passioni. Ma la definizione o
specie li comprende entrambi, da un lato la materia determinata col nome
del genere e dall'altro la forma determinata indicata col nome della
differenza specifica.
Da tutto
ciò risulta evidente la ragione per cui genere, specie e differenza si
riferiscono rispettivamente alla materia, alla forma e al concreto
composto esistente nella realtà, sebbene non siano affatto questi
ultimi: infatti il genere non è la materia, ma è desunto da essa in modo
da indicare la globalità dell'ente, e nemmeno la differenza è la forma,
sebbene sia desunta dalla forma in modo da indicare la globalità
dell'ente. Noi infatti diciamo che l'uomo è un animale razionale, non
che risulta dall'animale e dal razionale come diciamo che risulta
dall'anima e dal corpo. Così si dice che l'uomo è composto di anima e di
corpo come una realtà che sia composta da altre due senza essere né
l'una né l'altra. L'uomo infatti non è né l'anima né il corpo. E se si
dice che in qualche modo l'uomo risulta da animale e razionale, non si
intende ciò nel senso di una cosa che deriva da altre due cose, ma di un
concetto che deriva da altri due concetti. il concetto di animale
esprime la natura della cosa senza determinare la forma specifica ma
soltanto ciò che è materiale rispetto alla perfezione ultima. Il
concetto poi della differenza razionale consiste nella determinazione
della forma speciale: da questi due concetti risulta il concetto di
specie o di definizione. Perciò, come una realtà composta da altre due
non può essere definita da esse, così neppure un concetto può essere
definito attraverso i concetti di cui è composto: tanto è vero che non
si dice che la definizione sia il genere o la differenza specifica.
Sebbene il genere indichi l'essenza della specie nella sua globalità,
non è per questo necessario che specie diverse delle quali sia identico
il genere abbiano un'unica essenza, perché l'unità del genere deriva
dalla sua stessa indeterminazione o mancanza di differenze. Questo
avviene non perché ciò che il genere indica sia una natura identica
nelle diverse specie cui si aggiunga, a determinarla, la differenza
specifica come una realtà ulteriore, come la forma determina la materia
che è numericamente una: piuttosto, questo avviene perché il genere
indica una forma, anche se non in modo determinato come quella indicata
dalla differenza specifica (che non è altro che la forma indicata in
modo indeterminato dal genere).
Perciò
Averroè, commentando il dodicesimo libro della Metafisica, dice che la
materia prima è una per la mancanza di una forma qualsiasi, ma che il
genere è uno per la sua unione con la forma che esprime. Da ciò è
evidente che attraverso l'aggiunta della differenza specifica e la
soppressione di quella indeterminazione che era la causa dell'unità del
genere, rimangono le specie diverse per essenza.
Poiché,
come si è detto, la natura della specie è indeterminata rispetto
all'individuo, come quella del genere è indeterminata rispetto alla
specie, si ha questa conseguenza: come ciò che è genere, in quanto è
predicato della specie, implica nel proprio significato, sebbene in modo
indeterminato, tutto ciò che è presente in modo determinato nella
specie, così è necessario che ciò che è specie, in quanto è predicato
dell'individuo, indichi in modo indistinto tutto ciò che per essenza è
nell'individuo. In questo senso l'essenza di Socrate è contenuta nel
concetto di uomo, perché "uomo" si predica di Socrate.
Se però
si vuole indicare la natura della specie con esclusione della materia
signata, che è il principio di individuazione, la si tratterà come
parte, e così verrà indicata col nome di "umanità", perché "umanità"
indica ciò per cui l'uomo è uomo. La materia signata, però, non è ciò
per cui l'uomo è uomo, e perciò in nessun modo è tra quei principi da
cui l'uomo riceve l'esser-uomo. Dal momento che il concetto di "umanità"
comprende solo ciò da cui l'uomo riceve il suo esser-uomo, è evidente
che dal suo significato è esclusa ed eliminata la materia signata. E
poiché la parte non si predica del tutto, l'umanità non si predica né
dell'uomo né di Socrate. Perciò Avicenna dice che la quiddità del
composto non è lo stesso composto di cui è quiddità, sebbene sia essa
stessa composta, così come l'umanità, sebbene sia un composto, tuttavia
non è l'uomo. A maggior ragione è necessario che sia accolta in un
qualcosa, che è la materia signata.
Ma, come
si è detto, la determinazione della specie nei confronti del genere
avviene attraverso la forma, mentre la determinazione dell’individuo nei
confronti della specie avviene attraverso la materia: perciò è
necessario che il termine che indica ciò da cui viene assunta la natura
di genere, con esclusione della forma determinata che porta alla
completa determinazione la specie,indichi la parte materiale del tutto
in questione, come il corpo è la parte materiale dell'uomo. Al contrario
il termine che indica ciò da cui viene assunta la natura di specie, con
esclusione della materia signata, indica la parte formale. Così
"umanità" è intesa come una certa forma, e si dice che è forma del
tutto, non q'ome se fosse aggiunta dall'esterno alle parti essenziali,
cioè forma e materia, come la forma della casa si aggiunge dal di fuori
alle sue parti integrali che la compongono, ma piuttosto è la forma che è
il tutto, raccogliendo forma e materia senza però comprendere quei
principi per cui viene designata la materia.
Così
quindi è evidente che la parola "uomo" e la parola "umanità" indicano
l'essenza dell'uomo ma in modo diverso, come si è detto, perché la
parola "uomo" la indica come un qualcosa di globale e come un tutto, in
quanto non esclude la determinazione della materia ma la contiene
implicitamente e in modo indistinto, come si è visto che il genere
contiene la differenza, e perciò la parola "uomo" si predica degli
individui. La parola "umanità", invece, indica l’essenza dell'uomo come
parte perché non contiene nel suo significato nulla se non ciò che è
proprio dell'uomo in quanto è uomo, ed esclude una determinazione della
materia: perciò non viene predicata degli individui. Per questo motivo
talvolta il termina "essenza" si trova predicato della realtà (si dice
infatti che Socrate è una essenza) e talvolta no (come quando si dice
che l'essenza di Socrate non è Socrate).
Fonte: tratto da "L’Ente e l’Essenza", Tommaso D’Aquino (Ed. Bompiani)
Iscriviti a:
Post (Atom)