Mishima, un eroe anti moderno

 

Yukio Mishima, nome d’arte di Kimitake Hiraoka, non fu un semplice scrittore. Chi non vive solo di compartimenti stagni, e non ha una visione edulcorata dell’arte, non può relegare in un angolo un percorso artistico così multidisciplinare, poliedrico e complesso.

Tutta la vita dell’autore giapponese è un tendere alla perfezione ed alla completezza. Un anelare alla bellezza, un tentativo di congiungere in un unico punto, elevato e splendente la sintesi tra “la penna e la spada”. In un equilibrio fragile ma accecante come appunto i fiori di ciliegio all’apice della fioritura.

Mishima fu scrittore, poeta, drammaturgo, attore, fu uomo coerente con la sua costante ricerca in ogni ambito in cui si cimentò. Una personalità totalizzante lo portò anno dopo anno, fino alla parte finale della sua esistenza terrena, alla continua riscoperta delle proprie radici, in un percorso a ritroso, un risalire il fiume della tradizione del Giappone oltraggiato e mortificato. Un Giappone svilito nella sua intimità dalle pesanti condizioni imposte dai “liberatori”. Il Giappone, forse l’ultimo baluardo contro la modernità, ridotto a “mera espressione geografica”, oltraggiato a dismisura. Un’antica nazione, una società organica, che basava la propria esistenza sul culto di un Imperatore come rappresentazione pura della Divinità, ridotta ad un cumulo di macerie spirituali. È questo l’aspetto di cui bisogna tener conto accostandosi, a poco più di 50 anni dalla sua morte, ad uno scrittore che sfiorò tre volte il premio Nobel per la letteratura. L’aspetto che deve risaltare al di là dei suoi innumerevoli capolavori, dei suoi tanti romanzi di successo che citare sarebbe solo esercizio pedante, è principalmente la sua storia esistenziale, tesa in modo ossessivo a forgiare uno spirito eroico ammantato da una profonda sensibilità. Chi si accosta a Mishima senza prendere in considerazione lo scambio continuo che c’è tra la sua vita e le caratteristiche dei suoi personaggi va fuori strada. Semplicemente perché tutto l’universo di Mishima si pone in una prospettiva ideale, complessa, che però fonda le sue radici sulla sua stessa vita quotidiana.

L’autore giapponese era un anti moderno, come lo fu Drieu La Rochelle, come lo fu Venner che condividono con lui lo stesso sentiero e la stessa tragica fine. La culminazione in un idealismo eroico che trasformò la propria vita in una poesia, in un esempio accecante, in una stella polare, in un richiamo ad un substrato da risvegliare, rivitalizzare, richiamare in vita. Disprezzando il presente (famosa la sua frase: “in nome del passato, abbasso il presente”), amando la perfezione fisica come emblema di quell’equilibrio con lo spirito, il sacrifico e l’abnegazione (il praticare il Kendo), la disciplina (la costituzione dell’Associazione dello Scudo) e per una restaurazione dell’uomo integrale che deve ricongiungersi ai e nei valori originari.

Un mito impolitico si potrà obiettare ma non è questo il punto. Il punto è essere capaci, per chi ne è in grado, di inseguire la Bellezza e la Perfezione in un mondo che preferisce preservare la carne e non curare lo spirito. Mishima può essere capito veramente solo da chi è avversario di questa epoca, da chi è davvero anti moderno e non da chi cerca solo un altro bel romanzo da leggere. Da chi non crede ai miti fallaci e fumosi della democrazia, alle sue prospettive piatte e banali, dalla svilente corsa al successo, dalla fangosa realtà del culto dell’apparenza e dall’idolatria dei feticci di plastica. Andando oltre, cercando la Morte, confrontandosi con essa per far cadere tutte le maschere che l’ipocrisia borghese impone.

Se proprio dovessimo consigliare dei romanzi di Mishima da leggere, senza dubbio consiglieremmo i quattro testi che compongono la tetralogia de “Il mare della fertilità”: “Neve di Primavera”, “Cavalli in fuga”, “Il tempio dell’alba” e “La decomposizione dell’angelo”.  Quattro libri, composti nella parte finale della sua vita, con trame diverse ma unite in continuum temporale che unisce alcune situazioni ed uno dei protagonisti. Quattro libri che si inseriscono in una storia vasta e complessa che altro non è che una metafora ficcante ed esauriente del senso della vita. Non a caso, l’ultimo dei quattro, “La decomposizione dell’angelo”, venne completato la notte del 24 novembre del 1970. L’ultima notte del più grande scrittore giapponese (e non solo) del Novecento, dell’uomo che poche ore dopo sarebbe diventato definitivamente l’ultimo, autentico samurai. L’uomo che divenne esattamente come Isao, il protagonista di “Cavalli in fuga” che nel togliersi egli stesso la vita, con l’antico rituale, sentì, nel momento estremo, il Sole che gli esplodeva dentro, dietro le sue pupille. Perché era lui stesso ad essere diventato pura luce. Quella mattina dell’ormai lontano 25 novembre del 1970 fu il momento in cui l’uomo Mishima divenne immortale e quel rituale fece diventare la sua vita un capolavoro.

Da qualche parte deve esistere un principio più elevato che riconcili l’Arte e la Vita. Poi ho intuito che quel principio era la Morte”.


      OC

Problema "patriarcato"?

Il messaggio che si sta facendo passare nel presente è che esiste un problema sociale legato a una generalizzata cultura della morte e della sopraffazione che riguarderebbe il maschio in quanto tale, e che andrebbe estirpata imponendo nuovi modelli di relazione tra i sessi e nuovi apparati legali destinati a proteggere la parte debole (in questo caso la questione di genere è accantonata in vista di una ben più definita generalizzazione biologica). I termini del discorso sono chiari e riguardano l'emergenza femminicidio.

Ora, basta un dato per far crollare questa tesi, che ha pretese sociologiche. Se anche il rapporto degli omicidi di donne da parte di uomini, rispetto a quelli dei maschi uccisi da donne, fosse di 10 a 1 (numero che da dati ISTAT stiamo di gran lunga sovrastimando), su una popolazione di 58000000 di abitanti, trattandosi di percentuali di almeno 4 zeri sotto lo zero, staremmo comunque parlando di fenomeni praticamente irrilevanti, che statisticamente hanno di fatto lo stesso peso, ossia nullo.

Da ciò se ne possono dedurre due cose: se ci si ostina a sostenere che esiste una cultura della morte e della sopraffazione maschile nei confronti della donna basandosi sul numero degli omicidi, essa riguarda anche la donna, visto che gli omicidi da lei commessi hanno la medesima rilevanza statistica. In realtà, ciò che dovrebbe essere dedotto è, invece, che se quella cultura che si intende attribuire al maschio esistesse in maniera generalizzata, su una popolazione maschile di almeno 27 milioni di persone, avremmo ben altri numeri.

Nulla toglie al dramma della morte iniqua di donne e uomini, ma teniamo bene a mente che dire che si tratta di casi unici ed eccezionali non ne minimizza la gravità, ma evita soltanto indebite e strumentali generalizzazioni.




Gli sciacalli mediatici a Palermo

Quel che stanno facendo i media con la ragazza vittima dello stupro di Palermo è indecente.

Prima l'hanno invitata su rete 4 in anonimo, poi lo ha fatto rai tre a volto scoperto per farle raccontare la sua esperienza.

La giustizia dovrà farà il suo corso e i ragazzi se hanno approfittato di una situazione in cui la ragazza non era consenziente verranno giustamente puniti, ma gli sciacalli mediatici devono starne fuori con i loro metodi comunicativi che condizionano i processi, manipolando l'opinione pubblica e narrando le cose a senso unico.

Questa ragazza andrebbe semplicemente aiutata non esposta, perché da quel che è emerso stiamo parlando di una giovane donna senza genitori che ha dei disordini affettivi che riversa su una sessualità provocatoria (ha denunciato anche altri abusi), sposando la cultura del degrado trap che viene propinata dal sistema. Basta guardare i suoi profili social per farsene una idea.

Invece fa più comodo andare di pancia, invitarla ovunque, dirle che deve essere se stessa e che i bruti vanno trucidati in piazza.

Insomma i soliti arruffoni, approfittatori mediatici in cerca di audience.

Se fossero davvero interessati alla ragazza dovrebbero tenerla lontano dai riflettori e aiutarla a trovare un equilibrio e una stabilità affettiva, solo così potrebbero realmente dare una mano ad una giovane donna con una vita difficile che ha subito uno stupro.




L'autonomia dell'Italia

Come sappiamo l’ Italia si è astenuta dalla risoluzione Onu che chiedeva un cessate il fuoco in Palestina. Le rappresentanze italiane presenti si sono giustificate per l'incompletezza del testo di risoluzione che non condannava gli attacchi terroristici di Hamas; lo stesso giochino della premessa messa in atto in periodo "pandemico" e successivamente nel conflitto in Ucraina, se non premetti non hai diritto di parola e non puoi accettare alcun tipo di proposta, anche se questa può salvare vite perché di fatto ti discosti dalla narrazione.

Ma mettiamo che avessero votato a favore, ciò avrebbe fatto la differenza rendendo possibile una tregua umanitaria?

Ovviamente no, il voto dell'Italia sarebbe contato poco visti i veti messi in atto da paesi più influenti. Inoltre sarebbe stata una brutta figura nei confronti del padrone USA, da evitare, a costo di permettere una carneficina.

È la solita illusione che ci portiamo dietro, ovvero quella di contare qualcosa, di essere una nazione forte, che ha superato a suon di lavoro le difficoltà del dopoguerra divenendo la quarta potenza industriale nel mondo. Sì, fino alla fine degli anni '80, seppur sempre legati ai padroni, avevamo una qualche importanza ma non è più così da trent'anni e ancora c'è gente che parla di decisioni sovrane sia a casa nostra che in politica estera. Non sono bastati gli ultimi esecutivi che hanno finanziato guerre, prodotto crisi economiche, ridotto la nazione a zerbino da tutti i punti di vista, per comprendere la questione? 

Cosa serve ancora per capire che non esistono decisioni autonome dell’Italia? Che chiunque salga al governo non può far altro che seguire diktat di enti sovranazionali? 

Dovrebbe essere palese a tutti la questione nel 2023. Invece non è così.




Giorgio Gaber e la cattiva divulgazione

Giorgio Gaber è stato un grande artista, con il suo teatro canzone, assieme a Sandro Luporini, ha saputo tratteggiare le contraddizioni dell’uomo postsessantottino ed è stato profetico in molte delle sue analisi.

Mai scontato, controcorrente, abbandonò presto la sua ordinaria carriera televisiva per cominciare a girare i teatri a partire dal 1970, sino alla fine degli anni ’90.

Riascoltare le sue stagioni teatrali, tenendo presente le questioni di attualità del periodo, è un’esperienza formativa, ci sono dei brani davvero straordinari, pensiamo a “Il cancro” a “Quando è moda è moda”, a “Il conformista”, a " La democrazia", a "l'America", a “Far finta di essere sani”, giusto per citarne qualcuno.

Non solo, stanco e malato a inizio nuovo millennio incise due dischi con brani memorabili che misero il timbro ad un fallimento generazionale, si pensi a “la razza in estinzione” o a “l’obeso”.

Non vogliamo però qui ripercorrere la carriera di Giorgio Gaber bensì far notare quanto accaduto attorno alla sua figura dopo la sua morte.

Qualche tempo dopo la sua dipartita sorse la “Fondazione Giorgio Gaber”, una organizzazione che aveva come obiettivo quello di divulgare l’opera del cantautore milanese.

Capitammo per caso a delle serate da loro organizzate dove venivano proiettate delle ricostruzioni della sua carriera e con nostra sorpresa notammo come si dava ampio spazio alla fase anni ’60 (davvero trascurabile) e poco spazio (e superficiale) a tutta la corposa opera teatrale a cui Gaber dedicò la propria esistenza.

Negli anni questa fondazione cominciò a organizzare anche dei festival a lui dedicati, gli invitati erano tutti personaggi di grande visibilità, da Laura Pausini, ad Arisa ad Emma. Il senso? Secondo tale fondazione, il fatto di portare grandi personaggi del mondo dello spettacolo dava visibilità all’opera di Gaber.

Peccato che il 90% di tali invitati non avesse la benchè minima attinenza con l’opera di Gaber-Luporini, ma questa è una visione settaria secondo costoro, bisogna divulgare Gaber!

E così negli anni si è continuato su questa scia, di Gaber oggi ne parlano Scanzi, Serra, lo cantano Mengoni e la cantante dei “La rappresentate di lista”.

Proprio ieri leggevamo un articolo in cui si organizza l’ennesimo evento su Gaber, ecco alcuni ospiti: Luigi Bersani, Claudio Bisio, Lorenzo Jovanotti Cherubini, Fabio Fazio.

Capite? Questa è la linea che va avanti da 20 anni. Un uomo che nella sua vita era fuggito dalle tv commerciali, abbandonando la facile carriera a cui era già ben avviato, per portare a teatro le sue riflessioni e le sue denunce, oggi è diventato una sorta di fenomeno da baraccone sui cui dibattere con le persone più conformiste in circolazione e da far canticchiare alle star di turno.

Un umile consiglio, se volete accostarvi all’opera di Giorgio Gaber acquistate i suoi dischi dal 1970 (Libertà obbligatoria) sino al 1998 (Un’idiozia conquistata a fatica), dopodichè ignorate tutto ciò che gli gira attorno, altrimenti vi ritroverete una immagine contraffatta mediata dalle parole di gente come Scanzi o Serra e la voce di un trapper dell’ultima ora.

Salvaguardiamo la memoria di Giorgio Gaber dal frastuono della cattiva divulgazione.


“Tu sei un ingenuo.
Tu credi che se un uomo ha un'idea nuova, geniale, abbia anche il dovere di divulgarla. Tu sei un ingenuo. Prima di tutto perché credi ancora alle idee geniali. Ma quel che é peggio, é che credi  all'effetto benefico dell'espansione della cultura.
No, al momento ogni uomo dovrebbe avere un suo luogo del pensiero, protetto e silenzioso. La cultura, dev’essere segreta, non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi.
Tu mi dirai che la divulgazione, é un dovere civile, e che evolve il livello della gente, non riesci proprio a distaccarti da un residuo populista, e anche un po' patetico. Purtroppo oggi, appena un'idea esce da una stanza, é subito merce, merce di scambio, roba da supermercato. La gente se la trova lì, senza fatica, e se la spalma sul pane, come la Nutella.
No, la cultura è delicata, e anche permalosa, ci resta male se non si sente amata, o se le viene il sospetto di non essere un bisogno vero. La cultura, è come una luce, che quando si espande troppo, perde la sua luminosità. Il frastuono della cattiva divulgazione la affievolisce, soltanto il silenzio, ne salva l’intensità.”
(Giorgio Gaber)



Teoria e fenomenologia del Soggetto radicale di A.Dugin

La casa editrice AGA pubblica nel 2019 il volume “Teoria e fenomenologia del Soggetto Radicale”, anticipato dalla breve antologia “Il Sole di Mezzanotte – Aurora del Soggetto Radicale”, la quale condensa e riassume attraverso una scelta di estratti e inediti la proposta filosofica e la visione del mondo sottese all'opera che qui presentiamo. “Teoria e fenomenologia del Soggetto Radicale” è la traduzione ampliata, rivista e corredata di specifico apparato critico, dell'imprescindibile “Il Soggetto Radicale e il suo doppio”, testo del 2009 che secondo alcuni è, assieme a “La Quarta Teoria Politica”, il più significativo e importante contributo del filosofo russo.

È necessario premettere che, a differenza di quanto sembra suggerire il titolo della traduzione italiana, nel testo non si troverà una trattazione sistematica ed esaustiva della materia; l'autore intende piuttosto suggerire e indicare un indirizzo di ricerca e meditazione che dovrà convergere in quella che Dugin definisce la Nuova Metafisica, ossia un pensiero non ancora pensato, soltanto intravisto ed intuito, capace di affrontare e confrontarsi con la paradossale realtà del postmoderno, epoca che infrange qualsiasi ordine di verità razionale e a fronte di cui gli attuali strumenti filosofici ed ermeneutici risultano inadeguati. In tale logos futuro, la cui urgenza è oggi drammaticamente impellente, potrà forse darsi una visione trasparente e compiuta del Soggetto Radicale, figura che allo stato attuale può essere approcciata solo in maniera intuitiva e descritta allusivamente, forzando il linguaggio filosofico in direzioni inusitate, contaminandolo con suggestioni ed echi del mito, del simbolo e della poesia. L'aspetto più ostico della lettura del testo è appunto questa volontà/necessità dell'autore, conforme alla natura ambigua della materia affrontata, di superare i limiti della razionalità moderna, sfruttando l'opportunità che il postmoderno  mette a disposizione, di perseguire un diverso ordine di verità del discorso, laddove proprio nel postmoderno il Soggetto Radicale avrà la culla del suo sorgere e manifestarsi, e pertanto la sua epifania non potrà che assecondare i ritmi, le dinamiche e le contraddizioni proprie dell'epoca natale. Nasce così lo stile enigmatico ed oracolare che Dugin utilizza ogni volta che intende approssimarsi alla profezia dell'avvento del Soggetto Radicale, promessa e speranza che è al medesimo tempo constatazione di un'istanza metastorica e invito a un decisivo impegno militante.

Impossibile comprendere il Soggetto Radicale se non si comprende la natura e l'essenza del postmoderno. L'epoca che succede alla modernità è, infatti, la piena realizzazione dei presupposti di quest'ultima, i quali, nella loro corrosività, giungono a minare le certezze e le illusioni della modernità stessa, minacciandone innanzitutto il fondamento, ossia la soggettività intesa come razionalità e volontà individuali. Il protagonista del moderno, il soggetto, nel postmoderno viene chirurgicamente sezionato dalla razionalità, la quale, come il biblico cane che torna al proprio vomito, giunge infine a liquidare se stessa e il proprio portatore. Il postmoderno è un'epoca che ha lasciato dietro di sé tutta la zavorra idealistica moderna, cannibalizzatasi nel dubbio e nello scetticismo radicali, per giungere a una sostanziale vacuità ontologica, dove verità e apparenza, identità e alterità, Essere e Nulla, coincidono. Tuttavia, si tratta di un olocausto ironico privo del pathos e dell'elemento tragico tipici della logica sacrificale, in quanto può esservi rischio e serietà solo dove vi sia qualcosa da perdere, mentre nel postmoderno nulla ha più valore e tutto è un gioco.

In questo contesto si innesta uno dei temi più suggestivi del libro, ossia il concetto di “miracolo nero”, che al contrario di quella rottura – significante e straordinaria – del naturale ordine causale costituito dal miracolo, così come quest'ultimo è comunemente inteso, è invece un evento tanto assurdo e insignificante quanto banale, che ha come unico effetto quello di catalizzare l'attenzione e intrattenere lo spettatore per un istante, salvo poi disperdere la propria vacua energia per alimentare nuovi coaguli di non senso. Luogo del miracolo nero è il post-spazio, ossia una diversa fenomenologia dell'estensione che l'uomo postmoderno esperisce grazie alla diverse possibilità messe a disposizione dall'epoca attuale, combinando tecnologia, abolizione di limiti e confini dell'individualità e nuove geografie simboliche.

Miracolo nero e post-spazio sono fenomeni emblematici del postmoderno, che ne riassumono perfettamente il carattere parodistico e assurdo, nonché l'inadeguatezza del logos moderno a dominarlo. Eppure, secondo Dugin, è proprio nel postmoderno che può aver luogo l'evento a cui tutta la storia tende come suo momento decisivo; l'intera dinamica degli eventi può essere interpretata, infatti, come il pretesto per il sorgere del Soggetto Radicale. È necessario che la storia precipiti nell'abisso perché il suo evento più straordinario, da essa custodito come un tesoro nascosto, si manifesti. Cos'è dunque il Soggetto Radicale, colui che, ricorrendo al linguaggio nietzschiano, Dugin definisce vincitore su Dio e sul Nulla? 

Ultima incarnazione ermeneutica di una serie di figure che lungimiranti profeti degli ultimi tempi hanno tratteggiato in folgoranti intuizioni (Nietzsche, Jünger ed Evola, giusto per citare i più influenti), egli è colui che, abbandonati tutti i riferimenti e i sostegni tradizionali, trova in sé stesso e solo in sé stesso il senso, la trascendenza e il sacro, ossia ciò che l'epoca premoderna garantisce per specifiche caratteristiche cicliche, ciò che il moderno oblia a favore dell'immanenza, e ciò che il postmoderno perverte e surroga in forme infernali. Egli trova tutto ciò, appunto, alle radici del proprio essere, nella più intima sostanza: in questo consiste la sua radicalità, ossia nel suo essere radicato nell'autenticità e nel reale, di cui è testimone e portatore nell'epoca dell'inautentico e dell'irreale trionfanti.

Se è vero che la sua sostanza trascende le epoche, è tuttavia solo a contatto con la totale dissoluzione degli orizzonti tradizionali che essa può manifestarsi nella propria nudità quintessenziale, libera da scorie e contingenze. Se un'esistenza integra e integrata è la norma nelle epoche tradizionali, in tale condizione non vi è nessun merito o eccezionalità, nonché piena consapevolezza; solo confrontandosi con la più cupa dissoluzione di qualsiasi orizzonte garantito, nel setaccio ardente del postmoderno, vi è l'autentica prova di sé che il Soggetto Radicale brama e sceglie volontariamente per saggiare la propria qualità. Egli è da sempre se stesso, in qualsiasi epoca, ma solo nell'ultima diviene certo di sé misurandosi con la propria forza e stabilità, confermandosi come centro laddove non vi è alcun centro, come generatore di senso laddove ogni senso dilegua. In questa dimensione volontaristica dell'avvento del Soggetto Radicale sta il supremo rischio del fallimento suo e della storia intera: se il processo storico verte al manifestarsi del Soggetto Radicale come suo scopo e compimento, e se tale avvento è legato a un atto di volontà che, in quanto libero, può anche non avvenire, allora tutto è appeso a un filo fino all'ultimo istante, tanto il trionfo quanto il fallimento. La responsabilità è dunque affidata a ciascuno che incarni il Sole di Mezzanotte, o ne favorisca il sorgere annunciandolo nel deserto e preparandogli la via quale un novello Battista dell'età della tecnica. Sono in ballo questioni epocali, non individuali; bene chiarirlo per coloro che vorrebbero ridurre tale figura a un segnavia etico a cui attenersi nelle temperie dello spaesamento. Ad attendere il suo avvento, tremante e trepidante, è l'Essere stesso; l'appuntamento mancato coinciderebbe, infatti, con la vittoria del Nulla incombente.



Il disastro del Vajont

 Progresso e profitto sono sempre andati a braccetto, perché? Perché nessuno dei due guarda in faccia nessuno.

Due linee parallele da cui l'uomo moderno, vivendoci in mezzo, attinge e gli esempi potrebbero essere infiniti ma oggi ricordiamo un fatto in particolare.
Una vicenda che vide come protagonisti uomo, progresso e profitto.
Il 9 ottobre, alle 22.39 di sessant'anni fa, la vela bianca del progresso in calcestruzzo veniva scavalcata dall'onda di morte che procurò in soli quattro minuti 1910 vittime (alcune mai trovate) nei pressi di quella che era ed è chiamata "la diga del Vajont" spazzando via interi paesi.
Una storia di intrecci e interessi del potere economico partiti ancor prima dello stesso boom: perizie, controperizie, presunzione, arroganza, negligenza e occultamento di documenti (riservati) tra enti pubblico/privati e ministeri che preferirono sacrificare vite piuttosto di ammettere l'errore, la spavalda leggerezza che nel nome del profitto mascherato da progresso costruì oltre alla diga anche i presupposti per una catastrofe più che prevedibile, con i media dell'epoca (ma ancora oggi) a riempirsi la bocca della parola tragedia.

Fu uno dei debutti in terra nostra di quella tecnica, affinata negli anni a seguire, che tra pubblico e privato permette il disastro colposo privo di colpevoli (se non qualche sacrificabile pedina).
Ma una verità, tra tutte, è che fu permesso. E poco importa se nel processo che ne seguì un paio di nomi furono condannati come RESPONSABILI ( tre anni e otto mesi con condono di tre anni, danno e beffa come titoli di coda).
La responsabilità per propria definizione doveva esserci prima, durante i lavori, durante le avvisaglie che la frana diede con largo anticipo; ritenere responsabili "post fata" non restituì in nessun caso né vite né averi di chi quella sera non poté difendersi.
 
Quella del Vajont è una tragedia che non viene mai ricordata. Dagli errori, si dice, si dovrebbe imparare e far sì che il progresso sia una delle fonti di benessere ma a quanto pare, di "imparato", è rimasto solo il profitto, con la memoria che viene meno perché perpetuare il ricordo di ciò che si poteva evitare porrebbe oggi troppi dubbi e confusione; il profitto non possiede memoria.

Per chi non conoscesse la vicenda suggeriamo il libro "Sulla pelle viva" di Tina Merlin e il monologo teatrale di Marco Paolini intitolato 
"Vajont 9 ottobre '63".



Le regole di Calvino per leggere i classici

"La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario."

1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: “Sto rileggendo…” e mai “Sto leggendo…”. Leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello di averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come ad ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più. Possiamo tentare allora quest’altra formula di definizione:

2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli. Infatti, le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita. […] Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l’origine. C’è una particolare forza dell’opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme. La definizione che possiamo darne allora sarà:

3. I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando si impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale. Dunque, che si usi il verbo “leggere” o il verbo “rileggere” non ha molta importanza. Potremmo infatti dire:

4. D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.

5. D’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.

6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume) La lettura d’un classico deve darci qualche sorpresa in rapporto all’immagine che ne avevamo. Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C’è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l’introduzione, l’apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne di più di lui.

8. Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso. Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo.

9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti. […] La scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici, tra i quali tu potrai riconoscere in seguito i “tuoi” classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta, ma le scelte che contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola.

10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani.

11. Il “tuo” classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.

12. Un classico è un libro che viene prima degli altri classici, ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia. L’attualità può essere banale o mortificante, ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si deve pur stabilire “da dove” li stai leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza tempo. Ecco, dunque, che il massimo rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la lettura d’attualità.

13. È classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.

14. È classico ciò che periste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona. […] Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti perché “servono” a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici. E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran: “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”.

Italo Calvino, “Perché leggere i classici”, Mondadori, 1981



"Io sono quello" di Nisargadatta Maharaj

Nisargadatta Maharaj non era un uomo istruito, non scriveva libri e si esprimeva in modo semplice.

Egli fu un uomo in ricerca, che dopo un periodo di meditazione, ritornò alla sua vita precedente di tabaccaio senza fondare alcun ashram con discepoli e denari. L’unica cosa che fece, oltre a svolgere il suo lavoro di sempre, fu quella di allestire una piccola stanza nella sua abitazione dove accoglieva chiunque avesse necessità di confrontarsi. Diversi studiosi ne riconobbero la saggezza e si interessarono ai suoi insegnamenti.

Tutti gli scritti che si trovano su di lui sono costituiti dai dialoghi che intrattenne con chi andava a trovarlo, trattasi di raccolte di pensieri trascritti con la classica forma del dialogo domanda-risposta.

In particolare, tra i pubblicati, se c’è un titolo rivolto a coloro che sono pronti a mettere in discussione tutto, questo è “Io sono quello”. Un libro che se viene compreso può essere devastante, per alcuni potrebbe essere l’ultimo libro di una lunga ricerca spirituale.

Il messaggio di Nisargadatta sembra trascendere tutto, c'è qualcosa di primordiale, di elementare e, al tempo stesso, di terribilmente complesso in ciò che viene espresso.

Non possiamo dire altro su questo libro, chi ne ha il coraggio può avvicinarsi, con la consapevolezza che la propria vita potrebbe cambiare per sempre.

“Quando non pretenderai nulla dal mondo e da Dio, quando non vorrai, non cercherai e non ti aspetterai niente, allora lo Stato Supremo verrà da te inatteso, senza essere stato invitato.”

“Ogni malattia ha inizio nella mente. Occupati innanzitutto della mente, rintracciando ed eliminando tutte le idee e le emozioni sbagliate. Poi vivi e lavora incurante della malattia. Con la rimozione delle cause, l’effetto è destinato a scomparire.”

“E’ sempre la falsità a farti soffrire: i falsi desideri, le false paure, i falsi valori e le false idee, i falsi rapporti umani. Abbandona il falso e sei libero dal dolore. La consapevolezza diventa coscienza quando ha un oggetto.”

“La libertà dall’attaccamento non si ottiene con la pratica, sopravviene naturalmente, quando uno conosce se stesso. La coscienza di se è distacco. Ogni desiderio è dovuto a un senso di carenza. Quando non ti manca niente, il desiderio cessa.”

“Non c’è niente da diventare, scopri solo ciò che sei. Cercare di conformarsi a un modello, è una insopportabile perdita di tempo, sii e basta.”




"Casi" di Daniil Charms

Daniil Charms è stato uno scrittore e poeta surrealista sovietico.

Il suo nome era uno pseudonimo (Daniil Ivanovič Juvačëv) con cui probabilmente volle evocare il suono - e le vibrazioni semantiche - dei termini harm (danno, danneggiare) e charme (fascino).

Charms amava definirsi "un gigantesco pagliaccio del mondo solare", il suo eloquio era sempre surreale o persino paradossale e a partire dalla fine degli anni venti i suoi versi anti-razionalistici, le sue ideazioni teatrali non conformiste, e i suoi comportamenti pubblici inneggianti al decadentismo e alla illogicità fecero guadagnare a Charms - che amava apparire in guisa di un dandy inglese - la fama di un eccentrico geniale ma folle all'interno dei circoli artistici e culturali di Leningrado.

Charms non mancava occasione per adottare comportamenti stravaganti, come l'abitudine di declamare i suoi versi chiuso in un armadio e restare completamente nudo quando presenziava alle riunioni del movimento d'avanguardia da lui fondato: OBĖRIU, ovvero Unione dell'Arte Reale, che abbracciava gli ideali artistici del Futurismo russo.

"Sono andato nudo alla finestra. Nella casa di fronte si è visto che qualcuno era indignato, credo fosse una marinaia. Sono piombati da me un poliziotto, lo spazzino e qualcun altro. Mi hanno detto che sono già tre anni che dò fastidio agli inquilini della casa di fronte. Ho appeso delle tende".

Tra i tanti testi pubblicati segnaliamo “Casi”, uno dei suoi scritti più rappresentativi.

Brevi scene surreali in cui vecchie cadono una dopo l'altra dalla finestra, uomini litigano per inezie, si picchiano e uccidono nei modi più assurdi e disparati, ma soprattutto i suoi personaggi cadono, non fanno che cadere, farsi male, morire, dormire, non dormire, sognare. Muoiono tutti allegramente, o almeno il lettore ride mentre muoiono.

 “A me interessano solo le sciocchezze, solo ciò che non ha alcun significato pratico. La vita mi interessa solo nel suo manifestarsi assurdo. Eroismo pathos, ardimento, moralità, commozione e azzardo sono parole e sentimenti che mi sono odiosi. Ma comprendo perfettamente e ammiro: entusiasmo ed esaltazione, ispirazione e disperazione, passione e riservatezza, dissolutezza e castità, tristezza e dolore, gioia e riso.”

Il regime stalinista considerò Charms un sovversivo, lo censurò e arrestò più volte fino a chiuderlo definitivamente nel manicomio criminale di Leningrado dove morirà di inedia.

Da Artaud a Charms, possiamo notare come sia democrazia che dittatura hanno il vizio di sopprimere grandi artisti danneggiando sé stessi, cioè il prestigio del loro Paese, il popolo e ovviamente i malcapitati interessati.

Un autore da riscoprire.




 


Che cos'è l'artigianato oggi?

Ogni tanto nelle situazioni estreme si discute di un passo indietro, di un ritorno all'artigianato.

Alle soglie del 2024 cos'è l'artigianato oggi?

Per gran parte della massa è un prodotto che è divenuto inaccessibile, costoso e il più delle volte con l'offerta delle multinazionali appare un qualcosa di improponibile. 

Ma vediamo in dettaglio ciò che c'è dietro...

L'artigiano non ha orari, l'artigiano non segue protocolli, l'artigiano è oggi colui che accetta la sfida del progresso senza la clausola del consumismo.

L'artigiano è colui che sviluppa arte e la propone ad un prezzo congruo, lecito.

L'artigiano è colui che ripara, aggiusta e crea la soluzione adatta con i mezzi che ha.

L'artigiano il più delle volte è colui che produce di ingegno proprio... Lo vediamo alle fiere medievali, ci giunge in casa per proporre alternative alla nostra negligenza.

L'artigiano è ciò che il progresso vede come acerrimo nemico perché mantiene e non consuma.

L'artigianato è la forma espressiva di ogni individuo che sfida se stesso e i tempi odierni.

L'artigianato non è più il mestiere del tizio sotto casa che ti ripara le scarpe comprate al decathlon ma una minaccia alla filiera del commercio facile.

L'artigianato è il contrapporsi a ciò che è facile ed immediato, soprattutto se arriva dall'estero.

I nostri liutai, coramai, mastri setaioli sono un ricordo da quando il libero commercio ha appiattito il consumo, da quando la nostra mente approda a facili e periodiche soluzioni dall'arte che pian piano ci abbandona.

Se non fosse per qualche folle artista che sfida, ci troveremmo senza artigiani, succubi della plastica che adorna le nostre case.


Eugenio Montale ed il suo segreto

 Eugenio Montale è stato uno dei più grandi poeti italiani. Un classico, nel vero senso della parola, a cui guardare con riverenza.

Il suo “Ossi di Seppia” è una raccolta di poesie ispirata dal duro paesaggio ligure con cui Montale esprimeva una visione della vita aspra e desolata, con un linguaggio spolpato da qualsiasi decorativismo. Una linea asciutta ed essenziale, come una forma di ermetismo tendente alla meditazione che molto deve al Simbolismo. Simbolismo che viene superato con un senso di angoscia e di mistero di stampo esistenziale.

Il premio Nobel alla letteratura mise in mostra le ferite della vita. “Un male di vivere” che si incontra in Natura come “un ruscello che non scorre” o una foglia che non può verdeggiare.

Montale fu un poeta asciutto, sobrio nella constatazione dell’assenza di certezze.

Il suo fu un approccio attento, con un’osservazione contemplativa. Di quella contemplazione dei movimenti tenui ed impercettibili della Natura. Alla ricerca spasmodica del segreto che possa svelare il senso della vita. Sormontato da quei “cocci aguzzi di bottiglia” in cima ad un invalicabile muro la cui scoperta implicherebbe il superamento dei sensi e della condizione umana.

In una ricerca senza fine (al centro della sua poesia resta sempre il problema del significato) che non trova risposte ma solo ulteriori domande. Ma forse è proprio il dubbio e l’ardire che possono portare al superamento del limite e al raggiungimento della conoscenza di quel mistero insondabile che ha sempre attanagliato l’uomo. Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?

Ecco quindi l’ascendenza simbolista che in lui prende il sopravvento e che pone al centro la parola come strumento di analisi della realtà. Quella realtà che può essere (ed è) diversa da quella che i sensi riescono a cogliere.

Montale si chiede tutto ciò perché lui non si ferma all’apparenza ma è uno di quegli “uomini che si voltano”. E voltandosi resta solo col “suo segreto”.



                                 OC

Hic Manebimus Optime

Il 12 settembre del 1919 intorno alle 12.30, Gabriele d’Annunzio, a capo di 2600 legionari (nazionalisti, anarchici, militari, socialisti, artisti ed arditi) entra nella città di Fiume dando inizio ad un periodo che fece diventare la città (ora croata) un esperimento rivoluzionario ancora oggi guardato con ammirazione e meraviglia.

Venne accolto in città con gli onori militari da una folla festosa che vide l’impresa come un nobile gesto di difesa nei confronti di tutti quegli Italiani fiumani che non volevano passare per nessun motivo sotto il governo croato.

Come nacque la questione?

Alla fine della prima guerra mondiale l'Italia rivendicò anche la città di Fiume, che però non era presente negli accordi di Londra (gli accordi fatti dall'Italia con Francia e Inghilterra che prevedevano l'entrata in guerra dell'Italia e, in caso di vittoria, l'acquisizione di alcuni territori dell'impero austro-ungarico, le cosiddette terre irredenti).

La città era rivendicata anche dalla Jugoslavia, ma era a maggioranza italiana e spingeva per l'annessione all'Italia.

In questo clima si svolse l'impresa di Fiume, ovvero un colpo di mano militare organizzato da D'Annunzio che con un manipolo di uomini occupò la città il 12 settembre 1919 creando la Reggenza Italiana del Carnaro, in vista di una futura annessione all'Italia.

La reazione internazionale fu negativa e costrinse il governo italiano ad intervenire e a cacciare via D'Annunzio e il suo esercito con un rapido attacco militare il 24 dicembre 1920, il cosiddetto Natale di sangue.

La città venne infine annessa all'Italia in seguito ad un ulteriore accordo tra il governo italiano di Mussolini e la Jugoslavia nel 1924 ma l’esperienza d’annunziana era finita e persa per sempre.

Questo è il triste e drammatico epilogo di questa vicenda.

La burocrazia ed i giochi di palazzo avevano preso il sopravvento su un qualcosa di straordinario e di cui non vi erano stati precedenti in passato.

Oltre all’impresa di coraggio e di ardimento la Fiume di D’Annunzio resta un esempio irripetibile, un avamposto rivoluzionario nel vero senso del termine.

Nella Fiume dannunziana non c'erano limiti, la morale era stata abbattuta e i costumi erano liberi. Un'utopia libertaria di avanguardie artistiche che consegnò al mondo la prima, vera, costituzione rivoluzionaria della storia: la Carta del Carnaro.

La Carta del Carnaro prevedeva infatti un impianto basato su un sistema corporativo, sulla democrazia diretta, sul sistema assistenziale e pensionistico in aiuto dei cittadini, sul suffragio universale senza alcuna distinzione di sesso, razza e religione, sulla proprietà privata purché avesse funzione sociale.

L’esperienza fiumana coagulò in buona sostanza una quantità di esperienze, ribellioni, libertà individuali, intenti rivoluzionari, spinte innovative e libertarie da farne un’esperienza inedita e mai più ripetuta nel Novecento italiano.

Una breve scintilla, un’opera d’arte a cielo aperto all’insegna della provocazione, l’applicazione delle avanguardie artistiche del tempo, un'insurrezione che ispirerà anche parte del ‘68 e l’ala creativa del movimento del ‘77.

Un laboratorio politico e sociale, all’insegna dell’essenza libertaria più pura, da non confondere col vivere hippie. Si trattava di un ordinamento libertario non esteso in senso orizzontale ma in quello verticale. Una dissoluzione del vivere borghese da chi si era spinto in territori artistici di confine usando le famose “acque corrosive” di evoliana memoria.

Una “reggenza di poeti” come venne ribattezzata.

A Fiume, fino al dicembre del 1919, poco dopo l’occupazione, si stanziarono almeno 20mila uomini tra granatieri, arditi, giovani, nullafacenti, disperati, artisti, nazionalisti, esponenti della sinistra.

Il Consiglio Nazionale Fiumano conferì ogni potere a D'Annunzio e la popolazione accorse ad ascoltare i comizi del Comandante da un balcone. All’ardore del sentimento patriottico e di rivalsa per la vittoria mutilata del 1915/18, si unì anche un fermento che si tradusse, solo per fare un esempio, nella costituzione dello ‘Yoga’, detta ‘Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione’, formata da un gruppo di legionari, tra cui Guido Keller, Giovanni Comisso e Mino Somenzi, in cui l'antico ascetismo indiano si mescolò alle teorie futuriste che inneggiavano alla fusione fra arte e vita.

In tal contesto si realizzarono opere di teatro improvvisato, balli, disegni sui muri (antesignani dei nostri murales).

Un modo di vivere che impresse una svolta decisiva del processo di crisi dello Stato liberale ed all’etica borghese, un modo di concepire l’esistenza pericoloso per un sistema, che ora come allora, si sbrigò a togliere di mezzo nel minor tempo possibile. Un'esperienza rifiutata dai liberali, dai benpensanti, dai conservatori, dal clero. Come sarebbe stata la storia di questo “paese” se l’esperienza fiumana avesse potuto mettere radici e avesse potuto diventare un esempio?




                              OC

 


Il cambiamento di Giovanni Lindo Ferretti

 "Non fare di me un idolo mi brucerò".

Si è parlato molto negli anni del famoso "cambiamento" avuto negli anni da Giovanni Lindo Ferretti. In tanti sono rimasti delusi e arrabbiati per via, a loro dire, di una sorta di tradimento, da parte dell’ex leader dei CCCP, degli ideali comunisti.

Ferretti da anni si è ritirato a vivere sui monti, lontano dal mondo moderno, dalle sue meccaniche e dai suoi ritmi. Ha abbracciato un cattolicesimo profondo poichè desideroso di risposte e di un ritorno alla spiritualità.

Chi però ha saputo indagare e leggere tra le righe dei vecchi testi dei CCCP sapeva da tempo l’indole, i desideri e le speranze di Ferretti e non è rimasto sorpreso da tale percorso.

Cosa abbia rappresentato all'interno del panorama musicale (e non) l'entità CCCP è sotto gli occhi di chiunque si sia avventurato nella musica "alternativa" italiana.

Inimitabili e di impatto, con un'iconografia che richiamava volutamente gli scenari del Patto di Varsavia, una sorta di decodificazione, non solo musicale, delle istanze del punk occidentale.

Ma il punk era solo un pretesto per denunciare la deriva materialistica e vuota dell’Occidente.

Il richiamo a quello che sta "oltre il muro" era paradossalmente un bisogno di centralità, di stabilità. Un'adesione ad un "comunismo dorico" che sapesse incarnare lo spirito e le istanze di una gioventù dispersa tra le "insegne luminose" e l'eroina.

Chi li ha considerati superficialmente comunisti, è normale che a distanza di tanti anni sia poi rimasto sorpreso dal percorso individuale del leader Ferretti, si era fermato al dito e non alla luna.

In realtà i primi CCP, poi i CSI e i PGR, sino all’esperienza solista, mostrano Giovanni Lindo Ferretti percorrere una strada onesta, di sincera ricerca del sacro in un tempo di secolarizzazione e decadenza.

"Fedeli alla linea ma la linea non c'è"...

                                                                          

                                                                                 OC


Il non rispetto per il bambino - J.Korczack

Non rispettiamo il bambino perchè ha molte ore di vita davanti a lui.

Mentre i nostri passi diventano pesanti, i gesti interessati, la percezione e i sentimenti pili poveri, il bambino corre, salta, si guarda attorno, si stupisce e chiede in modo gratuito. Spreca le lacrime e spende il riso generosamente.

In autunno, quando il sole si fa raro, ogni bella giornata diventa preziosa; in primavera gli alberi sono comunque verdi. Non servono cure superflue, basta così poco al bambino per essere felice. Non lo prendiamo sul serio, ci sbarazziamo di lui eludendo le domande con risposte scherzose, senza alcuna considerazione per la pienezza della sua vita nè per la sua gioia, che si concedono con tanta facilita.

Inseguiamo il tempo. Ogni quarto d'ora, ogni anno ha la sua importanza. II bambino, invece, ha tutto il tempo, non rischia di mancare l'appuntamento con la vita.

Non è ancora un elettore, per cui non è necessario guadagnarsi il suo voto.

Non esiste il rischio che proferisca delle minacce, non esige niente, non dice niente.

Piccolo, debole, povero, dipendente, non è che un potenziale cittadino.

A volte viene trattato con indulgenza, a volte con brutalità, ma sempre e ovunque con la stessa mancanza di rispetto.

Non è che un bambino, un ragazzino, che sarà uomo solo domani.


Tratto da: “Il diritto del bambino al rispetto” di J.Korczack (ed.Luni)



I "mostri" in casa

Dopo i fatti di Palermo, i ragazzi coinvolti nello stupro sono finiti giustamente in carcere. La vittima invece è tornata sui social.

Questo recente fatto di cronaca ci ha dato l'occasione di osservare i profili social dei giovani coinvolti. Ciò che emerge non è la banalizzazione mediatica che ha voluto dipingere sette mostri usciti fuori da chissà dove.

Anche se fa comodo pensarlo, in realtà trattasi di giovani assolutamente nella media, potrebbero essere i figli di chiunque. Alla nostra società che vende continuamente disvalori piace tanto puntare il dito per non sentirsi mai responsabile di nulla. Vi invitiamo allora a farvi un giro nei profili di tutti i ragazzi coinvolti, lei compresa. Cosa si può osservare? Niente di diverso da quello che i ragazzi medi del 2023 fanno. Trap, Tik Tok, nudità, banalità, vuoto interiore, divertimento fine a se stesso, noia esistenziale.

Accade così che in una serata qualsiasi la lei di turno, si trovi in mezzo a un branco di coetanei, che ad un certo punto decidono di poterne approfittare. D'altronde, a quanto si legge sui giornali, tra loro avevano già dei filmati della ragazza in situazioni simili. Ecco che, nella loro testa scatta il meccanismo "tanto le piacerà", e accade quel che accade. Trattasi di ragazzi come tanti, che ogni giorno scimmiottano i trapper che incitano a trattare "le tipe" come mero oggetto di piacere. E anche lei, la vittima dello stupro, è una ragazza come tante, intenta a canticchiare versi trap dello stesso tenore di cui sopra mentre balla mezza svestita. Nulla di fuori dall'ordinario dunque.

Inutile puntare ipocritamente il dito sui carnefici di turno. È facile fare gli indignati solo quando vengono alla ribalta spiacevoli fatti di cronaca. Ma queste sono semplicemente le risultanti della società attuale.

Invece di scandalizzarsi pensando che i protagonisti siano dei dissennati, perché non fermarsi ad osservare i propri figli su tiktok filmarsi tutto il giorno mentre fanno gli ebeti? Si noterebbe che costruiscono video identici a quelli degli stupratori e della vittima. Conducono la stessa vita e hanno la medesima concezione dell'esistenza. Potevano tranquillamente trovarsi loro quella sera e magari rovinarsi la vita trascinati dal branco e dagli ormoni.

È giusto che chi sbaglia paghi, ma sentire orde di genitori puntare il dito e dare lezioni di morale e educazione anche no. Che si guardassero in casa, i "mostri", come li chiamano, li hanno tutti i giorni accanto a loro.





L'antica funzione dello Spirito - A.Artaud

Vi fu un tempo in cui l’artista era un saggio, ossia un uomo colto che si doppiava in un taumaturgo, in un mago, in un terapeuta, e anche in un gimnasiarca; è tutto quel che si definisce nella lingua dei circhi, l’«uomo orchestra» o l’«uomo Proteo». L’artista riuniva in sé tutte le facoltà e tutte le scienze. Poi venne l’epoca della specializzazione, quella anche della decadenza. Non si può negarlo. Una società che fa della scienza una polvere di scienze è una società che degenera. Se si vuole ben accettare l’idea che l’Uomo è il catalizzatore dell’Universo, bisogna dedurne che le forze morali dell’Uomo vibrano all’unisono con le forze dell’Universo, queste forze che, secondo gli insegnamenti dell’alta filosofia monista, non sono né fisiche né morali, ma rivestono un aspetto o morale o fisico secondo il senso in cui si desidera utilizzarle. E allo stesso modo in cui vi è nel mondo attuale una formidabile incomprensione tra le facoltà opposte dello spirito e della materia, allo stesso modo vi è emulazione, o piuttosto rivalità tra il lavoro delle mani e quello della testa. Le élite, non lo si può negare, non godono d’alcun credito nella società d’oggi. La grande massa umana non si interessa ai lavori dello spirito e non sarebbe esagerato affermare che ci si appresta a ridurre alla fame coloro che, con un disinteresse che fu in altri tempi maggiormente riconosciuto, fanno professione di dedicarsi al puro lavoro del pensiero. Coloro che lavorano con le loro mani hanno dimenticato d’avere una testa, e coloro che lavorano con la testa si attristano generalmente, credendosi sminuiti, quando gli tocca lavorare con le proprie mani. Ci si spiega in queste condizioni, il disprezzo che sentono le masse comuniste per le attività gratuite dello spirito. È perché disprezza i lavori dello spirito che il mondo moderno è in pieno sfacelo; si può anche affermare che ha perso il proprio spirito; e lo spirito, per il fatto d’essere in rottura con la vita, è a sua volta diventato inutile. Che le élite cessino di credere alla loro superiorità, che acquisiscano un’ umiltà salutare, ch’esse rendano allo spirito la sua antica funzione d’organo, che mostrino i lavori dell’intelligenza sotto un aspetto vantaggiosamente materiale, e come per incanto cesserà ogni guerra imbecille tra i raffinamenti sontuosi dello spirito e il lavoro delle mani che è senza valore se non è retto dalla logica della testa. Gli intellettuali occuperanno nella società il posto che gli spetta quando questa società avrà abbastanza discernimento per comprendere che vi è un’identità assoluta tra le forze del corpo e quelle dell’intelligenza, e che lo spirito è il setaccio della vita.


Fonte: "Al paese dei Tarahumara", di A.Artaud (ed.Adelphi)




Torpori serali


Dopo un turno di lavoro estenuante, prendi un treno sovraffollato che ti riporta alla stazione più vicina al quartiere periferico dove abiti. Ivi, infatti, hai dovuto parcheggiare, in quanto veicolo inquinante, il mezzo di cui sei proprietario, non potendo accedere, ex lege, nella fascia verde riservata alle auto di nuova generazione. Tornando a casa, ti fermi al primo supermercato che incontri sulla strada. Sono le 18 e 30. Come un automa, riempi il carrello, carne, pasta, qualche surgelato, olio, un po' di frutta e verdura. Vai alla cassa, quasi ipnotizzato dal ritmo cadenzato della merce sul rullo, passi la carta, imbusti e te ne vai. Varchi l'uscio. Nel silenzio più totale, sistemi la spesa, fai una doccia, controlli lo scontrino degli acquisti effettuati. D' un tratto, un sussulto: è possibile che hai speso così tanto per una quantità di provviste così esigua? "Certo, anche la benzina è alle stelle, che vuoi farci...". Cerchi di non pensarci e ti accingi a preparare la cena. Accendi la TV, sintonizzandoti sul tg. Guerra, cambiamenti climatici, un servizio sui pompieri che salvano un gattino. Poi ancora guerra, inflazione, politica interna ed internazionale, immigrazione, liti tra destra e sinistra, l'ultima scarpa alla moda da 500 euro sponsorizzata da un influencer, i potenti del mondo che, viaggiando su mirabolanti jet privati, si incontrano in lussuosi alberghi per discutere come limitare l'inquinamento globale. Le immagini, come diapositive di un infernale viaggio, scorrono veloci, scattanti, non lasciandoti il tempo di riflettere. Parole impostate, vuote, quasi fossero slogan dozzinali, sgorgano come un fiume inquinato dallo schermo, inondando il piccolo salone in cui stai consumando il tuo pasto, lasciando attorno a te solo fanghiglia e putridi residui. All'improvviso, come un tarlo, un pensiero ti sfiora, destandoti dal torpore serale: e se ci stessero prendendo per i fondelli? Se ci stessero raccontando solo una marea di menzogne? Scosso, fissi un secondo il vuoto, lasciando la forchetta quasi a penzoloni sulle tue labbra semiaperte. " Ma no, dai, ti pare che…è solo la situazione del momento". Rincuorato, tiri un sospiro di sollievo, " ho proprio voglia di stare tranquillo oggi, basta con queste notizie. Meno male che stasera mi godo il grande fratello vip".