L'Occidente può non dirsi cristiano?

L'Occidente non può non dirsi cristiano. L'asserzione è vera non tanto nei termini di una generica adesione religiosa che il dilagante clima di secolarizzazione ampiamente smentisce, quanto piuttosto nel senso secondo cui la millenaria egemonia dottrinale cristiana ha informato, volente e nolente, la forma mentis dell'uomo occidentale, modellandone alla radice la visione, i desideri, le speranze e i timori. Ritroviamo le più elementari urgenze cristiane, rimosse con forza da un presente che se ne vorrebbe libero ed emancipato, riemergere come fenomeni carsici laddove la razionalità si incrina, perché incapace a rendere conto in merito a istanze fondamentali quali il senso e il fine.

Questo accade in maniera particolarmente evidente nel presente, in quanto i timori e le incertezze per la svolta epocale a cui stiamo assistendo alimentano in modo consistente quel senso insanabile di angoscia che opprime l'uomo al presagio di cambiamenti inevitabili e fuori controllo. Ecco il sorgere, dunque, di vecchie e nuove espressioni di apocalittica e messianismo in seno alla razionalissima civiltà delle macchine e della finanza, la quale dimostra così di non aver ancora saldato definitivamente il conto con il proprio residuo umano, di cui vorrebbe sbarazzarsi ma che ne costituisce l'ineludibile fondamento. Il senso di una fine imminente del mondo e l'invocazione del suo Giudizio, che oggi si respirano in più luoghi della cultura e dell'arte, appaiono come l'espressione più evidente di un'inquietudine tutta cristiana, la quale, mai domata, muta forma nel tempo ma sempre rimane la stessa. Sergio Quinzio, il più grande ermeneuta contemporaneo della speranza nell'Apocalisse, mai si stancò di metterci in guardia dalla compagnia di falsi messia e dubbi anticristi. Il significato ultimo dell'attesa cristiana, per il biblista ligure, risiede non tanto nella salvezza e nella redenzione, quanto piuttosto nella consolazione dallo scandalo del male che considera inoltrepassabile. La storia si presenta così come un costante precipitarsi verso la catastrofe finale, da cui Dio salverà un resto: coloro che custodiranno la fede fino alla fine. L'eone cristiano altro non sarebbe che una lotta all'ultimo sangue contro il nulla che avanza, e il senso della militanza cristiana una tragica forma di resistenza su posizioni perdute, in un mondo di rovine spirituali. Ecco dunque che l'apocalittica, come categoria dello spirito prima che come genere letterario, si configura come un ethos eroico: i santi degli ultimi tempi assomiglieranno più all'Arcangelo in cotta di maglia che a quella parodia del santo d'Assisi che tanti consensi raccoglie.

L'uomo odierno, avendo rinunciato a tali orizzonti di forza, fronteggia la propria piccola apocalisse moderna con il modesto armamentario simbolico e ideologico che ha raccattato nelle discariche della pseudo-cultura di cui dispone. Sarà per questo, forse, che prevede la fine imminente. La nostra cultura, infatti, avendo distolto lo sguardo dalla vista del male in ogni sua manifestazione, ha perso la capacità di immaginarlo. Se solo comprendesse quanto ancora possiamo abbassarci, si renderebbe conto di quanto lontano sia il punto d'impatto della caduta. Per quegli uomini di fede o cultura che ancora si sforzano di pensare la fine, il pensiero dell'Apocalisse ha oggi perlopiù due risvolti: la paralisi e il ritiro nel privato. Molti si autoproclamano il biblico resto d'Israele sottratto alla gola del leone, e si preparano ad essere accolti gloriosamente nel Regno. A costoro vorremmo ricordare, a margine di qualsiasi riflessione di ordine teologico, che se il Giudizio ha un senso, è che ogni istante sarà giudicato. Il che è come dire che ogni attimo nasce già giudicato, eternamente. Il Giudizio è ora, prima ancora che alla fine dei tempi. Il senso dell'Apocalisse è dunque la responsabilità, ossia il farsi carico del presente nel presente. Per questo non può esserci inerzia: siamo in guerra fino alla fine, e chi oggi si ritira e non combatte è un disertore.