Centocinquanta anni di etnografia hanno dimostrato
che il concetto di proprietà, seppur labile presso alcune società tribali, è
componente fondamentale dell’esistenza.
Possedere qualcosa, averlo acquisito tramite la fatica ed il lavoro e dunque
non dover dipendere dalla carità altrui, rappresenta una conquista individuale
che conferisce valore e dignità all’individuo, contribuendo anche a
determinarne l’identità psichica.
Il diritto di proprietà, in quanto diritto naturale, secondo John Locke è
pre-esistente il patto sociale e va garantito dallo Stato: uno Stato ha il
dovere di tutelare la proprietà e nel caso in cui infranga tale diritto, il
cittadino ha il dovere di ribellarsi contro un potere divenuto illegittimo.
Più recentemente è stato il filosofo Robert Nozick a soffermarsi sulla
rilevanza, ancor prima della proprietà di qualcosa, della proprietà di sé. L’io
individuale prevale rispetto alla società, per questa ragione il possesso non
deve essere limitato in alcun modo. Lo Stato quindi, oltre a ricoprire un ruolo
minimo, deve rispettare la premessa kantiana secondo cui l’individuo deve
essere trattato sempre come un fine, mai come un mezzo. Per Nozick è
inaccettabile che l’individuo venga subordinato alla società, sebbene ciò possa
significare redistribuire la ricchezza per offrire maggiori opportunità di vita
alle persone. Il fautore delle proprie chance di vita è l’individuo stesso,
allo Stato compete il solo compito di proteggere i diritti naturali dei
cittadini.
Scardinare il concetto di proprietà si sta rivelando funzionale alla
realizzazione dell’organizzazione sociale del futuro: se la proprietà è il
fondamento della libertà, sottrarre gradualmente la proprietà permetterà di
ridurre le persone ad uno stato di dipendenza sempre maggiore. Il sistema di
pagamento rateale e le agenzie di prestiti hanno trasformato le persone in
debitori: tutti vogliono salire sulla giostra capitalistica, acchiappare le
opportunità e al contempo disprezzare la miseria di chi non può permetterselo;
nessuno vuole rinunciare alle promesse di felicità e successo.
Il desiderio di possesso ed il diritto a possedere sono diventati il cavallo di
Troia con cui il biopotere si sta appropriando delle persone: proprio la
convinzione di possedere qualcosa rende l’individuo sempre pronto all’acquisto
o all’indebitamento e pertanto eterodiretto nelle sue scelte di acquisto o di
contrazione di debito. La sete di possesso viene usata per trasformare le persone
in mezzi di profitto utili per cambiare gradualmente l’ordine sociale. Vivere
in una casa, usare un cellulare, guidare una macchina, guardare la televisione
e indossare abiti che non si possiedono realmente finché non si finiranno di
pagare, significa non essere liberi anzi, si diventa semplici mezzi per
accrescere il profitto di qualcun altro, di oligopoli che governano il mondo
ben al di sopra degli Stati. Nel prossimo futuro non si sarà proprietari
neppure del denaro, ridotto a moneta digitale programmabile ed impalpabile; non
ci apparterranno neppure i nostri rifiuti, pesati e analizzati da bidoni
intelligenti apribili col codice a barre.
Oltre a non essere completamente artefici del proprio agire, evidentemente
eterodiretto, non si è neppure proprietari di se stessi, dei propri pensieri,
indotti dall’esterno, dall’onnipresente connessione digitale. Quest’ultima ha
aperto la strada alla colonizzazione dell’opinione pubblica, dell’immaginario
collettivo e dell’immagine di sé. Il digitale rapisce la mente, induce uno
stato di trance cognitivo la cui modulazione è riconducibile al ritmo digitale.
Lo scroll compulsivo ha un effetto soporifero e de-centrante che separa
dall’esser-ci e recide le radici dell’abitare, dell’esistere, del prendersi
cura.
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Diritto di proprietà
Incomprensioni e silenzi
Nel penultimo testo “Fragmenta” avevamo parlato del
fenomeno del “ghosting”, ovvero quella tendenza delle nuove generazioni a
sparire improvvisamente senza dare spiegazioni.
In realtà, anche se non in modo così plateale,
facendolo diventare persino una moda di cui vantarsi, lo “sparire” è un atto
molto comune anche nel mondo di gente “matura”.
Sempre più “amicizie” svaniscono nel silenzio. Relazioni
fragili, costruite giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, crollano
all'improvviso, senza preavviso, lasciando solo macerie. È un fenomeno sempre
più frequente nella nostra società: amicizie "profonde" che si dissolvono come
nebbia al sole, senza una parola, senza un confronto. Una forma di
"ghosting" appunto, applicato alle amicizie. Una persona si sente
ferita o incompresa e, invece di affrontare il problema, sceglie la via apparentemente
più semplice: sparire. Interrompe ogni comunicazione, cancellando anni di
condivisione come se nulla fosse mai esistito.
Questa incapacità di comunicare è sintomatica di un’epoca
in cui si è costantemente connessi eppure profondamente disconnessi. I
messaggi istantanei hanno sostituito le conversazioni faccia a faccia, rendendo
più facile nascondersi dietro uno schermo o, peggio ancora, dietro il silenzio.
Il confronto richiede coraggio. Significa esporsi, mostrare la propria vulnerabilità,
rischiare di non essere capiti. È più semplice tagliare i ponti, convincersi
che l'altro "non vale lo sforzo" o che "tanto non
capirebbe". Ma questa è una forma di immaturità emotiva che sta diventando
una vera e propria epidemia sociale. Quando qualcuno sparisce senza
spiegazioni, non fa solo male all'altro, ma nega a entrambi la possibilità di
crescita che ogni conflitto porta con sé. Le incomprensioni, se affrontate con
onestà, possono rafforzare un legame invece di spezzarlo.
Rarissimo è diventato il confronto autentico, il
dialogo scomodo ma necessario. Il dire "mi hai ferito" invece di
scomparire. Di chiedere "cosa è successo tra noi?" invece di fingere
che l'altro non sia mai esistito. Le relazioni significative meritano questo
sforzo. Meritano parole, anche difficili, anche dolorose, ma sempre preferibili
al vuoto assordante del silenzio che porta con sé solamente scorie.
"Il Padiglione d'oro" di Y.Mishima
"La bellezza ha questo di terribile, che non può esistere se non nell'annientamento. Se non si distrugge, prima o poi, si finisce per distruggere se stessi."
"Il Padiglione d'oro" è uno dei romanzi più belli di Yukio Mishima.
Pubblicato nel 1956, il libro si ispira a un fatto
realmente accaduto nel 1950: l'incendio doloso del tempio buddhista Kinkaku-ji
di Kyoto, patrimonio culturale del Giappone, per mano di un giovane monaco.
Il protagonista della trama è Mizoguchi, un ragazzo
timido, balbuziente e di umili origini che, sin dall'infanzia, è ossessionato
dall'immagine del Padiglione d'oro, un tempio buddhista descritto con toni
mitici dal padre. Divenuto novizio presso il tempio, Mizoguchi sviluppa un
rapporto contraddittorio con l'edificio: da un lato ne è affascinato,
dall'altro prova un senso di inferiorità e frustrazione per non riuscire a
possedere quella bellezza.
Mishima esplora qui il paradosso per cui la bellezza perfetta, proprio per la sua irraggiungibilità, può generare un impulso distruttivo in chi la contempla. Indaga come le nostre aspettative e idealizzazioni possano diventare fonte di delusione e alienazione quando confrontate con l'esperienza concreta.
Sullo sfondo del romanzo si staglia il Giappone del
secondo dopoguerra, sospeso tra tradizione e modernizzazione occidentale. Il
Padiglione d'oro diventa così simbolo di un'eredità culturale minacciata dal
cambiamento, e il suo incendio è una metafora della crisi identitaria del
Giappone contemporaneo.
La prosa di Mishima è ricca di simbolismi e di
descrizioni dettagliate, in cui si alternano momenti di lucida analisi
filosofica a passaggi di grande intensità lirica.
"Il Padiglione d'oro" è una riflessione universale, narrata con una sensibilità giapponese, sulla natura della bellezza, sul rapporto tra desiderio e possesso, sull'alienazione dell'individuo moderno.
La capacità di Mishima di esplorare le zone d'ombra
dell'animo umano, unita a una scrittura di straordinaria eleganza, rende questa
opera un capolavoro senza tempo.
M - Il mostro di Düsseldorf di F.Lang
"Chi può sapere come sono fatto dentro?”
"M - Il mostro di Düsseldorf" è un film di
Fritz Lang del 1931. È la storia di un serial killer, anticipatrice
di centinaia di film attuali sui crimini seriali.
M. è il primo film sonoro di Lang, che tuttavia
continua ad avere la stessa carica visiva e narrativa tipica del muto. A
cavallo fra cinema espressionista tedesco e quello che più tardi culminerà nel
noir. Un film "innovativo" in cui il suono scolpisce l’andamento:
dalla filastrocca iniziale, alla centralità data ai rumori quotidiani che
diventano così cupi o ancora al fischiettare dell’assassino che permette a un
mendicante cieco di riconoscerlo. Il titolo originale del film doveva essere
"Morder unter uns" ("Gli assassini fra noi") ma Lang decise
di cambiarlo, folgorato dalla scena in cui il mendicante si traccia con del
gesso la lettera “M” sulla mano e la trasferisce sulla spalla dell’assassino
per permettere a tutti di individuarlo. E pochi sanno che la trama è ispirata a
fatti di cronaca reali, ossia la serie di omicidi di massa avvenuti a
Düsseldorf in quel periodo, per mano di Peter Kurten. Una trama che venne
scolpita da una sceneggiatura chilometrica scritta dallo stesso Lang e da sua
moglie, in cui c'è la descrizione tra chiaroscuri perfetti, ombre proiettate
sui muri della città, tra inquadrature oblique dall’alto minacciosamente
contrappuntate da suoni ordinari, di tutto il campionario di personaggi che affollano
la storia. La storia di una città travolta dall’isteria generata da un
susseguirsi misterioso di infanticidi e con i suoi abitanti che si mobilitano
in massa nella cattura dell’assassino, dai criminali fino ai poliziotti. Questi
ultimi superati dalla maggiore capillarità di chi vive per strada e ai confini
della legalità. Una popolazione trasformata in folla inferocita, preda di
un’isteria collettiva che si dimostra ancora più spietata ed efficiente della
legge. Ed in mezzo a tutti questi eccezionali e innovativi spunti si erge
maestosa la prova recitativa del protagonista assoluto, un immenso Peter Lorre
perfetto nel ruolo dello psicopatico assassino. Nonché perfetto, oltre al suo
naturale "physique du role", nella recitazione e nell'interpretazione.
Soprattutto nell'ultima sequenza del processo improvvisato dove è costretto ad
una impostazione più teatrale e dove riesce a comunicare l'alternarsi del
desiderio insoddisfatto e della rassegnazione con semplici, minimi ma decisi
movimenti del busto e del volto.
Un film che lancia uno sguardo indagatore usando il
consueto (i rumori quotidiani) verso un'altra realtà. Un “guardare attraverso”
l’immagine, carica di significato, verso l'approdo finale. La mente del serial
killer. Le sue angosce, le sue paure, le sue ossessioni, il suo bisogno di
calmare le pulsioni più orribili.
Uno dei primi film (o forse il primo) sulle ombre e
sui fantasmi della porta accanto nelle tentacolari metropoli moderne.
OC
La noia
I bambini di oggi crescono circondati da stimoli
costanti. Smartphone, tablet, videogiochi e un'agenda fitta di attività
extrascolastiche che occupano ogni minuto della loro giornata. I genitori si
impegnano a tenere i propri figli "occupati" in ogni maniera,
altrimenti si annoiano e sono "improduttivi". Essi non sanno che la
noia è un aspetto fondamentale, poiché quando un bambino si "annoia"
la sua mente inizia a vagare, le idee si collegano e la creatività si alimenta.
Senza il costante bombardamento di stimoli esterni, essi sono costretti a
guardare dentro di sé, ad attingere dalle loro risorse interiori per inventare
giochi, storie e soluzioni. In un mondo superveloce, "produttivo",
popolato da ansiosi cronici, insegnare ai bambini ad accettare momenti di noia
è fondamentale. La noia allena la capacità di stare con se stessi, di
ascoltarsi, di conoscersi meglio. È con la noia che potranno sviluppare una
maggiore consapevolezza di sé e una migliore gestione delle emozioni poiché non
dovranno sempre fuggire dai propri pensieri attraverso distrazioni continue, ma
sapranno abitare il vuoto con serenità. Ma d'altronde molti genitori sono i
primi a riempire ogni spazio vuoto con qualcosa, fuggendo costantemente da se
stessi, di conseguenza proiettano la medesima concezione ai loro figli. La noia
non è mai un vuoto da riempire, bensì terreno fertile, uno stato da accogliere
per costruire solidità interiore ed equilibrio.
Social?
Esiste un uso sano dei social network?
Il punto è che oggi molti guadagnano sui social, per
alcuni è un primo lavoro ma la trasformazione di una passione in lavoro è
un'arma a doppio taglio. Da un lato, realizza il sogno di vivere facendo ciò
che si ama; dall'altro, introduce inevitabilmente delle dinamiche di mercato
che compromettono la purezza espressiva iniziale. Quando l'attività rimane
parallela a un lavoro principale, si ha una libertà pressoché totale. Non
dovendo dipendere economicamente dalla produzione creativa, ci si può
permettere di sperimentare, rischiare, seguire la propria visione senza
compromessi. Questa indipendenza economica diventa paradossalmente una forma di
libertà espressiva. La situazione cambia radicalmente quando il tutto diventa
l'unica fonte di sostentamento. Ci si trova di fronte a un conflitto tra
autenticità espressiva e necessità di mercato. Le considerazioni sulle reazioni
dei "followers" iniziano a influenzare le scelte: quali temi
trattare, quale stile adottare, come presentare il proprio lavoro. Si comincia
a modificare la propria visione per incontrare i gusti del pubblico,
trasformando gradualmente la propria iniziativa in un prodotto commerciale.
Tuttavia, questa dicotomia non è necessariamente assoluta. Sì può trovare un
equilibrio, cercando di mantenere l'integrità. In generale però trovare punti
di intersezione tra la propria visione e le aspettative delle persone, senza
tradire se stessi, è molto complicato. Vi è poi un malsano meccanismo che subentra,
ovvero quello di essere ammirati, di condividere agli altri questioni
personali, il culto dell'ego pompato dalle reazioni e dai
"followers". In questo senso il social è una trappola perché
"gonfia" e porta a piegarsi alle leggi del mercato e questo vale per
tutti, sia per chi pubblica reels demenziali, chi aforismi mostrando il sedere
ma anche chi fa cultura, informazione o controinformazione. Come fare dunque? A
nostro umile parere, innanzitutto un utilizzo sano che se ne può fare è quello
di usarli per trovare persone affini con cui poi uscire dai social e costruire
rapporti fuori. Dopodiché prendere consapevolezza dei meccanismi dell'ego e del
successo personale e domarli. Per il resto cercare di rimanere onesti negli
intenti e nei contenuti proposti, indipendentemente da eventuali guadagni. Se
si è in grado di far questo allora l'utilizzo dei social può avere aspetti
positivi, altrimenti è ego, dipendenza ed inquinamento quotidiano dell'anima. A
noi la scelta.
Edoardo Bennato e l'eterna giovinezza
Edoardo Bennato a 78 anni continua a infiammare i
palchi di tutta Italia. La sua è una 'energia che sfida il tempo, chi ha avuto
la fortuna di assistere a un suo concerto recente può testimoniarlo. Chitarra,
armonica e kazoo - i suoi fedeli compagni di viaggio - continuano a dare voce a
quella voglia di libertà e di denuncia sociale che ha sempre caratterizzato la
sua musica. Bennato non è mai stato un allineato, anche la recente
"maskerate" è stata una palese denuncia del periodo pandemico.
D'altronde correva l'anno 1977 quando Bennato, con lucidità denunciava in
"dotti medici e sapienti" i rischi dello scientismo, quella tendenza
a trasformare la scienza in un dogma intoccabile, in una nuova religione. Quasi
cinquant'anni prima dei dibattiti contemporanei sul monopolio dell' "autorità
scientifica". "Non fidatevi del grande fratello!" cantava,
anticipando temi che sarebbero diventati centrali decenni dopo. La carriera del
cantautore napoletano è stata segnata da scelte coraggiose, controcorrente,
rifiutando sempre le etichette. La sua poetica, intrisa di riferimenti
letterari (da Collodi a Barrie), di ironia pungente e di denuncia sociale,
rappresenta un unicum nel panorama musicale italiano. Edoardo Bennato ha
insegnato che la musica può essere divertente e profonda allo stesso tempo. Che
la ribellione non è una fase adolescenziale, ma una postura esistenziale. Che
l'arte ha il dovere di disturbare il potere, qualunque esso sia. Ma soprattutto
che si può invecchiare senza diventare vecchi, che si può conservare, anche a
ottant'anni, quello sguardo curioso e critico sul mondo che è la vera fontana
dell'eterna giovinezza. Onore a lui.
Sanità pubblica
Sanità pubblica? E che cos'è? Parliamoci chiaro,
oggi trattasi di un sistema pubblico sulla carta ma privato nei fatti. Non è
forse così? Continuiamo a finanziare con le nostre tasse un sistema che non
risponde ai bisogni di salute della popolazione. Le liste d'attesa interminabili
per visite specialistiche sono diventate la norma. Chi può permetterselo,
ovviamente sceglie la via privata, pagando due volte: una volta con le tasse e
una seconda volta di tasca propria. Chi non può, rinuncia alle cure o le
rimanda fino all'aggravarsi delle sue condizioni. La promessa di un'assistenza
universale, gratuita e di qualità è lontanissima dalla realtà. Quello che
doveva essere un diritto garantito a tutti si è trasformato in un servizio
frammentato, difficilmente accessibile e che spinge sempre più persone verso
soluzioni private. Dati recenti parlano di oltre 4 milioni di italiani che
rinunciano alle cure per motivi economici, di liste d'attesa per alcune
prestazioni specialistiche che superano i 12-18 mesi e di una spesa sanitaria
privata ha superato i 40 miliardi di euro annui. In alcune regioni, le visite
private superano ormai quelle erogate dal servizio pubblico. Non si tratta solo
di carenza di risorse finanziarie. È una scelta voluta, nel sistema attuale la
salute pubblica é solo una voce di spesa da tagliare. Per chi non può
permettersi di essere seguito privatamente vi è poi una ulteriore
frammentazione delle cure. La visione olistica della persona già è rara nella
medicina moderna, ma nel pubblico proprio non esiste, vi è un approccio disordinato,
a compartimenti stagni, che tratta organi e sintomi ma perde di vista
l'integrità della persona. Un paziente si trova a navigare in un labirinto di
specialisti che raramente comunicano tra loro, con approcci terapeutici
contraddittori, duplicazioni di esami, prescrizioni incompatibili. La sanità
pubblica oggi è una catena di montaggio ed il paziente è un prodotto da
processare con tempistiche che sono un terno al lotto. Sballottolato a destra e
sinistra, egli non è più una persona, con la sua storia, la sua singolarità. Se
vuole sperare di essere seguito degnamente deve pagare, soldi, tanti soldi,
oltre a quelli delle tasse ovviamente. Questa è la realtà. Ricostruire un
sistema sanitario degno di questo nome richiederebbe visione politica chiara e
la capacità di superare interessi corporativi ma non ci sembra che si stia
andando in questa direzione.
"Inglesizzazione"
L'invasione linguistica che sta soffocando la nostra
lingua è, anno dopo anno, sempre più fuori controllo. Il fenomeno è
particolarmente evidente nel mondo del lavoro, dove sembra impossibile
sostenere una conversazione senza ricorrere a un gergo ibrido. Perché dobbiamo
"schedulare un meeting" quando possiamo semplicemente
"programmare una riunione"? Perché il "team leader" non può
essere un "caposquadra" e il "project manager" un
"responsabile di progetto"? Si usano termini per apparire più
"business oriented" (orientati al business? Concentrati sugli
affari?). La lingua italiana è capace di esprimere concetti complessi con
precisione e bellezza. Sacrificarla sull'altare di un'internazionalizzazione
superficiale è una resa culturale. Bisogna difendere la chiarezza della
comunicazione e rispettare la dignità di una lingua che ha dato al mondo
capolavori letterari e scientifici. Quando sentiamo qualcuno parlare di
"deadline" invece che di "scadenza", di "conference
call" invece che di "teleconferenza", ricordiamogli che
l'italiano non è una lingua di serie B. E che, anche nel lavoro, la competenza
professionale si dimostra con la precisione delle idee, non con l'ostentazione
di un "inglesizzazione" verbale modaiola.
Il significato dello sport
Il significato dello sport ha molto a che vedere sul modo in cui ci approcciamo alla vita.
Se filtriamo sempre lo sport attraverso lenti
critiche come "controllo delle masse" e "denaro", cosa
otteniamo? È vero che nello sport professionistico c'è corruzione e uso
politico, ma ridurre tutto a questo significa privarsi della gioia e della
bellezza che lo sport può offrire, come ci hanno ricordato anche grandi
pensatori del passato.
É totalmente autodistruttivo filtrare ogni
esperienza attraverso la frustrazione economica e con letture politiche.
Mantenere una certa leggerezza nell'approccio alla
vita, pur essendo consapevoli delle sue contraddizioni è saggio.
Il già citato Camus vedeva nello sport (era un
portiere di calcio) un'espressione di vitalità e libertà, un modo per
confrontarsi con l'assurdo dell'esistenza attraverso il gioco e la competizione
leale.
Erano tempi diversi ma tutt'oggi è necessario
distinguere tra il gioco, autentico e vitale, e la sua manipolazione
commerciale.
Lo sport ha un valore che trascende le sue
contraddizioni sociali ed economiche, è un modo per mantenere vivo il
"bambino interiore" che sa ancora gioire delle cose semplici, pur
nella consapevolezza della complessità del mondo.
Questo non significa mettere la testa sotto la
sabbia, né non essere consapevoli di come vengano utilizzati dal potere gli
sport come armi di distrazione di massa, sfruttando la voglia di senso di
appartenenza.
Ma a nostro avviso è saggio preservare l'innocenza
bambina, trovare degli spazi di equilibrio per non farsi rubare anche
questi aspetti vitali dal potere.
Il viaggio notturno dell'anima
Quando ci addormentiamo, le porte della percezione
cosciente si chiudono e un nuovo regno si spalanca davanti a noi. Il sogno non
è semplicemente un passatempo della mente che riposa, ma un territorio fertile
dove l'anima intraprende il suo viaggio notturno. Questo regno onirico è
caratterizzato da una logica propria che sfida la razionalità diurna. Qui le
immagini si fondono e si trasformano, gli eventi procedono secondo associazioni
simboliche piuttosto che causali, e noi ci troviamo in un mondo dove i confini
tra il sé e l'altro diventano fluidi. Particolarmente significativo è quel
territorio oscuro che potremmo chiamare il "mondo infero" - un regno
sotterraneo dove dimorano le ombre, le figure archetipiche e le parti rifiutate
della nostra psiche. Questo mondo non è semplicemente un deposito di cose
dimenticate, ma un ecosistema vitale e pulsante. Nell'antichità, questo viaggio
negli inferi era riconosciuto come una necessità dell'anima. L'eroe doveva
discendere, affrontare i guardiani e i mostri del regno sotterraneo, recuperare
un tesoro o una verità nascosta, e poi risalire trasformato. Pensiamo a Orfeo,
Enea, Dante - tutti hanno dovuto affrontare questa discesa. Oggi, il nostro
mondo diurno tende a rifiutare questa dimensione. La cultura contemporanea, con
la sua ossessione per la positività, la produttività e la luce, ha relegato
l'oscurità a qualcosa da eliminare, medicalizzare o ignorare. Eppure, ignorare
il mondo infero non significa eliminarlo - significa solo perdere il dialogo
con esso. I nostri sogni rappresentano un invito a questo dialogo. Quando
un'immagine onirica ci perseguita, quando un sogno ci lascia turbati al
risveglio, quando figure misteriose popolano il nostro sonno, è il mondo infero
che cerca di comunicare con noi. Questo regno non è meramente personale. Le
figure che incontriamo nei sogni - l'ombra, l'anima, il vecchio saggio, la
grande madre - non sono solo proiezioni individuali, ma entità che appartengono
a un substrato condiviso dell'esperienza umana. Essi parlano un linguaggio
simbolico che trascende la biografia individuale.
La discesa negli inferi onirici non è quindi un
semplice esercizio di auto-comprensione, ma un atto di riconnessione con le
radici stesse dell'esistenza. È un'opportunità per riportare alla luce quelle
parti dell'anima che la coscienza diurna ha esiliato nell'ombra. In questo
viaggio notturno, diventiamo sia Teseo che Arianna, sia il viaggiatore che il
filo che garantisce il ritorno. E quando riusciamo a tornare alla luce portando
con noi qualcosa di quel regno, abbiamo compiuto quello che gli antichi
chiamavano il lavoro dell'anima - un lavoro che non riguarda solo la guarigione
individuale, ma la rivitalizzazione del mondo stesso.