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Coppie aperte, poliamori e logismoi

Ogni giorno i media mainstream ci informano dell'aumento di coppie aperte, relazioni poliamorose e situazioni di questo genere.

Effettivamente sono fenomeni sempre più diffusi, più di quanto si possa pensare.

C'è qualcosa di profondamente antico in queste dinamiche.

I Padri del deserto – Evagrio Pontico, Giovanni Cassiano – chiamavano logismoi quei pensieri insistenti, quelle suggestioni che iniziano come sussurri innocui nella mente e gradualmente si trasformano in ossessioni capaci di sovvertire l'intera architettura interiore della persona. Ciò che inizia come curiosità, come desiderio di "esperienza", come legittima ricerca di autenticità – "perché dovremmo reprimerci?" – segue la stessa dinamica dei logismoi: un pensiero che bussa alla porta, che promette libertà, espansione, vita più piena. E che, una volta accolto senza discernimento, colonizza progressivamente lo spazio della relazione.

La trasgressione ha sempre esercitato fascino perché promette di liberare dai limiti. 

I Padri del deserto comprendevano qualcosa che l'individualismo moderno fatica a cogliere: eliminare ogni confine non è liberazione, è dissoluzione.

Quando si smantellano questi confini in nome della libertà assoluta, non si trova uno spazio più ampio, ma la dispersione. Come i logismoi che promettevano pace interiore e lasciavano invece frammentazione.

Le relazioni aperte o poliamorose spesso nascono da un'illusione: quella dell'io completamente sovrano, padrone dei propri desideri, capace di compartimentalizzare i sentimenti come se fossero caselle di un'agenda.

I Padri del deserto sapevano che i logismoi prosperano proprio su questa illusione di controllo. "È solo un pensiero, lo gestisco io", diceva il monaco. "È solo un'esperienza, siamo maturi", dicono le coppie. Ma l'eros ha logiche proprie, non negoziabili. La gelosia, l'attaccamento, il senso di unicità non sono "costrutti sociali" facilmente decostruibili: sono strutture profonde della psiche relazionale.

I Padri non condannavano il desiderio in sé, ma insegnavano il discernimento: non ogni pensiero va coltivato, non ogni impulso va assecondato. Esisteva una saggezza dei confini, una comprensione che la libertà autentica non è assenza di limiti, ma capacità di scegliere quali limiti abbracciare per costruire qualcosa di solido.

Oggi questa saggezza appare incomprensibile, per la psicologia moderna trattasi di repressione, paura, mancanza di coraggio. Invece è l'opposto: è il coraggio di dire "questo sì, questo no", di costruire un'identità relazionale definita.

Le testimonianze parlano chiaro, è pieno di coppie distrutte da esperimenti partiti come "innocui". Non per moralismo, ma perché certe porte, una volta aperte, non si richiudono facilmente. 

La tradizione monogamica non nasce solo da convenzione sociale, ma da un'intuizione profonda sulla natura dell'amore tra due persone: che fiorisce in un giardino recintato, non in un campo aperto a tutti i venti.

I logismoi dei Padri e i desideri trasgressivi contemporanei condividono la stessa seduzione: promettono di più, consegnano frammentazione. 

Riflettere.


Pensioni

Si parla spesso di aumento o diminuzione dell'età pensionabile ma questo argomento non viene mai esaminato come si dovrebbe.

La domanda cruciale è: perché lo Stato, in una società che si proclama "libera", deve trattenere forzatamente una porzione del nostro reddito per restituircela decenni dopo? Perché questa insistenza paternalistica su un futuro che potremmo non vedere mai?

La domanda non è meramente economica, è esistenziale. 

Il sistema pensionistico si fonda sul presupposto che vivremo abbastanza a lungo da godere di ciò che ci viene sottratto oggi. Ma la morte non rispetta i piani quinquennali dello Stato. Chi muore a cinquant'anni ha finanziato il riposo altrui, non il proprio. Il suo sacrificio obbligatorio diventa un tributo involontario a sconosciuti più fortunati nella lotteria della longevità.

Dietro la logica previdenziale vi é il paternalismo, i cittadini vengono considerati incapaci di pianificare il proprio futuro, devono essere protetti da se stessi attraverso la coercizione benevola. Lo Stato è il padre che mette da parte i soldi della paghetta, convinto che altrimenti li spenderemmo tutti in caramelle.

Una scelta che dovrebbe essere personale diventa un obbligo collettivo. Trasforma cittadini in dipendenti di un sistema che decide per loro quando, come e quanto del loro stesso denaro potranno utilizzare.

Lo Stato sequestra una porzione significativa del nostro lavoro presente per un futuro ipotetico. Ma il nostro tempo, il nostro lavoro, la nostra vita sono ora. Ogni euro che si guadagna rappresenta ore di esistenza convertite in valore. Perché qualcun altro dovrebbe decidere che una parte di queste ore appartiene non a me oggi, ma a un me stesso settantenne che potrebbe non esistere mai?

Nessuno di noi ha mai avallato questo patto generazionale. Siamo nati dentro un sistema che ci obbliga a finanziare i pensionati di oggi con la promessa che i lavoratori di domani faranno lo stesso per noi. Non c'è possibilità di rifiuto. 

Immaginiamo un sistema diverso: lo Stato restituisce ogni centesimo che attualmente trattiene per la pensione. Sta poi a ciascuno decidere come investire quel denaro. Alcuni potrebbero risparmiare e mettere da parte. Altri potrebbero investire in imprese, immobili, formazione. Altri ancora potrebbero scegliere di vivere pienamente il presente, accettando il rischio di una vecchiaia meno confortevole.

Non sarebbe questo più coerente con i principi di una società "libera"? 

I difensori del sistema attuale invocano la solidarietà intergenerazionale, la protezione dei vulnerabili, il rischio che troppi arrivino alla vecchiaia senza risorse, gravando sulla collettività. Ma questa solidarietà imposta per legge è semplicemente redistribuzione coatta travestita da virtù civica.

La vera solidarietà è la scelta, non la coercizione. 

Chi dovrebbe avere il diritto di decidere come viviamo la nostra vita? Noi stessi, o lo Stato?


Shame, dipendenze e pensieri ossessivi

Shame di Steve McQueen non è un semplice film sulla dipendenza sessuale, ma un'indagine filosofica sulla condizione umana quando il desiderio si trasforma da ricerca di pienezza a meccanismo di fuga.

La dipendenza dal sesso non porta al piacere, ma all'anestesia emotiva, alla lacerazione interiore, al vuoto esistenziale. Ogni "conclusione" sessuale dovrebbe portare sollievo, ma diventa immediatamente necessario ricominciare. È la condanna di Sisifo in versione contemporanea: la compulsione che si rinnova infinitamente, senza mai raggiungere una vera soddisfazione.

Nel film il protagonista Brandon non riesce a fare sesso con la collega di cui si innamora proprio perché c'è un coinvolgimento emotivo reale, mentre riesce a concludere laddove gli incontri sono meccanici, anonimi, svuotati di ogni elemento relazionale. Un circolo vizioso tra compulsione e disgusto di sé.

Anche quando Brandon sembra voler cambiare, il mondo continua a tentarlo. La scena in metropolitana è magistrale nella sua ambiguità: la donna con la fede nuziale ricambia lo sguardo di Brandon. È fidanzata, forse sposata, eppure ammicca. La tentazione non è solo dentro Brandon ma è strutturale alla società contemporanea. Anche chi apparentemente vive nella "normalità" delle convenzioni sociali (il matrimonio, la fedeltà) partecipa a questo gioco di sguardi, di disponibilità sotterranea. Lo stesso accade in discoteca: la donna fidanzata non si sottrae. Il mondo è complice della dipendenza, la alimenta continuamente.

Nelle tradizioni monastiche cristiane, i Padri del Deserto parlavano di logismoi, pensieri ossessivi che assediano l'anima. Non basta il desiderio di purificazione: il mondo, la carne, il demonio - o, in termini contemporanei, la società iper-sessualizzata e la struttura stessa del desiderio - continuano a bussare. La tentazione di Cristo nel deserto non avviene una volta sola: ritorna, si ripresenta sotto nuove forme.

Anche nella tradizione buddhista, Mara - la personificazione dell'illusione e dell'attaccamento - non abbandona il praticante dopo l'illuminazione, ma continua a manifestarsi, richiedendo vigilanza costante.

Non c'è un punto d'arrivo, una guarigione definitiva. C'è solo la scelta continua, rinnovata ogni giorno, ogni ora. La dipendenza, quindi, non porta solo alla distruzione della capacità di amare e connettersi autenticamente. Porta a una forma di inferno esistenziale dove anche il desiderio di cambiare non basta, perché il mondo stesso è strutturato per riattivare continuamente la compulsione.

Spensieratezza rubata

Ci sono bambini di quattro/cinque anni che hanno l'agenda più piena di un manager.

Lunedì inglese, martedì nuoto, mercoledì musica, giovedì calcio, venerdì teatro. Non sia mai che "perdano tempo" o restino "indietro".

A quattro, cinque anni invece di scoprire il mondo con meraviglia, imparare la noia, inventare giochi con due cuscini e una coperta, li riempiono già di aspettative, di obiettivi da raggiungere. 

È pochissimo é poi il tempo che rimane per giocare spontaneamente con gli amici del parco, perché "deve sviluppare i suoi talenti".

I bambini hanno bisogno di noia. Di tempo vuoto da riempire con la fantasia. Di ginocchia sbucciate. Di pomeriggi a non fare "niente di produttivo". Hanno bisogno di provare e riprovare senza pubblico, di essere mediocri in qualcosa senza sentirsi inadeguati.

Non stanno preparando un curriculum. Stanno vivendo una fase della vita meravigliosa.

E invece li si carica di ansia da prestazione prima ancora che sappiano leggere. Li si guarda con sospetto se non sono "al livello" degli altri, se preferiscono giocare con la terra invece che imparare la terza lingua. Come se l'infanzia fosse un investimento da ottimizzare e non un tempo prezioso da vivere.

I bambini devono semplicemente  essere bambini. Correre senza meta, ridere, inventare cose. Crescere senza bruciare le tappe senza entrare nelle logiche della competizione perenne.

Spensieratezza rubata.

Piccoli adulti stressati crescono.



Ulisse e le sirene digitali

Nell' Odissea, Ulisse affronta una delle prove più simboliche del suo viaggio: il passaggio davanti all'isola delle Sirene. Creature ammalianti che promettevano piacere supremo, ma il loro richiamo conduceva alla rovina. L'eroe greco, consapevole del pericolo, si fece legare all'albero della nave mentre i suoi compagni remavano con le orecchie sigillate dalla cera.

Dopo secoli quel mito risuona potentissimo nel nostro quotidiano. Ogni giorno, come moderni Ulisse, si naviga in un mare di tentazioni.

Qualche esempio concreto?

Le sirene digitali, il mondo degli smartphone promette connessione col mondo ma in realtà isola. Lo vediamo cosa è accaduto negli anni, strade vuote, ragazzi che escono assieme ma ognuno sta ricurvo sul suo telefono, coppie e famiglie che quando si ritrovano rifuggono negli schermi e potremmo continuare a lungo con l'elenco.

Le sirene del consumo compulsivo che mascherano il vuoto che nessun oggetto potrà mai colmare.

Le sirene dell'ego tentano con la gloria effimera dei social media, dove tutti si mettono in mostra, dove ogni like diventa una piccola dose di validazione, ogni commento una conferma della propria esistenza. L'ego si gonfia mentre si perde connessione con se stessi.

Le sirene della lussuria digitale che operano nell'ombra della privacy dello schermo. Promettono emozioni intense, evasione dalla routine, eccitazione senza conseguenze. Attraverso app, piattaforme di incontri, sussurrano che possiamo avere tutto senza pagare alcun prezzo. In realtà poi accade che famiglie si disgregano, fiducia accumulata in anni si dissolve in un istante, e ciò che prometteva piacere lascia solo macerie di dolore e rimpianto.

Il tutto esattamente come le sirene antiche le quali promettevano per poi condurre alla distruzione.

La differenza tra noi e Ulisse è che lui conosceva la natura del pericolo e si era preparato. Molti di noi invece navigano sguarniti senza corde che tengano saldi. Ci si racconta che "sono solo curiosità", che "non sta succedendo nulla di male", che "posso controllare", proprio mentre le correnti trascinano verso gli scogli.

La saggezza antica insegna che la libertà non è l'assenza di tentazioni, ma la consapevolezza di esse e la scelta consapevole. È necessario dunque riconoscere le sirene per ciò che sono: illusioni che promettono ciò che non possono dare, che offrono piacere momentaneo in cambio di tesori duraturi come l'integrità, la fedeltà, la fiducia reciproca. Gli ancoraggi sono la meditazione, la preghiera, la riflessione onesta su ciò che realmente conta, la coltivazione di relazioni autentiche e la presenza consapevole. È l'impegno verso questi elementi la corda che tiene saldi all'albero maestro.

Videogiochi e social network

Non tutti gli schermi sono uguali.  

I tanto criticati classici videogiochi da console distruggevano la capacità di concentrazione dei ragazzi? Avevano lo stesso effetto dei social media che frammentano l'attenzione?

In un classico videogioco (non parliamo ovviamente dei giochini passatempo dopaminici da smartphone), si è dentro un mondo, c'è un obiettivo, una sfida, un percorso. L'attenzione non viene dispersa ma concentrata, orientata verso un fine.

I social media, al contrario, sono un flusso infinito di frammenti sconnessi. Non c'è una meta, non c'è una narrazione. Si scrolla in un eterno presente discontinuo, dove ogni contenuto nega quello precedente e annuncia quello successivo, senza mai costruire un senso compiuto.

Quando l'attenzione di un giovanissimo viene costantemente frammentata, è l' identità ad andare in confusione poiché l'io si costituisce attraverso la continuità dell'esperienza, attraverso un filo narrativo. Se questo filo si spezza ogni tre secondi, si diventa una collezione di istanti sconnessi. 

Il filosofo William James scriveva che "la mia esperienza è ciò a cui acconsento a prestare attenzione". Ma quando l'attenzione è catturata, algoritmo dopo algoritmo, da meccanismi progettati per trattenerla, cosa rimane?

I social media sfruttano un principio ancestrale della mente: l'attrazione verso il nuovo. Offrono novità come fine a sé stessa, come pura stimolazione senza contenuto.

L'attenzione è la forma più pura di libertà che si possiede. Decidere a cosa prestare attenzione significa tutto, a partire dal tipo di persona che si vuole diventare. 

Quando si cede il controllo dell'attenzione a meccanismi esterni, si diventa inautentici, guidati dal flusso impersonale della distrazione collettiva.