“Lo avrei fatto anche io, non siamo ipocriti!”
Quanto volte abbiamo sentito questa frase di fonte ad
una notizia in cui un calciatore sceglie di accettare offerte in cui triplica
il suo stipendio? Come se si stesse parlando di un lavoratore qualsiasi.
Signori, quando un calciatore guadagna già 4 milioni
all'anno, il salto a 12 milioni rappresenta davvero un cambiamento di vita? O è
piuttosto la manifestazione di un'avidità che ha perso ogni misura? Il paragone
con l'operaio è fuorviante e quasi offensivo. L'operaio che passa da 1000 a
3000 euro cambia realmente la sua esistenza: può permettersi una casa migliore,
le vacanze per i figli, la sicurezza economica per la famiglia. Ma quando si è
già multimilionari, l'ulteriore accumulo di ricchezza diventa un gioco di
numeri astratti, cifre su un conto corrente che non modificano sostanzialmente
la qualità della vita.
Quello a cui stiamo assistendo è l'erosione
sistematica di valori che una volta definivano lo sport: l'ambizione
competitiva, la ricerca dell'eccellenza, il desiderio di misurarsi con i
migliori. Il calcio saudita, rimane un campionato di second'ordine rispetto
alle grandi leghe europee. Un giovane talento che sceglie Riyadh invece di
Manchester, Milano o Madrid sta rinunciando alla possibilità di scrivere la
storia del calcio, di vincere coppe, di giocare Mondiali da protagonista con
una nazionale competitiva alimentata da un campionato di livello.
Vogliamo poi parlare dell'accettazione di contesti autoritari? Proprio da quell’Occidente che fa quotidianamente retorica sui “diritti”? Quando un calciatore sceglie l'Arabia Saudita, non sta solo prendendo una decisione economica - sta implicitamente avallando un sistema dove i diritti umani, specialmente quelli delle donne, sono sistematicamente violati. Le mogli e le figlie di questi calciatori si trovano a vivere in un paese dove non possono guidare liberamente, dove devono coprirsi, dove la loro libertà è limitata. È questo il prezzo che si è disposti a pagare per qualche milione in più? I grandi valori degli occidentali.
Quando un ventenne sceglie il denaro facile
dell'Arabia invece della sfida europea, che messaggio trasmette, che esempio dà
alle nuove generazioni? Che l'ambizione sportiva è meno importante del conto in
banca. Che i valori si possono vendere al miglior offerente.
Questa deriva del calcio è solo lo specchio di una
società dove tutto ha un prezzo e niente ha un valore. Dove il successo si
misura esclusivamente in termini monetari e dove la ricerca del profitto
giustifica qualsiasi compromesso etico.
Il calcio ha sempre avuto una componente economica,
ma quando questa diventa l'unica bussola, si perde l'essenza stessa della
competizione sportiva. Possiamo ancora chiamarlo sport quando le decisioni sono
dettate esclusivamente da logiche finanziarie?