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Vivere in città

Si legge che nel 2030 circa il 70% delle persone vivrà in città. Per molti aspetti sembra impossibile vivere lontano dai centri urbani perché ciò significa dover far fronte a diverse scomodità come la carenza di servizi, di alcuni beni di consumo e di trasporti pubblici.
Una forte spinta all’urbanizzazione si verificò con la seconda Rivoluzione industriale, quando masse di contadini si trasferirono nelle zone periferiche delle città per soddisfare la richiesta di forza lavoro a basso costo nelle fabbriche. Ancora oggi le città rappresentano una forte attrattiva, meta di rilevanti flussi migratori, e questa tendenza non riguarda solo le metropoli del sud del mondo; le megalopoli come Tokyo, Shanghai, Giacarta e Nuova Delhi sono le più popolose, con una popolazione che supera i 30 milioni di abitanti. Veri e propri formicai in cui si sopravvive accatastati gli uni sugli altri, respirando aria inquinata, bevendo acqua in bottiglia e rintronandosi di rumori di folla e di traffico. La gestione istituzionale delle città è spesso fallimentare: la miriade di rifiuti, la delinquenza, l’accattonaggio, gli ingorghi stradali, il moltiplicarsi di richieste di assistenza sociale, l’impatto energetico, ecc.
Nonostante gran parte della popolazione mondiale si trasferirà nelle città nel prossimo futuro, è indubbio che gli ambienti urbani siano invivibili: vivere in condizioni di sovraffollamento, come è già stato osservato negli animali da allevamento intensivo, causa sofferenza psichica e aggressività.

Il famoso etologo Konrad Lorenz, nel 1973, scriveva: “l’accalcarsi di molti individui in uno spazio ristretto” dà luogo a “manifestazioni di disumanità, ma scatena anche direttamente il comportamento aggressivo”, inoltre “l’amore per il prossimo, per un prossimo troppo numeroso e troppo vicino, si diluisce sino a svanire senza lasciare più traccia.”
Peraltro vivere in città significa esporsi maggiormente al controllo sociale, al confinamento in caso di pretestuose nuove emergenze (ecologiche, sanitarie, terroristiche, energetiche) o al razionamento di risorse.
I tentativi di depopolamento, che si può immaginare si faranno progressivamente più violenti e più mirati, avranno come punto di partenza le città, un facile obiettivo data l’alta concentrazione di persone. 


AM

La retorica dell'insegnante "intoccabile"

Abbiamo appena letto l’ennesimo articolo in cui si leggono affermazioni di questo tenore: “Prima un insegnante era visto come una figura di riferimento in continuità con la famiglia. Ora il suo ruolo è messo in discussione, così come quello della scuola."

Basta con la retorica dell'insegnante come figura intoccabile. Oggi, per come è strutturata la scuola, per come vengono scelti gli insegnanti (spesso ignoranti con lauree a crocette), il genitore DEVE essere vigile. Sentiamo spesso dire che "una volta l'insegnante era rispettato, ora no". Ma rispetto per cosa? Per il ruolo o per la competenza? Perché se parliamo di competenza, allora bisogna prendere atto che sempre meno insegnanti sono all'altezza del compito educativo dei nostri figli.

La cattedra non è un pulpito. La laurea non è un salvacondotto per l'incompetenza. E il nostro silenzio da genitori non è rispetto, è negligenza. Quando affidiamo i nostri figli alla scuola, non stiamo consegnando un pacco. Stiamo condividendo la responsabilità più grande che abbiamo: l'educazione delle nuove generazioni. Questo significa conoscere chi insegna ai nostri figli, verificare la qualità e i programmi dell'insegnamento, intervenire quando necessario. Non è "mancanza di rispetto" chiedere spiegazioni a un insegnante. Non è "ingerenza" pretendere qualità e chiarezza. Non è "essere genitori invasivi" volere il meglio per i propri figli. È semplicemente essere genitori responsabili.

Ovviamente vigilanza non significa difesa aprioristica. Il genitore vigile non è quello che va a scuola a fare scenate per ogni voto basso o richiamo. Non è quello che trasforma ogni segnalazione negativa in un attacco personale al proprio figlio. Il genitore responsabile sa distinguere tra un insegnante incompetente che va contestato e uno competente che sta facendo il proprio lavoro educativo. Perché sì, è vero, esiste anche l'altra faccia della medaglia: genitori che scambiano la protezione del figlio con la negazione della realtà. Che preferiscono accusare l'insegnante piuttosto che affrontare le difficoltà o i comportamenti problematici dei propri figli. Ma questo è un altro discorso.

Bisogna intanto rendersi conto che oggi l'insegnamento raramente è in mano a persone competenti e rigettare la stantia retorica dell’insegnante intoccabile solo per il suo status.

I nostri figli devono avere insegnanti validi. E se questi insegnanti non ci sono, è nostro dovere accorgercene ed agire. 



L'ideologia del successo

"Tutto è possibile se ci credi davvero". Questa affermazione, apparentemente liberatoria, nasconde in realtà una trappola culturale di proporzioni enormi.

"Trasformati, dedicati completamente e conquista i tuoi obiettivi": è un imperativo che riecheggia ossessivamente sui canali digitali.

Dietro la facciata di competenza autorevole di un consulente, la mitologia della realizzazione si manifesta frequentemente come un'accettazione acritica dell'architettura sociale in cui siamo immersi, portata ai suoi estremi più radicali. L'adorazione per il paradigma liberista si trasforma in un'estetica esistenziale, cessando di essere un semplice orientamento politico per diventare un modo di essere nel mondo: l'individualista perpetuamente motivato.

Brillante, determinato e pervaso da un ottimismo incrollabile: questo è il prototipo umano che viene promosso come via verso la realizzazione. Il guru si presenta come colui che, avendo raggiunto il successo, possiede le chiavi per svelare agli altri come capitalizzare le illimitate possibilità che il mondo offre, apparentemente nascoste dietro veli di inerzia e mancanza di determinazione.

Il segreto della realizzazione, tanto nella sfera professionale quanto in quella privata, viene ridotto a una ipotetica metamorfosi dell'individuo che esclude completamente qualsiasi possibilità di trasformazione del contesto sociale.

La progressione professionale, concepita come una competizione isolata che sacrifica ogni altro aspetto dell'esistenza, diventa l'unico teatro in cui dimostrare il proprio valore umano.

La visione del mondo promossa dai guru digitali non è altro che un sostegno ideologico del modello socioeconomico in cui siamo inseriti. L'estetica del trionfo non si configura come una filosofia di vita personale, ma piuttosto come un rinforzo politico di un sistema che opprime sistematicamente i cosiddetti "falliti" della società.

Chi fallisce di fronte a tale “ideologia del successo” sviluppa stati d'animo come l’ansia, il narcisismo patologico e la depressione, fallimenti personali di cui provare vergogna.

Questa narrazione tossica del successo a ogni costo non rappresenta una liberazione individuale, ma una forma sofisticata di controllo sociale. Dietro la retorica motivazionale si nasconde un meccanismo che trasforma le disuguaglianze strutturali in fallimenti personali, scaricando sull'individuo la responsabilità di problemi sistemici.


L'Uomo con Nessun Nome

Clint Eastwood è un artista che ha attraversato oltre sei decenni di carriera mantenendo sempre una visione personale e indipendente, sfidando costantemente le convenzioni di Hollywood e creando un linguaggio cinematografico inconfondibile.

Eastwood inizia la sua carriera come attore negli anni '50, ma è con la trilogia del Dollaro di Sergio Leone che diventa un'icona mondiale. L'Uomo con Nessun Nome non è solo un personaggio, ma l'archetipo di un nuovo tipo di eroe: silenzioso, enigmatico, moralmente ambiguo.

La sua filosofia è chiara fin dall'inizio: mantenere il controllo creativo totale sui propri progetti.  Nel 1967 difatti Eastwood fonda la sua casa di produzione, la Malpaso Productions, una mossa visionaria che gli garantisce libertà creativa assoluta. Questa decisione gli permette di scegliere personalmente i progetti da sviluppare, mantenere il controllo artistico su ogni aspetto della produzione, lavorare con budget contenuti ma efficaci, girare rapidamente senza le pressioni degli studios.

L'universo narrativo di Eastwood è caratterizzato da temi profondi e universali come la redenzione, la violenza e le sue conseguenze, i contraddittori miti americani, l’invecchiamento e la morte.

Il suo linguaggio cinematografico è caratterizzato da minimalismo espressivo, nessuno spazio per virtuosismi gratuiti. La macchina da presa serve la storia, non il contrario. I suoi film respirano con il tempo della vita reale, senza forzature narrative.

Eastwood ha dimostrato che è possibile fare cinema d'autore dentro il sistema hollywoodiano. In un'industria dominata da logiche propagandistiche e commerciali, rappresenta un esempio di come sia possibile mantenere la propria visione artistica senza compromessi. I suoi film non seguono le mode del momento ma attingono a temi universali e senza tempo.

Da sottolineare la sua resistenza alle convenzioni del linguaggio politicamente corretto. Clint ha sempre mantenuto un approccio critico verso i nuovi codici comunicativi imposti dall'industria dell'intrattenimento, i suoi film non seguono i diktat della sensibilità contemporanea sui linguaggi inclusivi o sulle rappresentazioni "corrette" dei personaggi.  

Non aderire ai modelli propagandistici hollywoodiani, per una icona di quel sistema, è una medaglia al valore.

Leggenda vivente.



Surrogati

La scuola, componente strutturale di una società, dovrebbe svolgere un ruolo fondamentale di inculturazione, acculturazione e, direbbe Talcott Parsons, di integrazione e mantenimento dei modelli latenti.  Eppure, questa labile istituzione, invece di ergersi a baluardo dei repentini e spesso irragionevoli mutamenti sociali spesso indotti da poteri sovrastrutturali che hanno il solo intento di modellare la società secondo i propri fini, si piega passivamente o peggio, di buon grado, alle imposizioni provenienti dall’alto. Al ritmo di incalzanti corsi di formazione finanziati dall’esiziale Pnrr, la scuola apre i boccaporti alla digitalizzazione e così si riempiono le stive di corsi destinati ai docenti per imparare a usare gli algoritmi di IA nella didattica: lezioni, verifiche e slide vengono realizzate usando ChatGPT di OpenAI, Gemini di Google o Llama di Meta.
Caricata di zavorra, la scuola si barcamena nelle torbide e insidiose acque delle aziende del digitale che si infiltrano nelle crepe del sistema scolastico. L’assoggettamento dei docenti è facile: per lo più si tratta di una mandria che a malapena sa usare gli indici per digitare goffamente sulla tastiera, guarda con occhi bovini lo schermo e propina agli adolescenti lezioncine piatte e banali intervallate da film e lavori di gruppo.
Negli anni la scuola ha accettato di tutto: dal progetto CLIL (lezioni su argomenti curricolari in lingua straniera: l’abominio di studiare Platone in inglese), all’educazione alla legalità (carabinieri in divisa che spiegano, portando ad esempio i propri figli, quanto sia illecito drogarsi o bullizzare i compagni di classe), o ancora le lezioncine sulla pericolosità delle fake news (meglio affidarsi ai ‘professionisti dell’informazione’ come Open).
Come una nave stracarica di cianfrusaglie, la scuola affonda trascinando con sé quei pochi docenti e alunni che vorrebbero una scuola diversa, tradizionale e autentica, capace di contrapporsi orgogliosamente ad un mondo esterno marcescente, che si conservi integra, rimanendo se stessa, un fortino dalle mura spesse e impenetrabili, dove la cultura, i libri, le lezioni frontali, socratiche e peripatetiche risuonino fiere nelle sue stanze.
Ma forse il suo destino, frutto di un accumulo di docenti che non supererebbe nemmeno il test di Turing, è proprio quello di trasformarsi in una macchina al servizio di surrogati dell’insegnante: chat bot che assistano emotivamente gli alunni, che si rivolgano a loro con una didattica personalizzata, che li supportino nel loro percorso di obbedienti subalterni. 



AM